Pochi partiti al mondo sono una sorta di “arci-istituzione” come i socialdemocratici danesi (SD). Fondato nel 1871, lo SD ha avuto la più larga rappresentanza in Parlamento per settantasette anni consecutivi. Tra i suoi successi figurano la creazione del welfare state, la costruzione della Danimarca moderna e la formazione del carattere danese. “In fondo, siamo tutti socialdemocratici”,  mi ha confidato una persona a cui questo partito non piace.
Nonostante la sua genealogia e una tradizione favorevole alle frontiere aperte, dal 2019 lo SD ha imposto una politica estremamente restrittiva in materia di immigrazione, ponendo la Danimarca all’avanguardia in Occidente nell’impegno di salvare la cultura tradizionale.
Dal momento che pochi al di fuori della Danimarca hanno notato questo eccezionale cambiamento, mi sono recato a Copenaghen prima delle elezioni legislative del 1° novembre per capire cosa abbia indotto tale fenomeno, quanto sia in grado di cambiare le cose e se la Danimarca possa costituire un esempio per altri Paesi.

Risollevarsi dalla crisi

L’insolito percorso danese è iniziato nel 2011, quando i settantasette anni di gloria dell’SD si sono conclusi e i socialdemocratici hanno perso il potere a causa delle tensioni prodotte dall’immigrazione incontrollata, soprattutto per i flussi provenienti dal Medio Oriente. Nel 2006, una raffigurazione del profeta Maometto nella vignetta satirica di un giornale danese aveva scatenato proteste internazionali nel mondo musulmano: la controversia è stata per il Paese la peggiore degli ultimi decenni in tema di relazioni estere. Nel 2015, lo SD ha avuto di nuovo la peggio, in buona misura a causa dei numerosi immigrati mediorientali.
Il partito ha reagito scegliendo come leader una 37enne, Mette Frederiksen. Senza perdere tempo, la Frederiksen ha riveduto e corretto la politica lassista della sua formazione, chiedendo di porre un tetto agli “immigrati non occidentali”, di espellere verso il Nordafrica i clandestini e, per gli immigrati, di farsi assumere a tempo pieno lavorando 37 ore alla settimana. Il suo partito ha appoggiato una legge che consente la confisca dei gioielli agli immigrati e il divieto di burqa e niqab, gli indumenti islamici che coprono il corpo e il viso della donna.
Questo approccio inaspettatamente severo da parte di un partito socialdemocratico ha dato ottimi frutti. L’SD e i suoi alleati hanno vinto le elezioni del 2019 e la Frederiksen è diventata premier. Al contrario, il partito popolare danese (DPP), anti-immigrazionista, ha subìto una clamorosa sconfitta, passando dai 37 seggi ottenuti nel 2015 ai 16 del 2019.

Mette Frederiksen.

Iniziative politiche

La Frederiksen ha parlato di “rispettare i nostri valori danesi” e ha preso provvedimenti per controllare l’immigrazione. Nel 2015, la Danimarca aveva accolto 21.316 richiedenti asilo, scesi a 1515 nel 2020. Mette Frederiksen aveva annunciato l’obiettivo di zero richiedenti asilo nel 2021, sebbene il numero effettivo sia salito a 2099, probabilmente a causa dell’allentamento delle restrizioni legate alla pandemia. Analogamente, il numero di asili concessi è passato da 19.849 nel 2015 a 601 nel 2020 e poi a 1362 nel 2021. Sono numeri irrisori rispetto a quelli di molti altri Paesi dell’Europa occidentale: per esempio, la vicina Svezia ha concesso 17.215 asili nel 2020, ovvero circa 15 volte di più della Danimarca su base pro capite.
Già prima che la Frederiksen entrasse in carica, le autorità danesi avevano inviato segnali palesemente ostili ai potenziali immigrati. Nel 2015, il governo aveva fatto scalpore sui media internazionali pubblicando su quattro giornali libanesi un’inserzione per annunciare l’inasprimento delle norme in materia di asilo e immigrazione: in altre parole, “andatevene da qualche altra parte”. L’SD si è poi impegnato a intraprendere una serie di misure forti per incoraggiare il rimpatrio, compresa l’espulsione forzata. Per esempio, tra quelli che il governo chiama con bel garbo “richiedenti asilo spontanei” (leggi immigrati irregolari), chi rifiuta il rimpatrio potrebbe ritrovarsi in uno dei tre “centri di rimpatrio” del Paese. Inger Støjberg, ministro dell’Integrazione nel 2018, ha suggerito che le condizioni in questi centri dovrebbero essere “le più intollerabili possibile”.
Il numero delle persone coinvolte è stato esiguo e non ha granché scalfito il problema, la battaglia legale è stata lunga e costosa, ma questi rimpatri – uniti alle inserzioni, alla legge sulla confisca dei beni e ad altri provvedimenti – hanno rafforzato l’insofferenza danese nei confronti degli immigrati irregolari: “Non venite in Danimarca. Siamo cattivi. Andate invece in Germania o in Svezia”. Risultato, nel 2020 hanno lasciato la Danimarca più rifugiati di quanti ne siano arrivati.
In parallelo, tuttavia, l’SD ha scarsamente affrontato i problemi, assai più impegnativi, provocati dai musulmani e da altri immigrati provenienti da culture lontane e da condizioni più arretrate. Patologie sociali, disoccupazione, scontri culturali e “società parallele” restano tematiche con cui i futuri governi dovranno confrontarsi.


Uno sforzo serio?

I socialdemocratici danesi si sono limitati ad annusare il vento o hanno intenzioni serie? Per capirlo, giova fare un passo indietro e concentrarsi su come i partiti dell’establishment e quelli “civilizzazionisti” vedono l’immigrazione.
I partiti dell’establishment accolgono favorevolmente l’immigrazione su larga scala poiché tendono a non preoccuparsi della propria cultura, che spesso associano al fascismo, all’imperialismo e al razzismo. Provano un senso di colpa nei confronti dei popoli non occidentali, che ritengono sfruttati dall’Occidente, impoveriti e repressi dalla sua avidità. Un visitatore del Nationalmuseet scoprirà che le navi danesi trasportarono circa 110 mila schiavi dall’Africa all’emisfero occidentale. L’establishment accoglie con favore la diversità e la trasformazione culturale. Ritrae gli immigrati come miti visitatori, giovani aspiranti accademici, imprenditori di successo o orgogliosi membri delle forze armate.
Al contrario, attaccati alla propria lingua, ai costumi, alla religione e all’affinità culturale con chi li circonda, i civilizzazionisti desiderano preservare il loro stile di vita tradizionale. Emblematico di ciò, quanto i danesi apprezzino l’abitudine dei pedoni di attendere diligentemente che il semaforo diventi verde, anche quando non si vede alcun veicolo nei dintorni. O come il trasporto pubblico si affidi all’onestà e alla civiltà dei cittadini.
Quando un gran numero di persone parla altre lingue, segue altre usanze, professa altre religioni e si comporta in modo diverso dagli autoctoni (tipo attraversare col rosso), i civilizzazionisti si offendono o addirittura si spaventano. E puntano il dito contro la miriade di problemi con i migranti mediorientali, come la poligamia, le mutilazioni genitali femminili, i delitti d’onore, la criminalità, gli stupri di gruppo, la violenza jihadista, le nuove malattie, il rifiuto dell’integrazione, la disoccupazione.
Due forze, tuttavia, scuotono la coesione dell’establishment sull’immigrazione. Una riguarda il benessere dei lavoratori autoctoni, minato da ondate di concorrenti a basso costo; il che rende personaggi di estrema sinistra come il senatore statunitense Bernie Sanders, il deputato laburista Jeremy Corbyn e il candidato alle presidenziali francesi Jean-Luc Mélenchon, cauti riguardo alle ondate migratorie. Interessante notare come la Frederiksen abbia messo bene in chiaro questa posizione: “Il prezzo della globalizzazione non regolamentata, dell’immigrazione di massa e della libera circolazione dei lavoratori viene pagato dalle classi inferiori”.
L’altra forza dirompente riguarda gli elettori: se l’apertura delle frontiere causa una perdita di voti, allora l’establishment deve ripensare al suo approccio, come è accaduto in Danimarca tra il 2001 e il 2015. Insieme, queste due forze mi fanno pensare che l’SD abbia fatto una scelta convinta, quand’anche dovesse subire una sconfitta elettorale.

Il dibattito attuale

La sterile polemica buono/cattivo sull’immigrazione incontrollata dilania tutti gli altri Paesi occidentali. Solo la Danimarca discute in modo costruttivo le tattiche da utilizzare: fino a che punto imporre le restrizioni? Essendo questo Paese un membro dell’Unione Europea nonché firmatario di numerose convenzioni ONU in materia di asilo, ricongiungimento familiare, diritti umani, rifugiati, apolidia, circa l’80 per cento delle relative leggi danesi deriva da queste due fonti. La questione, quindi, ha poco a che vedere con le preferenze astratte e molto con la volontà di sfidare le autorità superiori.
I socialdemocratici ammettono che la Danimarca, un Paese rispettoso della legge con una popolazione di appena 5,8 milioni di abitanti, deve lavorare rigorosamente entro i limiti esistenti. “Siamo un piccolo Paese, non possiamo fare quello che vogliamo”, mi ha detto Kaare Dybvad, formidabile ministro dell’immigrazione e dell’integrazione dell’SD.
In risposta, Morten Messerschmidt, l’altrettanto notevole leader del DPP, ha ribattuto che i princìpi fondamentali dell’SD esigono di seguire docilmente i dettami dell’UE e dell’ONU. Messerschmidt invece vuole spingersi oltre, ignorando determinate leggi dell’UE e abbandonando le convenzioni delle Nazioni Unite. Non farlo, secondo Messerschmidt, significherebbe una durezzaa puramente retorica a fini elettorali, senza risultati pratici.
Questa è l’essenza del dibattito in Danimarca, un dibattito sensato, con argomenti plausibili da entrambe le parti. Gli elettori decideranno quanto vorranno essere aggressivi.

Kaare Dybvad.

Perché prooprio la Danimarca?

Ho domandato ai miei interlocutori danesi perché la Danimarca abbia rotto gli schemi delle politiche migratorie prima di ogni altro Paese occidentale, sviluppando un certo consenso tra l’establishment e i civilizzazionisti. Ho ricevuto risposte interessanti. Ecco alcune motivazioni.
Kaare Dybvad: la politica migratoria eccessivamente lassista adottata dal Paese in passato richiede ripensamento ed equilibrio.
Morten Messerschmidt: l’uguaglianza economica del Paese punta all’emancipazione popolare.
Naser Khader, coraggioso parlamentare indipendente di origine siriana: la crisi delle vignette satiriche.
Mikkel Andersson, autore di un libro sull’immigrazione in Danimarca: la natura ribelle dei danesi.
Michael Pihl della Danish Free Press Society: la natura non gerarchica del Paese.
La spiegazione più convincente è arrivata dallo scrittore norvegese Peder Jensen e dal giornalista e storico Bent Blüdnikow. Con Pia Kjærsgaard (nata nel 1947), la Danimarca ha avuto il politico carismatico giusto al momento giusto e con il messaggio giusto. Ella ha trasformato il partito popolare danese in una forza non minacciosa e non estremista che, a partire dal 2001, ha ottenuto un forte appoggio e ha costretto l’SD a rispondere seriamente alle sue critiche.
In altre parole, la felice evoluzione della Danimarca non è frutto di carattere nazionale né di profondi sviluppi storici, ma piuttosto il risultato casuale di personalità umane e contingenze. Questo a sua volta suggerisce che sia pressoché impossibile prevedere quale Paese occidentale possa seguire l’esempio della Danimarca per attuare una politica sensata in materia di immigrazione.

Impatto esterno

Gli osservatori in generale riconoscono che i danesi hanno aperto nuovi orizzonti. L’analista politico Kristian Madsen ha visto le elezioni del 2019 come “un laboratorio per ciò che il centro-sinistra [in Europa] potrebbe essere”. L’analista Jamie Dettmer ha osservato che la vittoria della Frederiksen “ha acceso un dibattito tra gli altri partiti europei di sinistra: dovrebbero anch’essi adottare una dialettica anti-migranti, emulare le loro controparti danesi e fare una campagna finalizzata a imporre regole più rigide sull’accoglienza?”.
La stessa Frederiksen ha decantato agli altri partiti socialdemocratici l’approccio duro adottato dalla Danimarca. “Per anni”, ha ricordato loro, i socialdemocratici “hanno sottovalutato le sfide dell’immigrazione di massa (…) Non siamo riusciti a preservare il contratto sociale, che è la base stessa del modello socialdemocratico”.
Ma non si sono viste troppe adesioni. La sinistra austriaca ha fatto qualche passettino in questa direzione quando Christian Kern, cancelliere socialdemocratico nel 2016-2017, ha inasprito le norme sull’immigrazione. I socialdemocratici svedesi hanno borbottato qualcosa di vago su un maggior impegno a favore dell’integrazione degli immigrati, con il primo ministro Magdalena Andersson che ha affermato: “Non vogliamo china-town o somali-town (…) vogliamo che lo svedese sia la lingua naturale in tutta la Svezia”.
In conclusione, quindi, non sarà tanto il modello danese a infondere buonsenso all’Europa, quanto gli sviluppi autonomi in ciascun Paese. La Danimarca potrà servire da esempio, ma non spianerà il cammino.