Anche quest’anno abbiamo deciso di seguire praticamente “in diretta” lo svolgimento della Heiva, la più importante manifestazione di danza della Polinesia Francese. L’edizione 2016, appena iniziata, si presenta particolarmente ricca: grande affluenza dei gruppi iscritti al concorso, ben 41, tanto che la durata dalle consuete due settimane è stata prolungata a tre.
Come sempre grande emozione nella prima serata, apertasi, dopo il discorso del ministro della Cultura, con la sentita cerimonia tradizionale del rahiri, durante la quale i membri della giuria si presentano e scambiano foglie di banano con i ra’atira, i capi gruppo, segno di pace, accettazione e di rispetto (a volte accettare il verdetto è dura…).
Il gruppo Papara To’u Fenua nella categoria Hura Ava Tau, amatori, ha inaugurato la serata allo stadio Tahu’a To’ata. Il tema della loro danza, attuale e toccante, racconta come un corso d’acqua sia sparito, ripercorrendone la vita, dall’infanzia alla sua triste morte.
A seguire, le due ottime corali Pupu Tuha Pa’e e Te Pape Ora No Papofai (vincitrice della scorsa edizione) hanno cantato le loro leggende: la stessa del tema di danza per il primo gruppo, che vanta la presenza di numerose giovanette, tutte innamorate del bel conduttore Oscar Hatitio; la magnifica natura che circonda Papeete per il secondo coro, che si è esibito in armonici vocalizzi.
Attesissimo O Tahiti E di Marguerite Lai, primo gruppo professionista a entrare in scena danzando sulla gioia espressa con la risata: ’ata ’ata.

La fiaba “ecologista” di Vaihihi

Ecco il testo presentato dal gruppo Papara to’u fenua, scritto da Béatrice Le Gayic. È la storia di Vaihihi, “l’acqua che riflette i raggi del sole” (vai, acqua; hihi, raggi di sole).

Vaihihi è la sorgente che si trova al centro del territorio di Papara: ha fatto molto per la popolazione ma oggi si è seccata. Ascoltiamo attentamente Vaihihi che ci racconta la sua vita.

La mia nascita

Non sono nata dall’oceano, sono la figlia della terra e del cielo. Come ogni essere umano sono figlia di una madre, la terra, e di un padre, il cielo. La mia nascita non ha nulla di straordinario. I miei genitori mi hanno procreato in cima a una montagna chiamata “monte Tearatapu”. Alla nascita ero già molto grande e mio padre voleva che fossi subito capace di sgambettare per poter al più presto scoprire la terra e l’oceano. Così sono nata da un grosso acquazzone e la mia dimora permanente è la montagna Tearatapu.
I miei primi passi non sono stati facili. Sono precipitata dalla montagna Tearatapu a grande velocità cadendo da parecchi metri d’altezza, provando la paura più grande della mia vita, avevo le vertigini! Davanti a questa caduta, voi la trovate magnifica e la guardate esclamando: “Oh, che bella cascata…”
Il mio primo contatto con la base della montagna avvenne con rudezza, sono caduta su una grossa pietra. Questa mi ha spinto prima a sinistra poi a destra, in avanti, indietro. Posso affermare di essere stata sballottata in tutti i sensi. Ma a forza di perseverare, sono riuscita a uscire da questa  maledetta pietra ed è così che ho potuto cominciare la mia crescita.
Mio padre mi fortificava inviandomi delle grosse piogge, mia madre mi accoglieva in una pozza per aiutare il mio sviluppo. Questa tappa della mia crescita è stata importante per aiutarmi ad affrontare il lungo tragitto che avrei dovuto percorrere per arrivare nel grande oceano. Per questo ho costruito un bacino d’acqua ai piedi della montagna Tearatapu.

La mia gioventù

Una volta riempito il bacino, ho cominciato a fare le mie prime scappate nella natura che si offriva davanti a me. All’inizio ero esitante come ogni adolescente e non ero molto disponibile. Serpeggiavo e mia madre non cessava di dirmi di non disperdermi, le mie scelte erano importanti affinché tracciassi il mio letto per essere un’adulta responsabile. Mia madre mi ha molto aiutata nella mia educazione. Mentre scavavo il mio letto, mi indicava i nomi della vallata e delle terre che attraversavo.
Dalla mia montagna Tearatapu ho costruito il mio bacino, ho scoperto la vallata Teti’a, la terra Ape’a, la terra Pafata e la foce, per ritrovarmi in pieno oceano Pacifico.

La mia vita al servizio degli altri

Dopo parecchi giorni, sono riuscita a tracciare il mio letto. Si può dire che sono diventata adulta. Grazie al mio lavoro, le terre che attraversavo beneficiavano della mia acqua. È così che ho potuto partecipare alla rinascita degli alberi come gli uru, albero del pane, i purau, hibisco selvatico, gli alberi di guaiava, le felci e via di seguito.
In più, altri esaltati come me mi hanno raggiunto. Grazie al nostro incontro ho potuto adottare degli animali, come le anguille e i gamberetti che si nutrivano dei frutti degli alberi che costeggiavano il mio letto.
La vita era bella, si viveva in armonia.
Gli animali terrestri, gli uccelli, venivano a rinfrescarsi nella mia acqua. Gli alberi, le piante erano vitali grazie alla mia acqua e mi proteggevano con la loro ombra dai raggi del sole che non esitava a fare evaporare la mia acqua, senza contare i miei gamberetti e le mie anguille che si lanciavano ogni giorno in una feroce battaglia nelle mie viscere.
Quello che mi ha segnato è stato l’incontro con il nuovo mondo, con il mondo dell’oceano.
L’acqua era salata, gli animali più numerosi e non li conoscevo affatto. Mi sentivo eterna, ma più avanzavo, più non ero me stessa. Al largo sparivo poiché la forza dell’oceano era superiore alla mia.
Non potevo vivere nell’oceano per il fatto che ero nata da lui.
La mia acqua è come la vita, un giorno muore, un altro giorno rinasce. Così è la vita…
Poi nella mia vita arriva l’essere umano. Veniva con la famiglia nel mio bacino a fare il bagno. A volte le mamme venivano a lavare i loro vestiti, non mi davano fastidio perché usavano prodotti che non nuocevano alla mia salute.
L’uomo prendeva le mie anguille, i miei gamberetti, anche questo non mi disturbava perché ne avevo a sufficienza. All’inizio l’uomo partecipava alla vita in comune rispettandoci. Faceva in modo che la vita degli animali e della foresta fosse presente e in gran numero. A volte aveva bisogno di me per pulire il suo caffè, per costruire la sua casa, per annaffiare i suoi fiori, anche in questo non mi disturbava perché avevo abbastanza acqua per vivere e per far vivere gli altri.

La mia sofferenza

In seguito fu sempre più complicato. L’uomo cominciò a farmi uscire dal mio letto per i suoi bisogni, facendo seccare una parte di me, demolì le mie sponde sostituendole con le proprie che mi sfiguravano, saccheggiò le mie anguille e i miei gamberetti rendendomi orfana, riversò rifiuti di ogni genere rendendomi brutta e sporca.
Malgrado questo, facevo in modo che mio padre mi alimentasse di acqua potabile, evacuavo nell’oceano le sporcizie che l’uomo gettava nel mio letto.
Ogni volta che facevo questo lavoro penoso e disonorevole, l’oceano era furioso. Era in collera perché il suo ruolo non è quello di essere una discarica. Quando si infuriava formava delle grosse onde per riversare i detriti sulla spiaggia degli uomini. Ma l’uomo persisteva nel suo lavoro di distruzione.
Per tutti questi motivi ho iniziato a nascondermi nel sottosuolo, perché non volevo più vedere l’animale più cattivo di questo mondo. Sì, l’animale cattivo che io nomino è l’essere umano. Lui che amava rimirarsi nei riflessi della mia acqua, oggi non riesco più a guardarlo in faccia, mi ha affossata.
Così Papara to’u fenua, conto su di voi perché tutte le sorgenti, i corsi d’acqua, i fiumi, gli animali, gli uccelli, gli alberi e tutto quello che Dio ha creato non sia più martirizzato, ma protetto e valorizzato.
Se volete rivedermi un giorno perché ridoni la vita come ai bei vecchi tempi, esaudite i miei reclami.
Ecco come è stata la mia vita, grazie di avermi ascoltata.