Attualmente, oltre a subire vessazioni e repressione da parte del governo turco, il popolo curdo viene aggredito e minacciato dall’ISIS in territorio Siriano. Contro questi fascisti la popolazione si è opposta con coraggio e valore liberando la città di Kobane e salvando dal massacro altre comunità etniche e religiose presenti nella regione.
Ma ora, si parva licet, anche il nostro Paese sembra intenzionato a dare il suo contribuito nel limitare i diritti del popolo curdo, in particolare di quei curdi, scampati ai massacri, che forse pensavano di aver trovato rifugio in Italia.
Come ricordavano alcuni cittadini. “da molti anni l’associazione Ararat ONLUS svolge attività culturali e ricreative di grande rilevanza sociale; attività volte alla conoscenza della storia, della cultura e delle arti del territorio della Mesopotamia, zona compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate, culla della civiltà indoeuropea, ma anche delle radici del popolo curdo”.
E la denominazione stessa della piazza dove risiede l’associazione, Largo Dino Frisullo, ricorda l’impegno di un cittadino romano che spese la sua vita senza risparmiarsi per la difesa dei diritti umani e civili del popolo curdo.
Un promemoria: il Centro Ararat prende il suo nome dalla nave omonima che approdò sulle coste italiane il 3 gennaio 1998, in Calabria. A bordo circa un migliaio di curdi: famiglie intere, donne, bambini… tutti in fuga per scampare alla repressione turca. Per un certo tempo vissero a Badolato (poi riconosciuto come villaggio curdo) e successivamente sono giunti a Roma.
“Il centro Ararat”, mi spiegano amici curdi, “era nato nel maggio 1999 al Campo Boario, in un edificio inserito nel complesso in disuso dell’ex Mattatoio di Testaccio”. Quello che era soltanto uno stabile abbandonato divenne in breve tempo un dignitoso “spazio di accoglienza e di ospitalità, ma anche un luogo dove sperimentare forme di condivisione tra attività artistica e culturale, solidarietà civile e trasformazione del territorio”. L’edificio riportato a nuova vita venne ribattezzato con il nome di Ararat, il monte leggendario su cui si arenò l’arca di Noè scampata al diluvio universale, portando in salvo tutte le specie animali e vegetali del pianeta. Ma Ararat era anche il nome dato alla prima nave carica di profughi curdi giunta in Italia. Da secoli il monte Ararat è un simbolo, una “montagna sacra” per curdi e armeni, due popoli entrambi vittime dello Stato turco.
In molti, nel corso degli anni, avevano contribuito alla realizzazione di questo spazio: in primo luogo i profughi curdi che vi hanno trovato accoglienza, ma anche varie associazioni come Azad, Villaggio Globale, Senzaconfine, le Donne in nero, gli architetti di Stalker, l’associazione “Un ponte per…” (oltre a un gran numero di artisti e volontari).
Attualmente il centro è fornito di sala da tè, cucina, barbiere, sala di lettura (in cui è possibile leggere pubblicazioni sulla questione curda e vedere il canale satellitare in lingua curda Roj TV).
Tutte le attività – tra cui anche corsi di lingua curda e corsi di ballo curdo – sono autogestite e autofinanziate dagli ospiti del centro con la collaborazione di volontari esterni. Parallelamente alla funzione di accoglienza, Ararat “è uno spazio in cui coltivare coraggiosamente la propria cultura e identità (pur mutevole e in continuo divenire), attività che diventa fondamentale per non sentirsi completamente persi dopo aver varcato il confine del proprio Paese con la prospettiva di non tornarci mai più, o di non potervi rientrare per un periodo molto lungo”. Infatti la comunicazione delle ragioni dell’esilio alla società ospitante, ma anche delle bellezze e del valore storico della cultura di provenienza, possono fornire un significativo percorso di inserimento e legittimazione per persone che hanno perso molto, e che molto sono state costrette a lasciare dietro di sé.
Non scordiamo che la Mesopotamia, culla della civiltà, luogo di scambio e di transito fra l’occidente e l’oriente, ha visto nel corso del suo sviluppo storico un moltiplicarsi di culture. In particolare è stata il luogo d’origine e sviluppo del popolo curdo. Analogamente qui, nel cuore della capitale d’Italia, Ararat rappresenta un ponte fra oriente e occidente, non soltanto un punto di riferimento per la diaspora curda nel nostro Paese.
Oggi Ararat rappresenta una parte importante della città di Roma e anche il Comune e le istituzioni cittadine finora sembravano riconoscerne – seppur informalmente – il ruolo di accoglienza.
La funzione sociale svolta, ormai da anni, dall’Associazione Ararat si concretizza nel costituire un punto di riferimento essenziale per i cittadini curdi che in Italia vogliono chiedere asilo politico: a loro Ararat onlus fornisce servizi di orientamento e informazione per l’accesso all’audizione presso la Commissione Territoriale (Commissione che, per la Convenzione di Ginevra, riconosce la protezione internazionale per i rifugiati politici e di guerra). Tale attività è di aiuto e di supporto agli organismi istituzionali e attua le linee di intervento per rifugiati e richiedenti asilo, previste dalle direttive europee, senza oneri per lo Stato e per gli enti delegati e preposti all’accoglienza dei richiedenti asilo, quali i Comuni e Roma Capitale.

Post scriptum del 4 aprile

Caro Gianni, sono d’accordo sul pezzo, l’unica cosa che bisogna sottolineare di più, marcatamente, è chi lo sta chiudendo, quello non si capisce esattamente. La denuncia secondo me non si deve fermare sul concetto “perché si chiude”, ma chi è il diretto responsabile della chiusura (fare anche una velata denuncia chiedendosi se dietro tutto ciò possa essere anche una richiesta malcelata delle autorità turche, accettate come sempre dalla debole posizione del governo italiano…)

Così mi scrive, dopo aver letto l’articolo soprastante, un amico che per ragioni storiche di famiglia conosce bene la protervia dei governi turchi nei confronti di curdi e armeni.
Effettivamente, come ho verificato, dietro la richiesta di sgombero di Ararat c’era il Comune di Roma in qualità di esecutore delle politiche renziane. Una conferma dell’intenzione di riprendersi tutti gli spazi pubblici autogestiti per poi, eventualmente, riassegnarli attraverso un bando. Una scelta chiaramente punitiva (con l’intento di far loro chiudere i battenti) nei confronti di quelle associazioni che avevano restaurato e ristrutturato, salvandoli dal degrado, spazi abbandonati dall’incuria istituzionale e privata, restituendoli alla collettività.
Ma forse nel caso di Ararat c’è anche di peggio.
Coincidenza, proprio in quei giorni emergeva l’alleanza strategica tra la turca Erdemir, Marcegaglia e Arvedi (affiancati dalla Cassa Depositi e Prestiti) per il salvataggio dell’acciaieria Ilva di Taranto, in vista della scadenza del 23 maggio per la presentazione di offerte vincolanti. Un’alleanza vista con favore dal governo italiano che sembra aver ormai rinunciato all’ipotesi di una cordata tutta italiana a favore di Erdemir, primo produttore di acciaio in Turchia (45° posto nella graduatoria mondiale) con un patrimonio di oltre sei miliardi di euro. Definita “società integrata con una struttura che va dall’estrazione alla  produzione di acciaio con siti produttivi a caldo e a freddo”, Erdemir è già fornitore di Marcegaglia a cui spetterebbe il compito di completare la cordata (con Arvedi e  Cassa Depositi e Prestiti).
I tempi coincidono: la visita di Erdemir all’Ilva di Taranto risale al 22 marzo, lo stesso giorno della lettera di Tronca con la richiesta di sgombero (l’ultimatum di dieci giorni scadeva il 2 aprile).
Non si può quindi escludere che in cambio di un eventuale salvataggio dell’Ilva, Ankara abbia chiesto al servizievole governo Renzi di tappare la bocca ad Ararat, una voce dissidente ancora in grado di denunciare i crimini contro l’umanità della Turchia.