Dobbiamo essere grati a quest’uomo se oggi l’Occidente non è una colonia islamica, se nelle nostre città non spuntano ovunque minareti e se il Corano non è il testo sacro di riferimento in Europa. E dobbiamo essere grati allo stesso uomo se oggi non crediamo più che il Sole ruoti attorno alla Terra, se riusciamo a esplorare con la vista le vie del cosmo e se possiamo anche permetterci dei viaggi spaziali.
Parliamo di un personaggio non noto ai più, apparentemente un comprimario, un protagonista minore della Grande Storia, che invece risultò decisivo in una fase cruciale per il nostro continente, quella immediatamente successiva alla scoperta dell’America e all’avvio della Controriforma. Fu il momento in cui l’Europa perse la sua centralità economico-commerciale e lo slancio creativo del Rinascimento e per di più rischiò di soccombere all’invasione musulmana. Stretta tra attacchi ottomani e repressione cattolica, e costretta a vedere il cuore dei traffici spostarsi dal cuore del Mediterraneo all’oceano Atlantico, anche la Repubblica di Venezia passò anni molto difficili che la resero molto meno Serenissima di quanto non dicesse il suo nome. Fortuna che in quel frangente a rappresentarla e guidarla, prima nel ruolo di ambasciatore e poi in quello di Doge ci fu lui, Leonardo Donà (1536-1612), cui ora il discendente Gianmaria Donà Dalle Rose dedica una preziosa biografia intitolata L’antipapa veneziano, edita da Giunti (pp. 194, euro 20).
Per ben comprendere la figura di quest’uomo bisogna prima analizzare il contesto in cui visse. Era il periodo in cui Venezia poteva ancora vantarsi di essere divenuta a pieno titolo seconda culla del Rinascimento con la presenza di giganti della pittura, dell’architettura e dell’innovazione tecnologica (come l’introduzione dei libri stampati) come Tiziano, Tintoretto, Palladio, Manuzio.

I segnali del declino

Era una città che, attraverso i commerci fiorenti e la capacità di attrarre e far maturare le migliori intelligenze, aveva raggiunto “il culmine del potere”, confermandosi capitale “libera, liberale e anche libertina”, in cui il culto delle arti faceva il paio con la presenza di prostitute, spesso escort di alto bordo. Ma era anche una città che lasciava intravedere i segni di un imminente declino, che viveva in modo a tratti eccessivo gli ultimi bagliori folgoranti di una passata grandezza.
A gestire questo glorioso Canto del Cigno e a evitare che si trasformasse in un De profundis ci pensò lui, Leonardo Donà. Era ambasciatore presso la corte di Spagna quando esplose la crisi ottomana, con i turchi che nell’estate del 1571 presero d’assedio Famagosta, sterminarono i veneziani e scuoiarono il comandante Bragadin. Fu allora che, con lungimiranza di statista, Donà comprese che “senza un’alleanza dei principi cattolici gli ottomani avrebbero domato il Leone per poi muovere guerra all’Italia e all’Europa tutta, sottomettendola alla bandiera della Mezzaluna e al richiamo del muezzin”.
Chiese quindi udienza al sovrano spagnolo Filippo II e lo esortò a fare presto, convincendolo con una determinazione ai limiti dell’improntitudine ad armare la prima flotta della cristianità unita contro gli ottomani. Quella coalizione, composta di 200 navi, quasi 30mila uomini, sotto le insegne principalmente di Venezia, dello Stato Pontificio e della Spagna avrebbe sbaragliato il contingente turco nella celebre battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571.
Questo suo ruolo di campione della cristianità non deve tuttavia far pensare alla figura di Donà come a quella di un uomo bigotto, sottomesso alla Santa Sede e condizionato dalle scelte politiche e dalle disposizioni dottrinali del Vaticano. Al contrario, in quegli anni complessi il nuovo Doge di Venezia (lo divenne nel 1606) difese la libertà della Repubblica dalle ingerenze papali, sottraendosi alla cappa conformistica della Controriforma e ribellandosi esplicitamente ad alcuni decreti del pontefice.
Arrivò anche a ingaggiare una battaglia personale con l’allora papa Paolo V, continuando a sottoporre le proprietà ecclesiali alla tassazione comune e i membri del clero alla giustizia ordinaria, lasciando spazi limitati al Sant’Uffizio (che poteva agire solo di concerto con tre investigatori laici della Repubblica), accogliendo nel territorio della Serenissima protestanti, ortodossi ed ebrei, e da ultimo considerando privo di valore l’Interdetto emanato dal pontefice contro la disobbediente Venezia. Di comune accordo con il suo braccio destro, il teologo Paolo Sarpi, Donà dispose infatti che la scomunica romana venisse ignorata e che gli ecclesiastici sottrattisi ai doveri di lealtà verso la Repubblica venissero esiliati (e così avvenne in molti casi, con molti preti cacciati e accompagnati dalle grida del popolo “Andé in malora”).

Il pentimento

Donà fu però allo stesso tempo abbastanza scaltro da capire che una rottura definitiva con la Chiesa sarebbe stata molto pericolosa per Venezia, determinando il suo isolamento nello scacchiere internazionale; e così giocò d’astuzia e di diplomazia, senza farsi convincere da chi come Sarpi guardava favorevolmente a un’adesione alla Riforma protestante e ottenendo piuttosto dal Vaticano la revoca dell’Interdetto. Si trattò, a ben vedere, di un capolavoro politico.
Questo difficile equilibrio tra la necessità di tener conto delle pressioni del Vaticano e la volontà di preservare la libertà degli individui si manifestò in due casi celebri, riguardanti due uomini di scienza e di pensiero. Nella prima situazione, relativa a Giordano Bruno, Roma chiese a Venezia l’estradizione per poterlo sottoporre al giudizio dell’Inquisizione. Leonardo, allora membro del Collegio dei Savi, pur riluttante a cedere alle richieste del Vaticano, votò a favore. Scelta di cui, a maggior ragione alla luce della fine infausta di Bruno, si pentì per tutta la vita. Molto diverso fu il suo atteggiamento nel caso di Galileo Galilei. Il genio toscano, allora professore presso l’Università di Padova, nel 1609 aveva messo a punto il primo prototipo di cannocchiale e la prima persona a cui comunicò la sua invenzione fu proprio Donà al quale scrisse di un “nuovo artifizio di un occhiale” che “può esser di giovamento inestimabile” per la Repubblica, lasciando al Doge la facoltà di decidere se fosse bene che “ne siano o non siano fabricati”. Donà non esitò un attimo e il giorno dopo convocò Galileo davanti al Senato, concedendo la fabbricazione dello strumento in tutta la Repubblica.
La testimonianza della sua capacità di guardare oltre, sia i tempi che lo spazio. E di spalancare così gli orizzonti alla libera ricerca e alla scienza moderna.

 

Gianluca Veneziani, “Libero”.