Questa risale al mese scorso, ma me l’ero persa. Cerco quindi di rimediare.
L’annuncio veniva dalle isole Fiji, il cui primo ministro Sitiveni Rabuka in febbraio aveva incontrato l’indipendentista Benny Wenda. Confermando poi di voler sostenere l’ingresso nel Melanesian Spearhead Group (msg, organizzazione intergovernativa a favore della crescita economica tra i Paesi dell’area) della Papua occidentale (provincia dell’Indonesia che del msg è membro associato).
Anche se West Papua non è, almeno per ora, uno Stato indipendente (risale al 1969 l’annessione all’Indonesia con un referendum farsa ironicamente chiamato Act of Free Choice), 1) avrà comunque “in quanto melanesiani” il ruolo di osservatore all’interno dell’organizzazione, come avviene per Timor Est, ma non di membro associato.
Un processo che gode anche del sostegno della conferenza delle Chiese del Pacifico (pcc) che appoggia l’ulmwp nella “sua richiesta di autodeterminazione del popolo della Papua occidentale e nel suo desiderio di porre fine agli abusi dei diritti umani perpetrati dalle forze di sicurezza indonesiane”.
Inoltre la pcc ritiene che l’United Liberation Movement for West Papua (ulmwp, movimento di liberazione unito per la Papua occidentale, fondato a Vanuatu nel 2014 dalla riunificazione di tre dei principali movimenti indipendentisti) dovrebbe essere consultato dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea sulle questioni relative alla Papua occidentale come  “rappresentante riconosciuto del popolo papuasi”. Spingendosi a chiedere il boicottaggio dei prodotti indonesiani venduti nel Pacifico.
In futuro potrebbe aprirsi uno scenario simile a quello già sperimentato con il fronte di liberazione nazionale socialista Kanak (movimento indipendentista della Nuova Caledonia).
Grande soddisfazione da parte di Benny Wenda, in quanto “finalmente qualcuno si è schierato dalla parte della Papua occidentale e ha sventolato insieme al presidente del movimento di liberazione unito la morning star” (la bandiera adottata dagli indipendentisti).
La grande isola denominata Nuova Guinea, colonizzata dagli olandesi fin dal 1828, è attualmente divisa tra lo stato della Papua Nuova Guinea e le due province sottoposte all’Indonesia, Papua e Papua Occidentale (nel 2003 quest’ultima si era staccata dall’altra provincia indonesiana di Papua e gode di una certa autonomia formale).
Paradossalmente, proprio il primo ministro della Papua Nuova Guinea (la parte orientale dell’isola che nel 1975 ha ottenuto lo statuto indipendente di Reame del Commonwealth sottraendosi, almeno formalmente, all’amministrazione diretta dell’Australia e del Regno Unito) aveva manifestato minor entusiasmo; dichiarando in conferenza stampa che comunque “la sovranità dell’Indonesia sulla Papua andava rispettata” (pur esprimendo “simpatia” per i fratelli della Papua occidentale).
Fanno parte del Melanesian Spearhead Group i Paesi che si reputano parte della Melanesia: le Fiji, la Papua Nuova Guinea, il fronte di liberazione nazionale socialista Kanak della Nuova Caledonia, Vanuatu, le isole Salomone.

Se pur asimmetrica, quella che si svolge in West Papua è probabilmente una delle più longeve lotte di liberazione anticoloniale. Con ripetuti (per quanto spesso definiti “sporadici”) attacchi da parte dei gruppi indipendentisti. A cui segue regolarmente una spietata repressione da parte del tni, l’esercito indonesiano, con sequestri, sparizioni, torture, stupri (rasentando il genocidio) nei confronti della popolazione indigena.
Anche in anni recenti non sono mancate azioni clamorose, talvolta violente, da parte di movimenti che di richiamano all’autodeterminazione. Avevamo già parlato del pilota neozelandese della compagnia aerea Susi Air catturato in febbraio dal West Papua National Liberation Army (braccio armato del movimento indipendentista Free Papua Movement).
Ben più grave quanto era accaduto nel dicembre 2018, quando un gruppo indipendentista (presumibilmente l’esercito di liberazione nazionale di Papua occidentale, tpnpb) avrebbe ucciso (condizionale d’obbligo) stando alle dichiarazioni ufficiali dell’esercito di Jakarta una quindicina di persone nel distretto di Nduga, a est di Timika. Ma le vittime sarebbero state addirittura oltre una trentina secondo altre fonti. In una rivendicazione del tpnpb si confermava l’attacco, sostenendo però che era rivolto soltanto contro i soldati (mentre le autorità indonesiane e alcuni media parlavano anche di vittime civili). Sicuramente un fatto inaudito, gravissimo, su cui però aleggiava l’ombra di una possibile “strategia della tensione”.
All’epoca, dal suo esilio londinese, era intervenuto proprio Benny Wenda, leader dell’ulmwp, sostenendo di “diffidare delle ricostruzione delle autorità indonesiane” dato che già in passato avevano “creato violenze per giustificare un aumento della presenza militare nella provincia”.
Forse suo malgrado, nel dicembre 2020, Benny Wenda si era reso responsabile di una ulteriore spaccatura all’interno del composito fronte per l’autodeterminazione, proclamandosi arbitrariamente “presidente ad interim” di West Papua e sostenendo di non voler più rispettare la costituzione e le leggi indonesiane.
Immediata – e piccata – la reazione di altri leader indipendentisti, in particolare degli esponenti del Tentara Pembebasan Nasional Papua Barat – Organisasi Papua Merdeka (tpnpb-opm che riuniva anche gruppi indipendentisti armati), i quali lo avevano accusato di essere “una pedina dei capitalisti europei, statunitensi e australiani”, di “tradire i princìpi rivoluzionari della nazione papuana” e di “distruggere l’unità del popolo papuano nel pieno della lotta contro il governo di Jakarta”.
Uno scenario che rifletteva quanto era accaduto in passato con Timor Est (nella realtà) o in Queimada (nella finzione, ma da manuale, cinematografica). 2)
Purtroppo il popolo papuano – non solo nella parte sottoposta all’Indonesia – paga il prezzo delle sostanziose ricchezze minerarie dell’isola. Tra cui i grandi giacimenti di gas naturale di Tangguh, sfruttati dalla bp, e una delle più grandi miniere d’oro al mondo, quella di Grasberg. Dove la multinazionale statunitense Freeport-McMoRan ha provocato enormi danni ambientali. Inoltre nel territorio di West Papua si trovano giacimenti di rame e petrolio. Per non parlare di quella che probabilmente è la seconda o terza più estesa foresta primaria al mondo.
Quanto basta – e avanza – per alimentare contenziosi, scontri e conflitti (con l’inevitabile corollario di repressione e violazioni dei diritti umani e dei popoli) tra gli indigeni, i governi e le multinazionali affamate di risorse.
In “compenso” gran parte della popolazione nativa, soprattutto i bambini, soffre di malnutrizione, malattie infettive e analfabetismo.

 

N O T E

1) La consultazione svoltasi fra il 14 luglio e il 2 agosto 1969 coinvolse appena un migliaio di abitanti dell’ex territorio olandese. Vennero preventivamente selezionati dall’esercito indonesiano qui stanziato a presidio. Da tempo i dissidenti papuani della Free West Papua Campaign richiedono un nuovo referendum sotto la supervisione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Anche con la consegna, il 25 gennaio 2019, di una petizione firmata da un milione e 800mila abitanti di West Papua e denunciando crimini contro l’umanità commessi dall’Indonesia. Tra cui l’uccisione da parte delle truppe di occupazione di oltre 500mila papuani.
2) Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni Noam Chomski e la “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (lidlip, fondata da Lelio Basso). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmao, leader del Frente Revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi e darsi all’agricoltura. Paradossale che tra i militari inviati a tutelare il diritto all’autodeterminazione di Timor Est vi fossero esponenti dei corpi scelti dell’antiterrorismo britannico (ops!) provenienti direttamente da Belfast.
Quanto al film di Gillo Pontecorvo, inizialmente si chiamava Quemada, in castigliano; ma, forse per le proteste del regime franchista, diventò Queimada, in portoghese, anche se nel film gli abitanti, oppressi e sfruttati, della colonia parlano spagnolo.
Nella vicenda narrata la Gran Bretagna, al fine di espandere i suoi commerci, sostiene la lotta per l’indipendenza dei ricchi proprietari locali. Inviando l’agente segreto William Walker per innescare la rivolta e coinvolgendo anche gli schiavi delle piantagioni.
A tal fine istruisce un indigeno, autentico leader naturale, José Dolores.
Ma poi la ribellione, stavolta la rivoluzione, rinasce contro il nuovo potere subalterno a Londra istituito nell’isola. In nome dell’uguaglianza e dell’autentica indipendenza dal colonialismo (sia di Lisbona che di Londra). Toccherà ancora a Walker reprimere con l’esercito britannico e incendiando l’intera isola per stanare i rivoltosi. Un esempio da manuale, per quanto didascalico, di neocolonialismo.