Situata a 1400 km da Tahiti e a circa 500 km dall’isola più vicina, Ra’ivavae, Rapa sorge isolata all’estremo sud dell’arcipelago delle Isole Australi; secondo le rappresentazioni teatrali polinesiane dei viaggi leggendari, intorno al 650 d.C. fu il punto di partenza del grande navigatore Ui-te-Rangiora per l’Antartide, dove ebbe modo di conoscere le meraviglie dei ghiacciai. La sua superficie è di circa 38 kmq; il maggiore rilievo, il monte Perau, raggiunge i 650 m di altitudine. Il villaggio principale, Ahurei, si sviluppa sul bordo del cratere sommerso, di fronte all’insediamento minore Area: per andare da un villaggio all’altro conviene attraversare la baia in barca (10 minuti) piuttosto che percorrere i 14 chilometri di strada sconnessa che la costeggia.
La morfologia dell’isola rende difficile e costosa la costruzione di un aeroporto, peraltro poco desiderato dal mezzo migliaio di abitanti che oggi vi risiedono: bisognerebbe scavare la pista in cima alla montagna o interrare parte della baia, con un impatto notevole sull’ambiente.
La lingua parlata, il reo rapa, somiglia al reo mā’ohi arcaico, dove la ’eta, il colpo di glottide che si indica con la virgoletta a chiudere, spesso è una “k”, a riprova che nel moderno polinesiano alcune consonanti si sono elise con il passare del tempo.
rapa iti - mappa

Un po’ di storia

La leggenda narra che gli abitanti di Rapa discendano da Tiki, il primo uomo, arrivato dal (oscurità) della mitologica terra di Avaiki, il nostro aldilà. La remota isola ha vissuto in uno stato di guerra perpetua per la scarsità di terre da coltivare – fino alla sua scoperta da parte dei navigatori europei – quando, prima delle epidemie che la colpirono, la sua popolazione contava circa 3000 abitanti (oggi ridotti a 526). Da notare che i primi a passare dall’isola – il capitano inglese Vancouver nel 1791, il missionario Ellis nel 1817, il capitano russo Bellingshausen nel 1820 – non vi sbarcarono ma limitarono i contatti ai nativi che si avvicinavano in piroga alle navi.
Vediamo qualche piccola curiosità storica.
Bellinghausen riferisce di un indigeno di pelle bianca con capelli rossi, occhi chiari e naso aquilino: un uomo di origine europea?
Nel 1825 il missionario Davies, di passaggio a Rapa, imbarca due indigeni, Paparua e Aitareru, per accompagnarli a Tahiti e insegnare loro la nuova religione. L’anno seguente li riporta sull’isola insieme a sei catechisti tahitiani, sempre senza mai toccarne il suolo.
Il 5 gennaio 1843 il commerciante inglese Edward Lucett parte per Rapa per reclutare i nativi, eccezionali sommozzatori. Tenta di utilizzarli per pescare ostriche perlifere nella vicina Mangareva, ma i difficili rapporti con gli indigeni e i sacerdoti dell’isola lo inducono a trasferirsi ad Hao, atollo delle Tuamotu, dove i nativi di Rapa pretendono di non riuscire a trovare ostriche, passano il tempo a mangiare il buon tī’ō’ō (pasta di tuberi fermentata che si conserva fino a due anni) di cui sono ghiotti e che hanno caricato a bordo in grande quantità. Vengono rispediti nella loro isola, dove li attende una brutta sorpresa: parecchie persone sono morte durante la loro assenza, secondo gli isolani in conseguenza del passaggio della loro stessa nave.
In seguito, altri tre avventurieri tenteranno di reclutare i subacquei di rapa: tra questi un francese, che si lamenta degli isolani e li maltratta, nutrendoli poco e picchiandoli. Per vendicarsi, i nativi gli nascondono le perle che hanno raccolto, ma il francese ripartirà portando con sé tre di loro in ostaggio, come risarcimento del furto.
Nel 1860, una compagnia inglese sfrutta l’isola di Rapa come scalo navale tra Wellington e il canale di Panama, appena inaugurato. Nella parte più interna della baia viene costruita una stazione per il rifornimento di carbone, ma qui è difficile ricavarne di buona qualità: questo fatto, le dimensioni ridotte dell’isola e le tensioni politiche con la Francia faranno preferire Tahiti come scalo.
Anche se la schiavitù è ormai abolita, i battelli negrieri navigano a caccia di uomini da impiegare nelle miniere e per raccogliere guano: oltre 3000 polinesiani vengono rapiti con il trucco dell’invito a bordo per un grande tāmā’ara’a, (banchetto). Nel 1863 la nave peruviana Cora batte le isole del Pacifico a caccia di schiavi; i nativi di Rapa, comandati dal loro ariki (capo) Mairoto, si impossessano dell’imbarcazione e la portano a Tahiti con tutto l’equipaggio per farli giudicare in tribunale. È il sesto battello che accosta Rapa con questo proposito: anche i primi cinque avevano dovuto rinunciare per la reazione degli isolani.
In seguito alla pressione internazionale, 360 schiavi polinesiani vengono imbarcati sulla Capricorne per essere liberati nelle isole di provenienza. 340 di loro moriranno per gli stenti della traversata. 16 vengono lasciati a Rapa malgrado le perplessità degli abitanti. Ricattati dal capitano, che minaccia  di gettare gli sventurati in mare, i nativi li accolgono. Purtroppo gli ex schiavi sono gravemente malati e causeranno la morte di due terzi della popolazione. Gli unici quattro sopravvissuti di questo gruppo di schiavi liberati sono capostipiti di alcune delle odierne famiglie dell’isola.
Nel 1867 Rapa diventa protettorato francese. La sua annessione alla Francia verrà ufficializzata in due atti distinti, nel 1881 e 1887, festeggiati dai colpi di cannone, malgrado gli indigeni fossero propensi a restare sotto il dominio inglese. L’atto del 1881 è redatto in reo ma’ohi.
rapa iti - foto-mappa

Impressioni di viaggio

Trascorrere le feste di Natale nella remota isola di Rapa è un vero privilegio. Arrivarci non è affatto semplice: viene raggiunta da un unico cargo, il Tuha’a Pae, sul quale è pressoché impossibile trovare posto. Riporta a casa gli alunni che a soli 11 anni devono trasferirsi nell’isola di Tubuai per continuare gli studi, peraltro obbligatori, e bastano loro a riempirlo. La legge francese permette il passaggio di appena 12 passeggeri su un cargo, qualora trasporti anche carburanti, ma siamo in Polinesia e spesso si chiude un occhio… Nel mio caso non è stato semplice, mi sono dovuta fare raccomandare dal fratello del capitano, capitano anch’egli ma su un’altra nave con la quale ho già viaggiato.
Il giorno prima della partenza, la sorpresa: il capitano del Tuha’a Pae mi chiama per dirmi che la cabina che pensava di riservarmi purtroppo è già stata assegnata… l’unica soluzione è che io dorma nella sua (avvertendo l’esitazione nella mia voce, mi assicura che lui dormirà nel saloncino).
Per riuscire a “infilarmi”, dovrò raggiungere Tubuai in aereo e lì imbarcarmi sul traghetto.
La fortuna mi assiste, non solo per l’ottima cabina, ma soprattutto per il mare calmo incontrato nei due giorni e mezzo di traversata, in questa zona del sud Pacifico dove le acque sono spesso agitate e il maltempo si fa sentire.
Al nostro approdo troviamo l’isola incorniciata dalle nuvole.

Quando arriva una persona nuova e l’acqua della profonda baia è agitata, non è buon segno, l’ospite non sarà bene accolto perché considerato foriero di guai. Per fortuna anche qui le acque erano calme e sono stata “inghirlandata” dalla famiglia dove avrei alloggiato. Te’ei, la mia ospite, si era preoccupata di ricevermi al meglio, specie per il mangiare. Il piacere delle scoperta è stato reciproco: per me, la qualità del cibo genuino, coltivato senza alcun aiuto chimico, gustoso, dal sapore intenso; per lei, trovarsi davanti una buona forchetta (anche se qui si usa mangiare con le mani).
Ogni sabato gli uomini vanno a pescare, se il clima lo consente, immergendosi con il fucile o usando la lenza per i pesci di profondità. Pescano per la propria famiglia: impensabile vendere, a meno che non servano soldi per per l’intera comunità. Ogni famiglia ha il suo fa’apu, orto; ogni famiglia ha il suo campo di taro, che viene mangiato bollito o lavorato come popo’i. Il pasto tipico è composto da pesce e taro; la sera popo’i nel latte, se non si vuole ripetere il menù del pranzo. Viene posto un piatto al centro del tavolo dal quale si attinge tutti insieme mangiando con le mani. Di tanto in tanto viene abbattuto un toro (il bestiame pascola libero e selvaggio per l’isola) e la carne distribuita fra la popolazione. Ogni famiglia ha almeno un pukua, maiale, nutrito con i resti della tavola, destinato a finire arrosto.
L’ospitalità, sacra in Polinesia, qui è ancora più sentita: la famiglia che mi ha accolta si è occupata di ogni aspetto del mio soggiorno, coprendomi di regali alla partenza. Ero arrivata con parecchi doni, ma l’impressione è che non si faccia mai abbastanza rispetto a come si viene trattati.
Sull’isola ogni attività viene svolta insieme, e io non mi sono mai tirata indietro, partendo con le altre donne alle 4, prima dell’alba, e attraversando la baia da Ahurei ad Area per preparare il grande banchetto. I due villaggi sono in simpatica competizione, ognuno cerca di preparare il cibo migliore. Tutto avviene come una festa, fra canti e scoppi di risa, aiutandosi e lavorando a turno, specie se il compito è faticoso. Incredibile vedere come queste bande di donne gestiscano 500 commensali, preparando gustosi manicaretti e pietanze sempre abbondanti.
Gli ornamenti sono importanti: le donne dell’isola sono abilissime a comporre corone di fiori freschi, di foglie essiccate e tapa (il tessuto vegetale), a intrecciare cappelli con fibre delle canne che crescono a Rapa, il cui artigianato è il più rinomato tra tutte le isole polinesiane.
Le donne di Rapa si coprono la testa con sciarpe, foulard e pezzi di cotone quando soffia il vento e quando lavorano. Fanno fare al tessuto un giro intorno al capo per annodarlo sul davanti, sopra il viso. Questo modo di coprirsi la testa ricorda le donne africane, con i loro tessuti colorati abilmente annodati sul capo. Mi chiedo se per caso sulle navi negriere transitate per Rapa non ci fosse qualche africano che abbia importato questa usanza. Anche le danze tipiche dell’isola sono completamente diverse dallo ‘ori e ricordano quelle del continente nero.

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Una volta a tavola, il pastore benedice il desco con una lunga preghiera, Mentre si mangia, un’orchestra improvvisata si esibisce cantando i brani in reo rapa, la lingua locale. Chiunque voglia può unirsi suonando, cantando ma anche ballando. I compositori più conosciuti sono Pierot, che da circa 10 anni abita a Tahiti, capo del gruppo di danza dell’isola quando si presenta alla Heiva I Tahiti; il timido Parima, che ha anche un ottimo talento come ritrattista; Rairi purtroppo è mancato a causa della ciguatera, malattia anche mortale causata da tossine talvolta presenti nei pesci. A causa di questo problema, a Rapa non tutte le specie possono essere mangiate: per esempio, i deliziosi pesci pappagallo sono proibiti. Si nutrono di un’alga tossica per l’uomo e lo avvelenano.
A inizio anno ha luogo la riunione annuale di tutti gli abitanti dell’isola, durante la quale ognuno può esprimere la sua approvazione o il proprio malcontento. “Questa è la vera democrazia”, afferma il sindaco Narii. Ascoltarla è stato interessante. Il primo cittadino ha iniziato con un bilancio dei lavori svolti l’anno precedente, elencandoli e descrivendoli con calma. Poi si è dato spazio agli isolani: pochi gli interventi e nessuno in polemica con il sindaco, che con i suoi atti si è conquistato la fiducia generale.
“All’inizio è stata dura, le critiche piovevano dall’opposizione. Ho cercato di volgerle in positivo per poter migliorare. Al secondo mandato sono stato eletto quasi all’unanimità, con un solo voto contrario”. Sarà difficile rimpiazzare questo personaggio che ama profondamente la sua isola, visto che ha deciso di ritirarsi alla conclusione del suo quarto mandato. È stimato anche dal governo centrale, forse grazie a sua moglie, eletta all’Assemblea che governa in autonomia la Polinesia Francese: qui sanno bene che se ella chiede un finanziamento, il danaro ricevuto verrà ben impiegato, il lavoro sarà eseguito nei tempi debiti e con competenza.
Sull’isola è in servizio un unico gendarme, che interviene con estremo buon senso nell’applicazione delle leggi francesi, lasciando correre irregolarità veniali (come portare passeggeri sul cassone del pick-up, teoricamente proibito; ma con appena 14 chilometri di strada, dei quali abitualmente se ne percorrono un paio…). Qualora dovesse presentarsi un problema più serio, la strategia è risolverlo localmente richiamando la persona coinvolta. Se questa dovesse proprio mostrarsi sorda e continuare nei suoi illeciti, verranno fatte pressioni affinché lasci l’isola. Non esiste tribunale per la gente del luogo, che convive pacificamente aiutandosi senza astio o invidie. Le controversie vengono risolte sul posto per scongiurare ingerenze dalla Francia.
Gli abitanti di Rapa riescono a mantenere le loro tradizioni e a vivere autonomi come in un’oasi, pur facendo parte dei territori francesi e beneficiando di finanziamenti e servizi. La sanità è uno di questi, con l’infermeria che presta parecchie cure pur in assenza di medico. Un altro è la seconda nave che collega Rapa con Tahiti, trasportando merci e passeggeri. “Bisogna organizzarsi in anticipo in vista dell’indipendenza”, dice il sindaco, “Qualora la Polinesia Francese dovesse raggiungerla, si ritornerà inevitabilmente ad avere una nave all’anno”.
Comunque gli abitanti dell’isola sono abituati a essere indipendenti in tutto, a preparare il pane nei forni comuni, uno per gruppo di case come nei paesi arabi, a coltivare, a vivere della propria pesca, a cacciare e allevare maiali.

Ogni oggetto sull’isola è prezioso, guai sprecare. Le auto non sono numerose, assai più utile avere una barchetta: certi campi di taro sono raggiungibili valicando la montagna con una camminata di ore, oppure in soli dieci minuti di navigazione. “A Rapa si impara a vivere con l’essenziale”, conferma la giovane infermiera francese che presta servizio sull’isola insieme con il marito, infermiere anch’egli.
I bambini la fanno da padroni, vanno e vengono a loro piacimento, accuditi da tutte le famiglie. Capire chi sia figlio di chi non è semplice: mangiano e dormono dove si trovano meglio. Le lacrime colano abbondanti quando devono ripartire per la scuola: è faticoso lasciare le famiglie. È stato faticoso anche per me: dopo i primi giorni di tempo infelice, con pioggia e vento freddo, come ho iniziato a conoscere l’isola e i suoi abitanti è arrivato il momento di partire. Il nostro rapporto è stato intenso, indimenticabile, e adesso non passa giorno senza che qualcuno telefoni da Rapa per un saluto alla prima italiana mai sbarcata sull’isola.

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