Dalla voce del leader storico del sardismo, quasi una favola, amarissima dietro l’apparente sorriso: è, priva di toni paludati e seriosi, la storia di secoli di soprusi nei confronti di un popolo che, a ragione, non si rassegna a rinunciare alla propria identità.

In principio c’erano i Sardi. Le lunghe giornate di quei tempi cominciavano prestissimo e finivano la sera. La po­vera gente ne approfittava per cercare di vivere. Ma a volte si annoiavano, e allora uno propose: “Perché non facciamo un nu­raghe?” E poiché nessuno, così all’im­pronta, seppe spiegare perché no, si mi­sero subito al lavoro e per un migliaio di anni ammucchiarono pietre su pie­tre con una sapienza e un’eleganza ve­ramente eccezionali. Dopo dieci secoli avevano costruito un bel po’ di nura­ghi, soprattutto in Logudoro. Proprio quell’anno in Sardegna arrivò il Cartaginese, un ometto mica male, simpatico e spigliato, che prese a rac­contare con accenti ispirati. “La pasto­rizia è roba da selvaggi, o da briganti, e non conviene ai Sardi; invece convie­ne distruggere i boschi e seminare gra­no. Il grano infatti viene imbarcato sul­le navi e non si guasta, mentre il latte e gli agnelli si guastano (specialmente durante gli scioperi).” Lo ascoltavano incantati, vuoi per amore del nuovo, vuoi per il fascino del continente (africano, s’intende) che aleggiava, lieve come un’aureola, sul capo di quel profeta. La domenica suc­cessiva, tuttavia, un pastore gli fece os­servare: “Ma noi non abbiamo navi.” Nel silenzio teso del piazzale il Carta­ginese, lentamente, si portò una mano alla fronte come per aggiustarsi l’aureo­la. Poi sorrise con estrema pazienza e disse: “Non abbiamo navi, vero?” Con repentino mutamento di tono, gridò: “Ignorante! Che ne faresti tu di una nave?” “È vero, è vero” – approvava la gente – “Antoniccu non sa neppure nuotare.” Il forestiero proseguì: “Voi pensate a dissodare, a zappare e produrre il gra­no; le navi lasciatele manovrare a chi se ne intende.” Scoppiò un applauso. “A ognuno il suo mestiere”, sentenziò un bottegaio car­rierista. Ma Antoniccu, ostinatissimo, si arrampicò su un albero e formulò so­lennemente questa inattesa decisione: “Sarà, ma voi non siete Sardi; i Sardi siamo noi.” Al Cartaginese tremarono i baffi. “Hai torto, pastore – replicò poi incazzatissimo. Voi credete di essere i Sardi, ma i veri Sardi siamo noi che difendiamo i veri interessi della Sarde­gna!” Scoppiò un nuovo applauso frammisto a belati. Il popolo, affamato di pane e di cipol­le, abbatté l’albero, cacciò Antoniccu in montagna, seminò, zappò, imbarcò a perdifiato. Da quel giorno nessuno si annoiava, nessuno aveva più voglia di costruire nuraghi. Soltanto l’indoma­bile pastore, con la complicità di due figlie un po’ mascoline, ne costruì ancora qualcuno, lassù in montagna, giu­sto quanto bastava per continuare una piccola coltivazione di agnelli e di for­maggi. Tramontato il sole, da un altro conti­nente vennero i Romani e senza spie­gare niente, col solo ausilio di lance e di spade, cancellarono dall’isola (per ora) i simpatici Cartaginesi i quali, co­me poi si venne a sapere, erano il po­polo più bugiardo del mondo (Tito Li­vio, l’onesto storico romano, scriverà: “Bugiardo come un Cartaginese”). I veri Sardi infatti erano i Romani. An­toniccu, dalla sua montagna, gridò che lui non ci credeva. Il console, un po’ seccato, gli aizzò con­tro una legione e trecento cani. Così lo presero e sul mercato di Bugerru lo ven­dettero schiavo a una società minera­ria francese amministrata da un Turco (vero Sardo pure lui). Così i Romani fe­cero giustizia, perché essi, oltretutto, erano la patria del diritto (Nulli nocendum, unicuique suum, ecc.)

La Storia, a ben guardare, è tutta pie­na di casi istruttivi. Sapevate, per esem­pio, che anche i Pisani e i Genovesi per un certo tempo tentarono di essere i veri Sardi? Costoro, per la verità, pur non essendo la patria del diritto, all’arma dell’agricoltura senza alberi, alle spa­de e alle lance preferirono le cerimonie nuziali: mandavano avanti un bel gio­vane (ora un conte della Gherardesca, ora un Doria) di cui doveva innamorar­si la figlia del capotribù e così, unendo l’utile al dilettevole, conquistavano qual­che piccolo regno (questa tecnica è tut­tora in vigore in certi ambienti aristo­cratici e borghesi). Un nuovissimo concorso per Sardi au­tentici, raccontano gli storici, fu vinto da Aragonesi, Catalani e Castigliani, fra i quali primeggia per fama l’impe­ratore Carlo V, uomo fortunato e ge­neroso, che da un balcone di Alghero concesse a todos los llocos presentes, e non erano pochi, il titolo di caballeros . Tanto non gliene fregava niente. E veniamo ai duchi di Savoia che eb­bero in sorte (cattiva per tutti) la Sar­degna mediante un gioco di dadi truc­cati: uno di questi dadi recava una S che prima fu interpretata Sicilia a S (Sa­voia) e poi Sardegna a S. Ebbene, ben­ché la Sardegna gli facesse schifo pri­ma ancora di conoscerla, i duchi, non potendo rifiutare (per educazione, trat­tandosi di un regalo), accettarono; pe­rò da semplici duchi si promossero re di Sardegna (comincia a questo pun­to, sia detto fra parentesi, la più grave e perdurante sciagura dei Sardi.) Que­sti duchi-re, quando Napoleone li pre­se a calci, ripararono in Sardegna; ma considerandosi in esilio sospiravano la caccia allo stambecco delle Alpi pie­montesi e inondavano di lacrime i vec­chi bastioni di Cagliari. Il popolo pe­rò, col solito buon cuore, li amava e cercava di consolarli regalandogli de­nari, carrozze e dolci di Quartu. Il buon re di Sardegna, un po’ ignorantello e un po’ svanito, un giorno cre­dette che Napoleone fosse morto e, col bel tempo, riattraversò il Tirreno, tan­to per avvicinarsi cautamente al Pie­monte. Era povero, poverino, questo tanghero di re; perciò non volle parti­re senza saccheggiare il monte graniti­co che i Sardi, tutti soli in Europa, ave­vano riempito di grano per pagare al bey di Tunisi il riscatto di ottocento cit­tadini sardi sequestrati a Sant’Antioco (allora purtroppo non c’erano carabi­nieri né magistratura). E insomma: la­dri cartaginesi, ladri romani, ladri di Pi­sa, ladri piemontesi. Oh, signori, quanti ladri! E poi dicono gli abigeatari del Nuorese.

Mi premerebbe ora, per completezza, parlare di ladri italiani. Ma confesso che non oso, sia perché non esistono la­dri italiani e sia perché, se esistessero (ipotesi assurda), che cosa potrebbe di­re un sardista? L’Italia non si tocca. E poi, un momento, quali sono i veri sardisti? Ora c’è un concorso per veri sardisti, e io forse non ho le carte in re­gola.