Il 17 novembre nel carcere di Sincan (Ankara) si terrà la quarta udienza del processo all’accademica Nuriye Gulmen e al maestro elementare Semih Ozakca.
Alle ore 17 del 15 novembre, due giorni prima, il Comitato italiano per il rispetto dei diritti umani, della libertà di espressione e per la fine dello stato di emergenza ha indetto a Roma davanti all’ambasciata turca un presidio di solidarietà con i due insegnanti turchi in sciopero della fame dal 9 marzo. Lo scopo è “denunciare la brutalità del regime turco guidato dall’AKP di Erdoğan”.
Un breve riepilogo. In seguito al tentato golpe (vero o presunto) del luglio 2016, oltre 150mila funzionari pubblici (tra cui migliaia di accademici universitari) venivano licenziati. Contemporaneamente finivano i carcere circa 3mila giornalisti (180 sono tuttora dietro le sbarre), avvocati, musicisti (vedi quelli di Grup Yorum) e centinaia di militanti di sinistra. La protesta di Nuriye e Semih aveva appunto questo scopo: riottenere il posto di lavoro da cui ingiustamente erano stati allontanati.
Come forse ricordano i nostri lettori, la risposta del governo è stata quella di sottoporli prima a 27 custodie cautelari, poi all’arresto (22 maggio) con l’accusa surreale di “appartenenza ad associazione terrorista”.
Visto che nonostante l’arresto non desistevano dai loro propositi, li hanno rinchiusi nell’ospedale della prigione di Ankara, a Sincan, in attesa della prima udienza del 14 settembre presso la Corte di Ankara. Dove però non sono mai arrivati.
A giustificazione veniva invocata una presunta “scarsità delle forze di polizia atte a vigilare sui due imputati”. Imputati che già allora erano allettati per evidenti ragioni.
Non solo. Due giorni prima venivano arrestati gran parte dei componenti del collegio difensivo (ben 15 avvocati).
La seconda udienza cadeva il 28 settembre, sempre all’interno di Sincan. Due giorni prima Nuriye veniva sequestrata di notte, senza che avesse la possibilità di comunicare con familiari e avvocati. Lo scopo? Presumibilmente impedirle di presenziare al suo processo e soprattutto impedire che venisse vista nelle sue autentiche condizioni fisiche. Rinchiusa in un ospedale pubblico, Nuruye veniva sottoposta a terapia intensiva sotto la costante minaccia di un intervento di alimentazione forzata.
Regolarmente, anche il 20 ottobre, alla terza udienza, le veniva impedito di partecipare. A Semih venivano invece concessi gli arresti domiciliari (con braccialetto elettronico).
Il 20 ottobre era presente, via cavo da Istanbul, Berk Ercan. Un collaboratore stipendiato, diventato il principale accusatore nei confronti, oltre che di Nuriye e Semih, di molti avvocati e militanti di sinistra. Tutti indistintamente accusati di “appartenenza ad associazione terrorista” (comprese la “zia di Gezy Park”, Emine Consever, e Ayse Lerzan Caner, da sempre impegnata nella difesa dei prigionieri politici).
Accuse alquanto fantasiose e inconsistenti, a ben guardare, ma comunque tali da portare in galera un gran numero di oppositori del governo AKP.
In un’intervista rilasciata al giornalista francese Jérémie Berlioux, per la testata Svizzera “Le Courrier”, al momento del suo ritorno a casa Semih Özakça ha dichiarato:

I nostri leader non riescono a più gestire il Paese e cercano di controllare la situazione mantenendo lo stato di emergenza e governando per decreto. La nostra resistenza ne è la conseguenza. Accusano di terrorismo chiunque gli si opponga. Ci hanno arrestati per soffocare il nostro movimento. Senza successo. Restituirci il nostro lavoro sarebbe semplice, ma non lo fanno perché ciò andrebbe contro la loro intera politica.
Siamo stati licenziati a causa dello stato di emergenza. In opposizione a esso, anche noi formuliamo una rivendicazione politica e chiediamo l’annullamento dei decreti. Il nostro sciopero della fame non si concentra solo sui nostri impieghi, ma fa parte di un più ampio movimento di resistenza.

Come dicevo, la prossima udienza è prevista per il 17 novembre. Nel frattempo, come si sta muovendo la Corte europea per i diritti dell’uomo?
Praticamente non manda segnali di vita. Una lettera firmata da vari parlamentari europei era stata inviata a Federica Mogherini affinché si attivasse per salvaguardare la vita dei due hunger strikers. Al momento è ancora la classica “lettera morta” e probabilmente lo rimarrà a lungo.
Non sembrano farsi soverchie illusioni gli esponenti del Comitato italiano per il rispetto dei diritti umani. Scrivono che la lotta di Nuriye e Semih è

espressione della lotta di classe oggi in corso in Turchia, La loro vita è appesa ad un filo, il loro cuore potrebbe cedere da un minuto all’altro. Ma loro hanno scelto la lotta ed una forma di lotta pacifica, particolare che ha portato Nuriye a pesare 38 kg.
Hanno scelto la strada della lotta e non della comoda fuga verso l’estero. Stanno lottando per loro ma anche per noi in Europa, per le generazioni future. Hanno trasformato la rabbia in coraggio. Meritano tutto il nostro sostegno per la resistenza che stanno opponendo al fascismo turco non tanto lontano dalle condizioni in cui potremmo trovarci a breve anche qui in Italia.

E non è finita qui. L’8 novembre veniva arrestato per strada, mentre si recava a una conferenza, Selçuk Kozağaçlı, il principale avvocato di Nuryie e Semih (oltre che di tanti altri militanti di sinistra), portavoce e presidente di tutti gli avvocati progressisti di Turchia.
Il 3 novembre si era invece conclusa l’udienza per Ayse Lerzan Caner, conosciuta anche da molte associazioni italiane di solidarietà. Come Nuriye, anche Lerzan non era stata portata in aula dal carcere e non vi è stato neppure un collegamento video. In pratica: un processo a porte chiuse. Nessuna decisione presa in tale circostanza, ma soltanto l’impegno della corte per una prossima udienza.
L’arresto di Lerzan risaliva al 3-4 ottobre in quanto il suo nome risultava nella lista di 110 nomi compilata del collaboratore Berk Ercan (lo stesso che ha chiamato in causa Nuriye e Semih e 15 “avvocati del popolo”).
Il capo di imputazione era “propaganda per associazione terrorista” e quindi rischia da uno a 5 anni. In realtà sarebbe meno pesante del precedente: “appartenenza ad associazione terrorista”, presumibilmente in riferimento al Fronte rivoluzionario di liberazione popolare (DHKP – C). Un capo d’imputazione per cui rischia dai 20 ai 30 anni di carcere.
Ora comunque, paradossalmente, se li ritrova sulle spalle entrambi.