Un libro sugli arbëreshë di Sicilia

Maurizio Karra, Le comunità arbëreshë di Sicilia, Fotograf, Palermo 2022, 12 euro.   

Il saggio di Maurizio Karra, giornalista e antropologo, si apre con la storia della diaspora albanese del passato, seguita alla caduta della capitale dell’impero romano d’oriente e all’islamizzazione forzata dei Balcani da parte degli ottomani, sottolineando le similitudini con i più recenti fenomeni migratori dall’area balcanica verso l’Italia.  
L’autore descrive, analizzandole nel dettaglio, le forme e le espressioni dell’identità arbëreshë ancora vive nelle comunità siciliane stanziate nei paesi che furono fondati (o rifondati) dai cristiani albanesi di quel tempo; paesi che – proprio per l’estremo isolamento geografico in cui per tanto tempo sono vissute queste comunità – sono riusciti a conservare in gran parte intatta la loro cultura delle origini, la lingua e l’insieme delle loro tradizioni culturali, a partire dal culto cristiano bizantino che ne è sempre stato il segno distintivo e che è oggi testimoniato dalla presenza a Piana degli Albanesi (considerata la “capitale” dell’enclave arbëreshë siciliana) di una delle due Eparchie cattoliche italiane (l’altra si trova a Lungro, in Calabria, al centro di un’altra grande comunità italo-albanese sparsa in tutto il sud della penisola).  
Oltre ai contributi di vari autori, i contenuti di questo volume sono il risultato di tanti contatti con gli abitanti del territorio, dai sindaci ai presidenti delle ProLoco, dai funzionari (donne soprattutto) di musei e biblioteche alla gente comune, quella incontrata in piazza che in tante occasioni ha voluto raccontare una storia o un aneddoto della propria vita, o ha voluto ricordare un proverbio o accennare alla trama di un’antica leggenda. Tutta gente aperta al dialogo con l’ospite “latino” molto più di quanto l’apparente distanza linguistica fra l’italiano e l’arbërishtja (la lingua parlata in seno a queste comunità albanofone) non potesse far presupporre; tutte persone, soprattutto gli anziani, desiderose di parlare di sé e della propria storia, delle tradizioni dei rispettivi avi e del futuro un po’ preoccupante delle nuove generazioni, spesso poco inclini a continuare nella funzione di “museo vivente” della cultura arbëreshë. Ciò comporta il rischio che questa cultura lentamente possa andare perduta anche laddove, come a Piana degli Albanesi, è sempre stata l’elemento preminente e determinante di tutta la popolazione o, comunque, della quasi totalità di essa.  
Nel volume, corredato da immagini che ne illustrano i contenuti, trovano spazio, oltre alla storia delle migrazioni degli albanesi e alla fondazione dei loro centri nell’isola, capitoli dedicati alla lingua, alla letteratura, all’arte e all’artigianato arbëreshë, con uno specifico zoom sui costumi e sui gioielli femminili che ancora oggi costituiscono l’elemento pregnante del patrimonio di tradizioni che gelosamente ogni famiglia conserva, spesso da generazioni. Si parla anche della cultura popolare e dell’identità di un popolo costruita soprattutto sulla conservazione di una lingua tramandata per secoli solo oralmente; e si descrivono anche i vari centri dell’enclave albanese dell’isola e i rapporti fra questi e le altre comunità albanofone d’Italia, chiudendo con alcune considerazioni sulle prospettive future e sulla sopravvivenza di tali minoranze etno-linguistiche, anche alla luce del dilagante fenomeno dell’omologazione politico-sociale e culturale dominante.
Un cenno particolare merita il capitolo dedicato al culto, quindi al rito cattolico greco bizantino che ha storicamente fatto da catalizzatore dell’universo culturale arbëreshë, nonostante (anche in questo caso) si assista a uno strisciante abbandono in alcuni paesi di tale rito, soppiantato da quello latino, a causa sia della penuria dei papàs (i sacerdoti cattolici di rito bizantino ai quali è consentito dalla Chiesa il matrimonio, purché questo avvenga prima dell’ordinazione presbiteriale), sia dell’emigrazione di tanti giovani verso il nord Italia e altri Paesi europei dove di fatto il culto familiare finisce con l’andare perduto, senza essere parimenti alimentato da nuova linfa locale.