Vi scrivo a qualche settimana di distanza dai fatti preoccupanti che sono accaduti in Sardegna per informarvi della loro ripercussione qui e della posizione assunta in proposito da noi di “Sardigna Emigrada”; tali fatti forse possono essere sfuggiti a molti, ma non certo agli “addetti ai lavori” e a chi – sia pure indirettamente – ne è coinvolto. Li riassumo brevemente: alcuni militanti del Partito Sardo d’Azione, tra cui un consigliere comunale che sarebbe stato addirittura trovato in possesso di esplosivo, sono stati arrestati sotto l’accusa di perseguire fini separatistici mediante attentati, di concerto con siciliani e libici; si sarebbe svolta una riunione a cui avrebbero partecipato “elementi separatisti sardo-siculi” (come la stampa li ha definiti) ed emissari di Gheddafi. Gli attentati dovevano essere in preparazione, perché non si ha notizia di fatti realmente accaduti.

Successivamente, è stato tirato in ballo anche il Fronte Indipendentista Sardo (FIS.), con sede a Sassari, organizzazione promossa dal professore universitario Gavino Piliu, che pare sia stato trattenuto (lo so da fonti orali e non confermate) qualche tempo dagli inquirenti, senza che si trovasse da muovergli addebiti; di lui avrete sentito certamente che teneva lezioni di chimica in sardo e discuteva tesi scritte in lingua. Inoltre, i dirigenti del PSd’Az, che si recavano al loro Comitato Centrale, sono stati “identificati” dai carabinieri; a seguito di questi fatti sono comparse interviste di Columbu, il presidente del partito, sul Manifesto e su qualche altro giornale (“Perché i militanti sardisti vanno in galera?” “Metodi austriaci”…).

Per la faccenda dei contatti con i libici, pare che l’allarme sia partito dal patriottico e atlantico segretario regionale del Partito Repubblicano (per mettere in difficoltà il PSd’Az in Giunta?); in tal caso, lascio giudicare a voi della sua fondatezza.

Così, sette arresti, un’istruttoria in corso (quando sarà formalizzata?), poi di nuovo tutto nel silenzio.

La cosa però, come era prevedibile, non ha mancato di suscitare commenti, e anche sconcerto, negli ambienti anticolonialisti: noi, passata la prima paura causata dall’atmosfera di repressione generale dovuta anche alla lotta contro il terrorismo, abbiamo sentito un vivo impulso a riorganizzarci: diverse persone che si erano disperse ora si stanno riaggregando, qualche giornale di una certa importanza dovrebbe offrirci spazio (staremo a vedere…); ci è arrivata la notizia che in Sardegna si sarebbe addirittura raggiunto il tanto sospirato Coordinamento Anticolonialista, anche se in forma più ristretta di quanto si sperava, e dovrebbe uscire un suo giornale per continuare in qualche modo il discorso portato avanti da «Sardigna Emigrada».

C’è insomma la diffusa convinzione che non bisogna cedere alle intimidazioni dello Stato, e d’altra parte la consapevolezza che bisogna evitare ogni confusione con i metodi e la logica del terrorismo, capaci solo di rendere più efficiente e forte la macchina repressiva statale e più aliena la simpatia della gente per la causa che si vorrebbe promuovere.

Si tratta perciò, come vi dicevo nell’altra lettera, di trovare una strategia nuova, che né i canali istituzionali né i modelli del terrorismo possono fornire: non è questione né di terza via né di opposti estremismi, ma di trovare come un popolo – quello Sardo – in una situazione storica concreta – quella italiana contemporanea – possa liberarsi, senza lasciarsi dietro terra bruciata né rispondere ai crimini dello Stato (sempre molto sottili, “pacifici” e “pacificatori”) con altri crimini, inevitabilmente più cruenti. Siamo orientati a pensare che in quegli strani fatti c’è una buona dose di montatura, tanto più che conosciamo troppo bene (e abbiamo anche a volte criticato) il PSd’Az per credere che vi si respiri un’aria dinamitarda; tanto più che la dichiarazione dell’indipendenza come obiettivo storico fatta all’ultimo congresso (sul quale poi ci siamo informati meglio e stiamo aspettando gli Atti), deve veramente aver dato fastidio a molti. È probabile dunque, almeno per quanto se ne sa fino a ora, che si tratti di una bassa manovra per screditare un partito che, se pure in passato non si è certo distinto per coerenza, con quella dichiarazione ha veramente posto una bomba sotto il sistema, ma in ben altro modo da quello che intendono i nostri “austriaci”: non si può negare, infatti, la portata storica di un’opzione per l’indipendenza.

Sardigna Emigrada ha intenzione di non rimanere passiva; ma sono proprio questi i momenti in cui deve funzionare la solidarietà e l’unità di prospettive dei movimenti nazionalitari, in cui (nei limiti delle nostre possibilità) si deve intensificare l’informazione – un’informazione che scopro sempre più carente, deviata, fatta di pregiudizi – in cui costruire un’azione comune diventa possibile. È inutile: siamo un corpo estraneo ai sistema imperialista non solo fuori ma anche all’interno del nostro stesso Paese – e qui è lo scandalo – dunque non possiamo attenderci molta solidarietà e comprensione neppure dai settori più progressisti italiani (anche se la nostra lotta offrirebbe ad essi argomenti di non poco conto per mettere in discussione gli assetti ingiusti dello Stato); quella che dobbiamo cercare è la società alternativa nelle sue forze più fluide, dove meno opera il preconcetto, dove non esistono preoccupazioni di schieramento. Ma chi di noi sa bene oggi dove trovarla e come identificarla?

In concreto, bisogna allora usare accanto ai pochi canali che ci vengono offerti tutti quelli di cui possiamo disporre noi, per rispondere smentendo certe manovre e certe analisi che hanno lo scopo di evitare che si affermi un serio movimento e una sensibilità anticolonialista; paradigmatico, a questo proposito, un articolo di Salvatore Sechi sul “Messaggero” dove l’esistenza di rivendicazioni sardiste veniva spiegata come effetto della disperazione e dell’abbandono in cui si trova la regione, e degli anticolonialisti sardi usciva fuori quasi un’immagine di nostalgici, desiderosi di voltare le spalle alla civiltà industriale moderna per rimettere in auge una Sardegna arcaica e pastorale. Niente di più falso: quando si critica il modello petrolchimico, perseguito come ben si sa, lo si fa in nome non del mito del buon selvaggio ma delle reali attitudini di sviluppo dell’isola, della valorizzazione delle risorse locali ora completamente prostrate.

Ma per mascherare queste analisi non bastano risposte occasionali e artigianali; ci troviamo di fronte come vi dicevo a una precisa posizione: disconoscere lo spessore culturale e politico dell’anticolonialismo.

Per questo chiediamo il vostro aiuto e la vostra solidarietà: non vogliamo trovarci addosso simili etichette, e non vogliamo persone in galera per non si sa quanto tempo accusate non si sa di che cosa, come ormai sembra prassi normale. La gente deve sapere che l’Italia ha prigionieri politici anticolonialisti.

Fateci sapere cosa ne pensate e se è possibile fare qualcosa a Milano, attraverso la rivista o altre vie.

Ho ricevuto una lettera in cui si accennava alle difficoltà di “Etnie”; non è effettivamente semplice distribuire su scala “nazionale” una rivista etnica. Secondo me il problema maggiore è appunto che l’area sensibilizzata è ancora molto ristretta: troppe volte quando qui a Roma parliamo della Sardegna (cioè una situazione ben definita e non l’anticolonialismo in generale), la gente anche politicizzata sembra più informata sui marziani. Rompere l’isolamento è anche la condizione indispensabile per trovare sbocchi alla produzione culturale del movimento nazionalitario.

In attesa di vostre notizie, vi salutiamo e vi ringraziamo.

Roberto Cipriani (Roma)