Lui, re Vittorio, il Padre della Patria, è il primo a non prendere troppo sul serio questa sua figlia scombinata. Fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta. “E io nell’elmo di Scipio ci faccio la pastasciutta”, usa dire con modesta arguzia. Del resto Vittorio ha già il suo voltastomaco a trangugiare il parlamentino piemontese. Figurarsi se vuole aggiungervi l’eteroclita miscela delle regioni italiane, delle colonie insomma.


Fosse dipeso da lui, ora non si troverebbe davanti l’indigesto calice della costipazione (così chiama la costituzione quando è in vena di finezze). Ma deve fare buon viso a cattivo gioco e, in attesa di migliori eventi, tollerare quello statuto che il padre ha scriteriatamente concesso (“une des sottises que nous avons faites”, si scusa re Vittorio, una stupidaggine che abbiamo fatto).
“Il re non ama lo statuto come forma di governo, né la libertà della camera e della stampa come istituzioni. Le accetta temporaneamente, ma è bene non ingannarsi sulle disposizioni del monarca”, scrive in patria l’ambasciatore francese De Bulenval.
Con l’ambasciatore austriaco Apponyi, re Vittorio è ancora più drastico nel denunciare la sua avversione per “ces canailles de démocrates”, aggiungendo “on tombe sur cette canaille et on l’écrase comme des mouches”, li schiacceremo come mosche.
Analoghi sentimenti e intenzioni esprime sia al nunzio pontificio sia al vescovo Charvaz, già suo precettore e ora amico. A monsignor Charvaz, anzi, confiderà di avere pronto un piano per sciogliere il parlamento qualora le nuove elezioni venissero vinte dalla sinistra.
Naturalmente la nostra agiografia risorgimentale si metterà d’impegno a modificare, alterare, cancellare questa e altre macchie da quel ritratto di “Re Galantuomo” (e di un Piemonte garante delle libertà costituzionali) quale veniva in quel periodo inventato e disegnato da abili registi.
“Che Vittorio Emanuele si fosse consacrato alla causa dell’indipendenza italiana”, scrive lo storico inglese Mack Smith, “era un dogma sacrosanto che gli storici non dovevano mettere in dubbio, anche se il re poteva essersi espresso in senso molto diverso”.
Saranno proprio questi abili registi, D’Azeglio prima, Cavour poi, a non consentire al giovane Vittorio deragliamenti dai binari costituzionali. Cavour soprattutto. Esperto fino in fondo nell’arte della strategia parlamentare, ha gioco facile con un sovrano che non ha ancora idee ben chiare sul funzionamento di un parlamento… e nemmeno su un parlamento, a quanto pare.

Italia, chi?

Il re non ama il Cavour e non ne fa mistero; il Cavour ha scarsa stima del re e non fa nulla per nasconderlo. Su una cosa tacitamente si intendono: sul “disegno storico” di liberare la “nazione asservita”.
Nella prima bozza del disegno originale, quando dicono “Italia” sia il re sia il suo ministro pensano all’Italia settentrionale, non certamente a quella pontifìcia, meno che mai a quella dei Borbone, ci mancherebbe. Quanto all’Italia centrale, quando la otterranno senza colpo ferire (a meno di non considerare “fatti d’arme” i risibili interventi del Cialdini nelle Marche e nell’Umbria), snobberanno le delegazioni dei nuovi sudditi o aspiranti tali costringendole a significative anticamere.
La cautela del resto s’impone, dovendo fare i conti con i governi di tutta Europa. C’è da aggiungere che di tutta questa Italia centrale che gli piove addosso in regalo Vittorio non sa che farsene. È dispostissimo a cambiarla con quel Veneto che, invece, gli viene negato. Pur di avere il Veneto è disposto ad aggiungere all’Italia centrale un buon peso: un miliardo di lire (che comunque non ha) e il suo consenso al ritorno di Ferdinando di Lorena a Firenze (senza fare i conti, però, con il Ricasoli). Scrive a Cavour in missione a Parigi: “Dia i principati dell’Italia centrale all’Austria, o anche al diavolo se li vuole, ma ci faccia dare quello che voglio io”. Cioè il Veneto, per completare l’unica Italia che gli interessa.
Alla fine, come è ben noto, Vittorio Emanuele si degnò di accettare l’impensabile ingrandimento territoriale, e quello che è peggio dovette affrontare un viaggio per visitare le nuove colonie. Anche Cavour, il gran tessitore, partì per visitare l’Italia finalmente unita. Ma giunto a Firenze fece dietrofront, non volle vedere altro. Il suo sconfortato, illuminato commento fu: “Che fortuna aver conosciuto l’Italia dopo averla fatta!”