Prima che il cristianesimo mettesse a soqquadro (o quanto meno ci provasse) la secolare cultura religiosa pagana delle popolazioni celtiche, sia al di qua che al di là della Manica, i legami fra la Britannia (l’odierna Gran Bretagna) e la Gallia Lugdunensis (la parte di territorio francese della quale faceva parte l’odierna Bretagna) erano particolarmente stretti: esisteva, infatti, una sorta di pantheon che annoverava sia divinità riconosciute e adorate da tutte le tribù dei popoli celtici, sia divinità locali, protettrici della singola tribù, del singolo villaggio, di uno specifico luogo, fosse questo un monte, un corso d’acqua, eccetera.

I culti pre-cristiani

All’atto della conquista dei vari territori, i romani avevano l’abitudine di riorganizzare nel “loro” pantheon gli dèi degli altri popoli entrati a far parte dell’impero, così da poter identificare e sovrapporre ai nomi di tali divinità quelli dei propri dèi e le loro “funzioni”; lo stesso avveniva nel caso trovassero eventuali altre creature sovrannaturali, che finivano anch’esse assorbite o aggiunte al pantheon romano. Può sembrare una visione semplicistica, e non tutti gli storici concordano con essa, ma i romani – si sa – erano un popolo pratico e abituato a semplificare la realtà per evitare anche inutili conflitti con le popolazioni che via via entravano nell’àmbito dei loro domini, purché ovviamente ne accettassero la supremazia e la gestione amministrativa; era sufficiente che riconoscessero il potere centrale di Roma e del governatore locale, versando i tributi dovuti; e poi in àmbito religioso era sufficiente che non mettessero in dubbio gli dèi del pantheon di Roma, ai quali potevano aggiungerne di propri, quanti ne volevano.
Per questa ragione, non è facile oggi identificare con precisione nomi e funzioni delle divinità bretoni prima della conquista romana. I celti delle Gallie – e quindi anche i bretoni – adoravano diverse divinità di cui oggi conosciamo giusto il nome, e talvolta nemmeno quello. Per esempio, lo stesso Cesare elenca le principali divinità del territorio gallico appena conquistato nei suoi Commentari de bello gallico, facendone però una sua arbitraria interpretazione e senza riportarne i nomi originari celtici, né distinguendo sempre le tribù dalle quali quelle divinità erano adorate: secondo lui, i galli onoravano soprattutto il dio che i romani chiamavano Mercurio, anche se “localmente questo dio assumeva nomi diversi”, e in seconda battuta gli dèi identificati con Apollo, Marte, Giove e Minerva. Oltre ai suddetti cinque, Cesare menziona il dio dell’oltretomba, Dis Pater, da cui tutti i popoli celtici secondo lui discenderebbero.
Marco Anneo Lucano, storico e poeta vissuto successivamente a Cesare, riporta i nomi gallo-celtici delle principali divinità locali identificando una sorta di trinità composta da Taranis, dio del tuono (ma anche divinità solare e dio del cielo), Toutatis, dio della guerra, ed Esus, dio supremo al quale dovevano essere tributati anche sacrifici umani (è come se le caratteristiche degli dèi fossero quasi intercambiabili a seconda della regione).
Secondo alcune ricostruzioni di storici moderni, il Mercurio gallico di cui parla Cesare sarebbe invece equiparabile al dio Lugus; secondo altri questa divinità, adorata anche dai bretoni, sarebbe invece da agganciare al romano Apollo, mentre Mercurio corrisponderebbe a Manan Mac Lir, Giove a Dagda (adorato sicuramente anche nell’isola d’Irlanda), e così via. Altri, come accennavamo, rimangono invece del tutto scettici rispetto al tentativo di trovare necessariamente una corrispondenza tra le divinità del pantheon gallico e celtico (anche per le diverse raffigurazioni trovate di queste divinità in reperti archeologici d’età pre-romana) con quelle del pantheon dei romani.

Cernunnos.

I bretoni adoravano tuttavia anche divinità naturali, come confermano le figure trovate dagli archeologi su manufatti votivi, come Cernunnos, il dio-cervo, una sorta di divinità primordiale che aveva la funzione di dio della natura e delle foreste, ma anche di dio della fertilità, e formava con Dana (una sorta di dea madre) la coppia che aveva dato vita a tutte le altre divinità celtiche. Su altri nomi di divinità dell’area celtica (Epona, protettrice dei cavalli, Damona, dea delle fonti, eccetera) si hanno invece notizie meno sicure.

I druidi: non solo “sacerdoti”

Notizie ben più sicure sulla religiosità dei bretoni e sui legami tra i celti al di qua e al di là della Manica, si hanno invece nel considerare una figura centrale nei culti di questo grande e variegato popolo, quella del druido. Una sorta di figura sacerdotale, ma non solo: sebbene le interpretazioni non concordino sul significato da attribuire a questo termine e sulle reali funzioni delle persone che rivestivano questa carica, si è certi che si trattava di una vera e propria casta, costituita da una élite intellettuale dedita al perpetuarsi della conoscenza prim’ancora che alla gestione della trascendenza e dei riti sacri.
È sempre Giulio Cesare a riferire come la dottrina dei druidi fosse nata nella Britannia al di là della Manica, e che per istruirsi a fondo i druidi della Gallia (quindi della Bretagna) si recassero per lunghi periodi presso i maestri druidi britanni, evidentemente considerati i maestri della sapienza collettiva. 1)
In tal modo, essendo in possesso di una conoscenza comune a tutti i celtici, diventavano i detentori della cultura sociale e delle pratiche religiose di ciascuna tribù, si occupavano delle cerimonie e dei riti religiosi officiati soprattutto nei boschi, davanti a una quercia (albero sacro per i druidi, tanto che secondo Plinio il giovane lo stesso nome druido deriverebbe dalla parola greca δρύς, che significa appunto quercia), ma avevano anche il compito di istruire i giovani; e per questo erano esentati dal pagamento dei tributi e dalla partecipazione alle attività militari, assumendo così una formale veste sacerdotale.
La formazione culturale dei druidi poteva durare anche vent’anni ed era fondata sull’apprendimento orale. Era fondamentalmente una conoscenza che potremmo definire “esoterica”, che consentiva ai druidi un rapporto quasi paritario con i capi tribù e spesso ne ispirava le azioni, avendo l’incarico di effettuare vaticini e cerimonie rituali e augurali. La loro autorevolezza permetteva inoltre ai druidi di parlare davanti alle persone, anche importanti, prima dei loro stessi capi; e fu proprio questo aspetto che, durante il processo di romanizzazione della Gallia Lugdunensis, preoccupò a tal punto i romani da spingerli a ordinare che tutte le tribù celtiche bandissero ogni manifestazione religiosa collegata alla figura dei druidi.

La Gallia Lugdunensis.

Ancor prima dell’arrivo dei primi monaci cristiani giunti in Bretagna per evangelizzare la popolazione, furono addirittura abbattuti molti degli alberi sacri davanti ai quali i druidi effettuavano i loro riti. Nei loro tronchi nei secoli successivi furono inserite incisioni di croci o poste statuette della Vergine, per coprire con il nuovo culto cristiano l’antico culto druidico che l’albero continuava a ricevere, magari clandestinamente. 2)
Furono finanche ricoperte o sotterrate le pietre o le fonti d’acqua ritenute magiche, poiché anche queste erano comunque luoghi di riti druidici che contrastavano con le logiche della religiosità dei sacerdoti romani prim’ancora che dei cristiani; mentre al loro posto nei secoli successivi vennero edificate cappellette dedicate alla Madonna che pian piano divennero in periodo medievale chiese e santuari sempre più grandi.

Dal paganesimo al cristianesimo

Quanto è avvenuto in Bretagna nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo a partire dal V secolo e fino al XVI, d’altronde, appare davvero come qualcosa di unico. Nella cultura bretone è come se si fossero stratificate una sull’altra le varie credenze, amalgamandosi e sovrascrivendosi le une alle altre senza che si perdesse del tutto il ricordo di quelle che andavano abbandonate, magari per necessità e costrizione. Il culto cristiano, e lo stesso fervore cattolico contemporaneo, possono quindi essere considerati come il risultato di qualcosa di più grande del solo insegnamento dogmatico della Chiesa, in certi casi un raro miscuglio imprevedibile e meraviglioso tra il mondo magico del passato druidico e le credenze religiose comunemente accettate dalla Chiesa ufficiale.
Lo stesso culto per Gesù, per la Madonna e per i santi della tradizione cristiana ha preso spesso il posto di culti locali, che emergono tuttavia in alcuni particolari altrove inesistenti; né si può dimenticare che la Bretagna è piena di santi locali, dai nomi celtici, sconosciuti altrove, che nel culto locale sono stati aggiunti a quelli riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa.
La funzione di tutti questi santi locali, e persino il loro nome, sono spesso noti in un territorio davvero circoscritto, come le divinità locali del paganesimo bretone che in tal modo secondo alcuni avrebbero continuato a essere venerate sotto forma di santi della nuova religione, generando di fatto una situazione per la quale il politeismo sarebbe riuscito a sopravvivere mutando solo formalmente d’aspetto.
Alcuni di essi, secondo le leggende trasmesse oralmente, erano certamente dei pagani cristianizzati; altri corrispondevano ai nobili della Britannia d’oltremanica costretti a fuggire dagli eserciti invasori di angli e sassoni, che come capi religiosi o civili avevano guidato le emigrazioni del popolo della Cornovaglia o del Galles verso il continente. C’è chi ha fatto una lista di queste figure, arrivando a contare quasi novecento santi bretoni, dei quali solo pochissimi hanno reale notorietà, laddove la maggioranza non è conosciuta neppure oltre il raggio di pochi chilometri dal villaggio di cui è magari il personaggio è protettore (o meglio, santo patrono).
Quanto alle notizie sulle loro vite, sono in ogni caso alquanto scarse, il più delle volte avvolte nella leggenda. Tra di loro ve ne sono parecchi aventi legami diretti con la natura e gli animali, come St-Télo e St-Hubért, protettore del cervo, che come abbiamo già visto è uno degli animali alla base del pantheon celtico, nonché una figura mitologica presente spessissimo nelle leggende bretoni. E c’è St-Nicodème che viene sempre associato ai buoi, come anche St-Edern; e poi ancora St-Cornelius, St-Uzec, St-Melar, St-Goulven, e tanti altri.
In tutto si giunge a contare ben ventitré santi diversi protettori di un qualche animale, come se questo fosse il risultato della profonda esigenza di un popolo di allevatori di ingraziarsi il potere sovrannaturale per la difesa del proprio bestiame. Anche se, ovviamente, appare evidente il legame di queste figure con il mondo celtico pre-cristiano, dato che potrebbero semplicemente essere il corrispettivo di analoghe divinità del mondo pagano le quali, agendo nel contesto della natura, continuano di fatto a rappresentare e proteggere l’universo animale. Soprattutto animali con le corna, sicuramente privilegiati tra tutti i popoli di stirpe celtica e germanica, essendo le corna considerate abitualmente simbolo di potenza e forza al punto che le loro fattezze erano assunte a emblema del potere da parte di capi tribù: non è affatto un caso se i capi bretoni, e persino i druidi, avevano l’abitudine di addobbare il proprio capo proprio con delle corna.
Un culto particolare è riservato ai cosiddetti “sette santi”, i “fondatori della Bretagna”: St-Brieuc e St-Malo, provenienti dalle rispettive omonime città, e poi St-Samson de Dol, St-Tudwal de Tréguier, St-Pol Aurélien de Leon, St-Corentin de Quimper e St-Pater de Vannes. Balza certamente agli occhi il senso numerologico-esoterico del sette, il numero perfetto per eccellenza, ma anche il numero simbolo della saggezza: i santi fondatori della Bretagna sono sette come i sette dormienti di Efeso della tradizione orientale.
Il numero sette è legato anche a un prototipo pagano che fu in seguito cristianizzato sotto forme differenti, ma sempre in modo da conservarne il significato numerico trascendente che poi risulta l’elemento essenziale di questa venerazione: è il numero in sé, il sette, infatti, a essere oggetto di adorazione o di mistica religiosa, poiché, secondo varie tradizioni, esso possiede potere taumaturgico (anche Dio nella Bibbia creò il mondo in sei giorni e il settimo si riposò; sette sono le virtù cristiane che racchiudono in sé la perfezione dell’essere; sette è il numero degli arcangeli di cui parla il libro dell’Apocalisse, sette sono i sacramenti, e così via).
Ai predetti sette santi bretoni si aggiunsero poi St-Melaine, primo vescovo di Rennes, e St-Clair, primo vescovo di Nantes. Il tro-breiz (letteralmente, giro della Bretagna) è dal XII secolo una tradizione tipicamente bretone che prevede il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, delle sette (o delle nove, includendo anche quelle di Rennes e Nantes) cattedrali che rappresentano simbolicamente il cristianesimo bretone delle origini, dato che al loro interno si trovano le tombe, oggetto di grande venerazione, dei sette santi (e quelle dei due proto-vescovi), oltre al fatto che le tradizioni popolari su questi santi sono infiorate di innumerevoli miracoli verificatisi proprio nei pressi delle loro tombe.

Un’altra leggenda racconta che coloro i quali non riuscivano o non volevano effettuare questo pellegrinaggio in vita, sarebbero stati costretti a farlo da morti, avanzando ogni sette anni di uno spazio uguale alla misura della loro bara! E che sia ancora oggi un pellegrinaggio molto sentito dalla popolazione, per quanto la sua lunghezza sia di circa settecento chilometri (si sviluppa lungo tutta l’area costiera della penisola bretone), lo dimostra una partecipazione non inferiore ai trenta-quarantamila pellegrini ogni anno.
Se St-Yves è forse l’unico santo bretone davvero conosciuto in tutta Europa (è patrono degli avvocati, essendo stato egli stesso un uomo di legge ed essendo stato canonizzato a Roma), di tutti gli altri potremmo fare un lungo elenco senza aggiungere molto alla loro conoscenza se non il nome. Ma, oltre ai santi protettori locali, vi è una categoria di bretoni che fu santificata dalle chiese locali per assorbire le logiche del paganesimo: si tratta dei santi guaritori, evidentemente legati a una delle funzioni svolte dai druidi celtici, quella appunto di guarire dai mali che affliggevano le persone facendo da tramite con le divinità locali nascoste nei boschi o in altri elementi della natura che i druidi erano i soli a poter evocare.
Possiamo affermare che molti dei santi cristiani della Bretagna sostituirono a mano a mano nella loro abituale funzione, contemporaneamente, sia le divinità pagane, sia i druidi che le evocavano a tale scopo. Fra questi St-Apolline, che curava il mal di denti, St-Eugénie evocato per il mal di testa, St-Mériadec per il mal d’orecchio e la sordità, St-Hervé chiamato a intervenire contro le malattie degli occhi e la cecità, St-Mamert contro i dolori addominali; e poi anche St-Cornély per le malattie dei cavalli e St-Herbot per quelle dei bovini.
Al di sopra di tutti i santi, più o meno considerati tali solo localmente e le cui statue venivano spesso profanate e distrutte nel caso in cui non avessero esaudito le preghiere dei fedeli, si innalzavano comunque per devozione la Vergine e sant’Anna, madre di Maria, segno sia della campagna condotta in tal senso dalle autorità religiose locali, sia del valore attribuito comunque alla famiglia dalle popolazioni bretoni da secoli: non è quindi un caso se proprio sant’Anna fu riconosciuta già a partire dal VI secolo protettrice di tutta la Bretagna, quasi con la funzione ancestrale di “grande madre”, anche se sarà soltanto nel 1914 che sant’Anna sarà eletta ufficialmente dalla Chiesa di Roma patrona della Bretagna.
Ed è per questo che, oltre al pellegrinaggio delle sette cattedrali di cui abbiamo già parlato, il primo luogo di pellegrinaggio del popolo bretone è il moderno santuario di S.te-Anne d’Auray, nell’omonima cittadina, che attira ogni anno migliaia di pellegrini e di turisti dal mondo intero. La storia di questo edificio sacro è legata all’apparizione, avvenuta all’inizio del ‘600, di una “Signora maestosa” a Yves Nicolazic, un pio contadino del villaggio Ker Anna, divenuto poi St-Yves. Questa figura fu subito riconosciuta come sant’Anna, madre di Maria e nonna di Gesù. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio del 1624, ella chiese al contadino di ricostruire una cappella che le era stata dedicata nel VI secolo e che non era più esistente.

Il santuario di S.te-Anne d’Auray.

In breve iniziarono i lavori per la nuova cappella, che tuttavia si rivelò ben presto insufficiente a contenere tutti i pellegrini che si mettevano in cammino da ogni parte verso il piccolo borgo di Sant’Anna d’Auray che stava sorgendo tutt’attorno al piccolo edificio sacro. Alla fine nella seconda metà dell’800 venne eretta l’attuale basilica, consacrata dopo lunghi lavori nel 1914; e a quel punto anche la Chiesa di Roma accolse la richiesta di innalzare sant’Anna al ruolo di patrona dei bretoni.
Come accennavamo, il santuario è testimone ogni 26 luglio di uno dei più spettacolari pellegrinaggi bretoni, qui noti come pardons. In realtà si tratta di qualcosa che va al di là del semplice pellegrinaggio religioso, dato che i pardons sono le feste più celebri della cultura locale, derivando dalla tradizione religiosa secondo la quale il santo patrono concede il perdono dei peccati alle persone che partecipano alla processione verso la sua tomba in occasione della ricorrenza a lui dedicata; ma vi partecipano anche fedeli in segno di ringraziamento, come ex-voto per grazie ricevute. Nel corso della cerimonia i fedeli, paludati nei costumi tradizionali della festa, sfilano ordinatamente innalzando canti sacri e portando in processione stendardi, statue di altri santi e reliquie, mentre la messa solenne sul sagrato della chiesa è seguita da giochi, danze e musiche tradizionali che vedono come protagonisti tutti gli strumenti musicali tipici dell’area celtica, collegando così sacro e profano in un momento di socialità collettiva che travalica chiaramente l’originario aspetto religioso.

Il pardon di S.te-Anne d’Auray.

Peraltro non deve apparire peraltro strano che il luogo in cui sorge questo santuario, emblema del culto cristiano in Bretagna, disti pochissimi chilometri (meno di venti) dal luogo che a sua volta è unanimemente considerato il simbolo delle più antiche tradizioni del paganesimo bretone: stiamo parlando di Carnac, località famosa per i numerosi monumenti preistorici che la circondano, gli alignements, innalzati tra il 5000 e il 2000 a.C. Si tratta soprattutto di menhir, enormi spuntoni di roccia eretti verticalmente e allineati in lunghe file, e di qualche dolmen, pietre basse ricoperte da lastroni posti orizzontalmente sui menhir con un effetto da cappella funeraria.
Questi scenografici allineamenti, che all’alba e al tramonto proiettano lunghe ombre sul terreno, sono considerati un antichissimo luogo di culto connesso ai movimenti del sole. Uno dei più grandi è quello di Ménec, che è anche il più spettacolare, grazie all’allineamento di 1099 pietre, la più alta delle quali misura quasi 4 metri, disposte su undici file per una lunghezza di 1167 metri; a ogni estremità si trova un cromlech, cioè un semicerchio composto da numerosi menhir. Tutt’attorno sono visibili numerosi e ulteriori allineamenti, come quello di Kermario, con oltre mille menhir disposti su dieci file parallele, con un tumulo di 35 metri e un dolmen che alla base reca cinque serpenti incisi.

Carnac, allineamento di Menec.

L’estrema vicinanza dei due luoghi – il santuario cristiano di S.te-Anne e i siti megalitici degli uomini della preistoria, sicuramente usati per i riti sacri dei druidi bretoni fino all’avvento del cristianesimo – ci fa riflettere ulteriormente su come si sia preteso già dall’alto medioevo di cristianizzare ciò che era pagano e misterioso, provando a introitare nell’àmbito del culto cristiano anche ciò che a rigor di logica non poteva esserlo né teoricamente diventarlo. Le croci sui menhir ne sono un esempio, come anche la costruzione di cappelle sugli antichi tumuli sepolcrali. Oppure al contrario gli inserimenti del mondo magico su strutture cristiane: basti pensare alle sirene e agli altri esseri fantastici che si incontrano nelle strutture delle chiese, e in particolare dei calvaires e degli ossuaires.

Carnac, dolmen di Kermario.

I calvaires e gli Enclos Paroissiaux

I calvaires sono un’altra specifica caratteristica del cristianesimo della Britannia, localizzati in un’area abbastanza circoscritta del suo territorio, inclusa quasi tutta in un triangolo ideale tracciabile fra le città di Brest a ovest, Morlaix a nord-est e Locronan a sud: è la zona degli Enclos Paroissiaux, i “recinti parrocchiali”, disseminati in numerosi centri bretoni anche di modeste dimensioni, che rappresentano una peculiarità dell’architettura locale e sono legati anche a una specifica storia della diffusione del cristianesimo in Bretagna.
Come abbiamo già evidenziato, arduo fu il compito degli evangelizzatori, come Roma chiamava i monaci delle isole britanniche che per primi provarono a diffondere il cristianesimo da queste parti. Invece di attaccare i culti ancestrali, essi in molti casi dovettero, quanto meno all’inizio, quasi assecondarli nei modi che abbiamo già visto. Fu soprattutto questa la ragione per la quale – soprattutto nelle zone interne della Bretagna, più isolate rispetto a quelle costiere – il cristianesimo riuscì a imporsi con maggiori difficoltà, in tempi più lunghi e accettando in qualche modo di manifestarsi con tutta la forza espressiva di un misticismo esasperato e in grado di coinvolgere nel suo alveo dogmatico anche parte della mitologia religiosa locale.
Fu proprio per questo che qui furono costruiti i cosiddetti “recinti”, cioè dei complessi sacri di grande effetto in grado di sostituire i precedenti luoghi sacri dei druidi: erano formati da una chiesa, nell’imperante stile gotico dell’epoca, con splendide vetrate policrome e ricca ornamentazione in legno dipinto al suo interno, un calvario all’esterno formato da croci monumentali circondate ai quattro lati da statue e scene allegoriche in tutto simili a palchi di granito, e alle spalle della chiesa un ossario (collegato anche al culto delle reliquie) o un vero e proprio cimitero; il tutto preceduto da un arco trionfale attraverso il quale si accedeva al complesso, in genere posizionato in un luogo elevato e delimitato da bassi muretti in modo da non farvi penetrare gli animali (furono proprio questi muretti a dare il nome di recinti ai complessi sacri cristiani), all’interno dei quali avevano accesso solo i battezzati. 

Il circuito dei recinti parrocchiali.

I complessi giunti fino a noi, frutto dell’opera di vari artisti locali quasi sempre del tutto sconosciuti o di semplici maestri scalpellini, risalgono al periodo che va soprattutto dal ‘500 al ‘600, in alcuni casi fatti erigere per scongiurare la peste del 1598 o come ex voto per avere, la peste, risparmiato il borgo. Nonostante tutto, era un’epoca di grande prosperità per la zona grazie alla produzione di tessuti, e ciò permise la realizzazione di edifici monumentali e assai ricchi anche in piccolissimi centri.
Le varie strutture, realizzate nel tipico granito locale (il grigio kersanton), sono costituite da una sorta di recinto che separa lo spazio sacro dal resto, ritenuto profano, quasi a difendere le chiese parrocchiali all’esterno, e si innalzano suggestivamente marchiando con le loro guglie il profilo delle minuscole cittadine che le ospitano.
Come già detto, si entrava da un arco trionfale, a simboleggiare l’ingresso dei giusti nel regno dei cieli, oltre che un ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti, in grado di garantire ai defunti la protezione dai demoni. Al di là si trovavano il cimitero, la chiesa, la cappella funeraria, un ossario e un calvario; quest’ultimo in particolare è una sorta di racconto in pietra della Passione di Cristo, che veniva scolpito su un basamento con l’aggiunta di episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, e di episodi della vita dei santi locali, degli apostoli e della Madonna, raffigurati con gli abiti dell’epoca di esecuzione.
Tutto questo aveva un intento didattico, dato che i sacri recinti fungevano da libro sacro per i contadini e i pastori analfabeti del contado, ancora legati al culto pagano dei druidi, con un chiaro intento evangelizzatore da parte dei monaci cristiani.
Il monocromatismo del granito dei bassorilievi si contrappone agli altari colorati che occupano spesso l’interno delle chiese, ornate a volte da splendidi fonti battesimali in legno scolpito. Si tratta di complessi di altissimo valore storico, artistico e religioso, presenti soltanto in questa zona della Bretagna, che ne conta circa duecento, alcuni di modeste dimensioni e qualità, altri veri e propri capolavori artistici; ma senza la possibilità, come già accennavamo, di poter risalire in nessun caso ai nomi certi degli artisti che vi lavorarono insieme alle maestranze locali chiamate a collaborare all’opera, a tal punto da indurci a credere che con ogni probabilità si trattasse sempre di un’opera “corale” senza figure di spicco tra architetti e scultori.
Uno dei più interessanti tra gli Enclos Paroissiaux del Finistère è quello di Pleyben, cittadina scandita da case in granito in cui le uniche macchie di colore sono le ortensie disseminate ovunque. Sui tetti dell’abitato svetta il magnifico complesso parrocchiale, che ospita una celebre manifestazione del pardons la prima domenica di agosto. All’interno del recinto è visibile il più imponente calvario bretone con numerose scene della Passione, i cui vividi personaggi vengono messi in risalto dall’alta piattaforma. Nell’antico ossario è ospitato un piccolo museo di oggetti sacri e costumi bretoni, mentre la chiesa, incorniciata da due campanili con lanterne, ospita una volta rivestita con nervature e una trave istoriata con soggetti mitologici o sacri di grande effetto cromatico e scenografico.

Il calvario di Pleyben.

Un altro caratteristico complesso religioso si trova nel minuscolo villaggio di Lampaul-Guimillau, il cui toponimo deriva da lan, cioè luogo consacrato a un santo, in questo caso Paul; e da Guimillau, che viene da gwik, borgo, e da Miliau, il nome del luogo stesso. Il suo è uno dei calvari più antichi della zona, anche se è soprattutto la chiesa ad affascinare per le sue splendide opere d’arte, come la cinquecentesca trave istoriata che attraversa la navata centrale e sorregge un crocifisso collocato tra le statue della Vergine e quella di san Giovanni; o come lo splendido fonte battesimale policromo sormontato da un sontuoso baldacchino; o ancora come la curiosa acquasantiera in cui due diavoli si dibattono nell’acqua santa. Si immagini l’impatto che questo complesso sistema iconografico doveva avere sulle anime semplici dei contadini che qui venivano catechizzati dai monaci e che imparavano a pregare seguendo il nuovo culto cristiano!
Altro complesso parrocchiale di particolare interesse si trova nel vicinissimo borgo di Guimillau, che deve il suo nome al santo patrono e fondatore St-Miliau, un principe pio discendente dagli antichi duchi di Bretagna, fatto decapitare nel 792 dal fratello che voleva prenderne il posto. L’abitato si raccoglie attorno al suo notevole complesso  parrocchiale, in cui l’impronta gotica e lo stile rinascimentale si fondono armoniosamente. Ospita uno dei calvari più ampi della zona che comprende circa duecento personaggi, con diciassette scene della Passione e un motivo decorativo raffigurante la storia di Catell-Gollett, Caterina perduta, una ragazza dai costumi dissoluti. Anche la chiesa mostra notevoli tesori artistici, come il portico meridionale, con scene tratte dalla Bibbia; o come il magnifico battistero barocco scolpito in legno di quercia, i bassorilievi della tribuna d’organo, il seicentesco pulpito e le splendide pale d’altare policrome.

Il calvario di Guimillau.

Questo breve excursus fra gli Enclos Paroissiaux bretoni si conclude con quello al centro del borgo di Saint-Thégonnec, altro piccolo abitato a breve distanza dai due precedenti, scandito dalle classiche case in granito grigio dalle imposte azzurre che incorniciano il notevole complesso parrocchiale, qui di impronta rinascimentale. Al di là dell’arco trionfale si innalza il calvario, con le scene della passione di Cristo e la rappresentazione del patrono, St-Thégonnec, che dà il nome al villaggio e appare immortalato con il lupo che, secondo una leggenda, egli avrebbe attaccato al suo carro dopo che il suo asino era stato divorato da altri lupi. All’interno della chiesa, incorniciata da una torre rinascimentale, si innalza il pulpito seicentesco, uno dei capolavori della scultura bretone. Magnifici anche gli altari in legno policromo e notevoli anche le vetrate istoriate.
Tantissimi sono gli altri calvaires ancora presenti sul territorio bretone, oltre a quelli che nel tempo sono andati distrutti in tutto o in parte. Gli Enclos Paroissiaux rimangono ancora oggi – ben più delle pur stupende cattedrali che marchiano le maggiori città della Bretagna, dedicate ai sette santi fondatori e ai due proto-vescovi bretoni – la massima testimonianza non solo architettonica ma anche rituale e simbolica del cattolicesimo di questa terra; accanto ai pardons, le fastose processioni così cariche di significati religiosi e di valori comunitari, poiché in essi viene mischiato il fervore del culto cattolico all’orgoglio delle tradizioni e dell’identità locale, che traspaiono anche dai costumi indossati da tutti i partecipanti a questi eventi, in particolare dalle donne.

I costumi come emblemi dell’identità culturale

Per queste popolazioni, piuttosto isolate e ripiegate su se stesse, gli abiti erano un segno di riconoscimento tra abitanti di zone e paesi diversi. Inizialmente appannaggio delle famiglie più ricche, erano proprio i costumi femminili a evidenziare l’anelito nazionalista dei bretoni, mostrandosi assai lontani dalle tipiche mode di corte seguite dalle nobildonne (soprattutto parigine).
Un tempo questo abito faceva parte del corredo che le ragazze portavano in dote per il loro matrimonio e, una volta indossato per la cerimonia nuziale, sarebbe stato poi indossato a ogni ricorrenza sociale: per questo la ricchezza e la finezza delle sue decorazioni erano come uno specchio dell’agiatezza della famiglia.

Pont l’Abbé, Musée Bigouden.

Con il tempo, comunque, anche le famiglie meno abbienti finirono per confezionarsi da sé un abito nuziale per le proprie ragazze, comunque ricco più di quanto magari avrebbero potuto permettersi, proprio per agevolarne le nozze con uomini di estrazione sociale più elevata, finché l’uso del costume della festa non divenne generalizzato al punto da coinvolgere tutte le donne di un villaggio o di una città.
Ovviamente quello di cui stiamo parlando era, lo ripetiamo, il costume della festa. Fino alla metà del ‘900 la gente comune aveva infatti tre tipi di vestiti: gli abiti quotidiani, semplici e adatti al lavoro, quello della domenica, più elegante ma non sfarzoso, e quello “cerimoniale”, in uso per le principali ricorrenze. Anche questi indumenti, tuttavia, avevano caratteristiche locali, cosicché ogni persona potesse evidenziare la sua provenienza da una città, da un villaggio, talvolta persino da uno specifico quartiere di una grande città, grazie alle particolarità del gioco di ricami e dei colori, o agli accessori indossati insieme. Lo testimonia persino un antico proverbio bretone: “Kant bro, kant giz” (cento paesi, cento mode).
L’estrema originalità del costume femminile bretone è rappresentata, ancor più che dagli abiti e dagli scialli, dalla cuffia che sovrasta i capelli (chiamata a seconda dei luoghi bardou-paisan o bigoud), un tempo portata soprattutto nel Finistère e nel Morbihan. Una delle più belle è certamente quella di Pont-Aven, con i suoi merletti disposti attorno a un nastro colorato e completata da un collo inamidato molto ampio.
La più famosa è quella tipica di Pont l’Abbé, la coiffe bigoudène: un tempo di piccole dimensioni come tante altre, si caratterizza da decenni per la sua altezza, con la fascia di merletto che sale letteralmente come un grosso tubo sulla testa delle donne fino a dimensioni sorprendenti (anche trenta centimetri). Questa particolare cuffia trae probabile origine da un fatto storico: un atto di protesta contro re Luigi XVI, il quale aveva fatto abbattere le guglie dei campanili affinché non fossero le chiese il simbolo del potere più importante rispetto alle torri dei castelli e dei palazzi del potere civile. Le donne regirono iniziando ad allungare le loro cuffie proprio per ricordare l’immagine di quei campanili, con un gesto che legava indissolubilmente identità culturale e religiosità. Ancora oggi questa cuffia è, insieme all’abito della festa, il simbolo stesso della donna bretone.
Si tratta di elementi di una cultura che non si arrende a restare subalterna o a scomparire nel marasma dell’omologazione. Elementi divenuti oggi davvero rari nel resto della Francia e, potremmo aggiungere, in tante altre parti d’Europa. 

Messa a St. Theogonnec.

 

N O T E

1) De bello gallico, libro VI, 13.
2) Questo sentimento di rispetto nei confronti degli alberi, se non di venerazione, è ancora molto vivo in alcuni borghi bretoni, come se la cultura dei druidi fosse sopravvissuta sotto traccia anche dopo il loro efferato sterminio, avvenuto prima per mano dei romani e poi della Chiesa: è uso comune per i bretoni, per esempio, “in momenti di stanchezza fisica o psichica, abbracciare un albero per scaricare le influenze negative e assorbire in cambio l’energia positiva della pianta. L’albero appare chiaramente in tutta l’area celtica come un simbolo di vita, ma ricorda anche l’ancestrale legame con il mondo che non c’è, quello degli inferi (attraverso le sue radici che si trovano sotto terra e sono invisibili), con l’inconoscibile e anche con ciò che è al di là della vita, di fatto costituendo il passaggio magico fra la vita terrena e l’aldilà”, come afferma Gwenc’hlan Le Scouézec in Bretagne, terrée sacre, Parigi 1986.