Le recenti proteste di Standing Rock – la riserva sioux che si batte contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access – ha attirato l’attenzione di tutto il mondo su un particolare ramo di quel popolo: i lakota. Una breve analisi della storia e del patrimonio etno-culturale di questa comunità può aiutarci a capire i motivi del loro attuale disagio e delle tensioni con il governo di Washington.

Negli ultimi mesi ha avuto grande eco e ha fatto molto discutere in tutto il mondo il caso del Dakota Access Pipeline (DAPL), progetto di costruzione di un oleodotto che la compagnia Energy Partners Transfer vuole realizzare nel cuore degli USA, il cui percorso permetterebbe di trasportare il petrolio dagli impianti di estrazione in North Dakota fino in Illinois. Il problema è rappresentato dal tragitto dell’oleodotto che andrebbe ad attraversare le terre ancestrali dei lakota, tribù di nativi americani appartenenti al gruppo dei sioux, dove questa popolazione ha da sempre vissuto, dove i loro antenati erano soliti cacciare, pescare e dove sono stati sepolti. Stiamo parlando di zone considerate sacre dai lakota, dall’importante significato e valore culturale, storico, religioso e simbolico.
Inoltre la costruzione di quello che dagli stessi nativi viene definito Black Snake costituirebbe una seria minaccia ambientale in quanto passerebbe sotto il Missouri 1) e quindi, in caso di perdite o addirittura danneggiamenti e rotture, la fuoriuscita del greggio causerebbe danni irreparabili all’ecosistema dell’area, per la quale le acque del fiume sono un elemento imprescindibile come fonte di approvvigionamento idrico a livello familiare e per le colture agricole.
In seguito a questa situazione sono sorte comprensibili proteste da parte dei nativi che sono riuscite in parte nell’obiettivo di bloccare temporaneamente i lavori di costruzione: l’epicentro di queste contestazioni è la Riserva Sioux di Standing Rock, abitata prevalentemente da lakota, il cui territorio situato al confine tra gli Stati del North e del South Dakota risulta fortemente interessato dal percorso del DAPL.

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Con il passare dei mesi sono arrivati sul posto altri gruppi di nativi americani, volontari ambientalisti nonché rappresentanti di organizzazioni internazionali, tutti uniti ai lakota sioux nel portare avanti le manifestazioni di protesta (si parla di oltre 3000 persone accampate nell’area della riserva). La presenza di numerose tribù di nativi ha fatto sì che quest’evento possa anche essere considerato come il più importante raduno di amerindiani dall’occupazione di Wounded Knee nel 1973, un’opportunità per rinforzare e celebrare un’identità etnica e culturale complessiva, superando le antiche divisioni tra le diverse tribù, grazie alla “battaglia” per una giusta causa, alla solidarietà collettiva, alla pratica delle cerimonie tradizionali e alla vita quotidiana comunitaria. Sicuramente della questione di Standing Rock e del DAPL sentiremo parlare ancora parecchio nei mesi a venire.
Non molti sanno invece che il popolo lakota si è reso protagonista di una curiosa vicenda politica: nel dicembre del 2007, una sua delegazione si è recata a Washington per informare il governo statunitense della volontà di abbandonare formalmente gli Stati Uniti, auto dichiarandosi indipendenti e stracciando tutti i trattati in precedenza firmati.

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Bandiera della Repubblica di Lakota.

È quindi nata la Repubblica di Lakota, un’area di circa 200.000 kmq che comprende i territori ancestrali della popolazione lakota e si estende tra gli Stati del North e South Dakota, Montana, Nebraska e Wyoming. Si tratta di un’operazione anomala ma molto importante, in quanto si traduce in una netta presa di distanza dal governo federale e soprattutto denota una consapevolezza nell’intenzione di combattere tenacemente per difendere le proprie terre originarie.
Il governo centrale si è trovato a dover affrontare una situazione abbastanza inedita e soprattutto alquanto delicata: gli USA ovviamente non hanno accettato questa iniziativa, e imn concreto la Repubblica di Lakota non può essere considerata uno Stato sovrano indipendente a tutti gli effetti, nonostante la profonda convinzione e determinazione dei nativi americani protagonisti di quella che loro stessi preferiscono definire non come una secessione, ma piuttosto come un’affermazione di sovranità su un’area geografica che hanno da sempre abitato.
Ma come si è arrivati a questa situazione? Chi sono veramente i lakota?

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Famiglia lakota.

L’origine del gruppo

I lakota sono un gruppo tribale di nativi americani appartenente alla grande “famiglia” sioux: costituiscono infatti uno dei tre distinti gruppi dialettali in cui era strutturata la Great Sioux Nation, una confederazione di sette tribù che tutte insieme formavano un’assemblea denominata Sette Fuochi del Consiglio (Ochéthi Sakòwin). Le sette entità della confederazione parlavano varianti differenti dell’idioma sioux, riconducibile alla grande famiglia delle lingue siouan. I lakota, chiamati anche teton, parlavano il dialetto lakota e costituivano il gruppo più occidentale dei sioux poiché in tempi antichi, spinti da altre popolazioni native confinanti, si erano trasferiti dalle grandi foreste alle sterminate praterie dell’estremo Midwest statunitense, arrivando a occupare il territorio identificabile principalmente con gli odierni Stati del North e South Dakota.
In seguito alla migrazione vissero in maggiore isolamento rispetto alle altre tribù sioux, pur non staccandosi dall’Alleanza né abbandonando i dogmi cardine della cultura e delle tradizioni sioux, conservando sempre un ricordo vivo dell’antica origine comune: ricrearono al loro interno una struttura in piccolo similare a quella della Great Sioux Nation che idealmente ricordava l’Assemblea dei Sette Fuochi del Consiglio, un’ulteriore suddivisione interna al popolo lakota. I sette sottogruppi sono costituiti dai sichangu (“cosce bruciate” o “brulé”), oglala (“coloro che si disperdono”), mineconjou (“seminatori d’un campo vicino al fiume”), hunkpapa (“che si accampano all’ingresso”), sihasapa (“piedi neri”), oohenonpa (“due marmitte” o “due bollitori”) e dagli itazipcho (“sans arcs” ovvero senz’arco).
Sulle origini degli antenati dei lakota, e più in generale dei sioux, non vi sono certezze, tuttavia l’ipotesi più concreta è quella celebre riguardante la genesi di tutte le popolazioni dell’America settentrionale: in tempi assai remoti si sarebbero verificate ingenti migrazioni dall’Asia attraverso lo Stretto di Bering e diverse popolazioni si sarebbero distribuite in tutto il continente americano a partire da circa 20.000 anni fa, raggiungendo anche, attraverso l’Alaska e il Canada, il territorio statunitense. Tra queste popolazioni vanno ricercati i progenitori del gruppo sioux, la cui presenza iniziale sembra potersi ricondurre alla regione del basso Mississippi o alla valle dell’Ohio, da dove si sarebbero poi trasferiti nei territori che occupano ancor oggi: una vasta area comprendente la zona a sinistra dell’alto corso del Mississippi in Minnesota, parte degli attuali Montana, Wyoming e Nebraska, e che ha il suo cuore nel North e South Dakota, in particolare nella regione delle Black Hills. Probabilmente, all’inizio i sioux erano agricoltori semi-nomadi e potrebbero aver fatto parte di quella che viene chiamata mound builder civilization (civiltà dei costruttori di tumuli) sviluppatasi tra il IX e il XII secolo d.C.

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Le Black Hills.

Successivamente si trasformarono in cacciatori nomadi, la cui attività principale era rappresentata dalla caccia al bisonte da cui ricavavano carne e pelli. Spesso i loro spostamenti erano determinati proprio dal movimento delle mandrie, la materia prima più importante per la sopravvivenza. Soltanto nella seconda metà del XVII secolo si può dire che i lakota si fossero stanziati in modo pressoché definitivo nell’area delle Great Plains; le migrazioni successive si caratterizzano come brevi spostamenti all’interno di quest’area, prevalentemente imputabili a cause di natura bellica o alle malattie e non legate all’attività venatoria, la quale continuò a essere abbondantemente praticata. Infatti intorno al 1730 i cheyenne introdussero i lakota all’uso dei cavalli, elemento che divenne imprescindibile nella vita delle tribù: con la sua adozione, la caccia al bisonte migliorò nettamente in quanto il cavallo permetteva di facilitare e velocizzare le operazioni.
Dopo il 1720 le tribù di lakota che componevano il Consiglio dei Sette Fuochi si divisero in due grandi gruppi: i saone, che erano l’insieme di sihasapa, hunkpapa, oohenompa e itazipcho, occuparono l’area di Lake Traverse situata al confine tra North Dakota, South Dakota e Minnesota, mentre gli oglala-sichangu si stanziarono nella James River Valley. Successivamente, nel 1750, i saone si trasferirono sulla riva est del Missouri, seguiti 10 anni più tardi dagli oglala e dai sichangu. Nel 1765 i lakota attraversarono il fiume Missouri; il gruppo dei saone, esplorando la zona, scoprì le Black Hills (Paha Sapa), territorio all’epoca controllato dai cheyenne che vennero sconfitti definitivamente dai lakota nel 1776 e costretti ad abbandonare per sempre l’area, spostandosi verso ovest nella zona di Powder River. In seguito si trasferirono in quest’area anche gli oglala e i sichangu, e i lakota fecero delle Black Hills il cuore del loro territorio.

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L’organizzazione territoriale dei sioux.

La cultura lakota

Il variegato complesso di pratiche, credenze e valori propri della cultura lakota coincidono sostanzialmente con quelli di tutte le tribù sioux. Un elemento da considerarsi strettamente peculiare di questo gruppo è, invece, quello linguistico, il linguaggio essendo di fatto il principale carattere distintivo per identificare le differenti entità della grande Confederazione Sioux.
Il dialetto lakota è una delle tre più importanti lingue siouan: fu messa per iscritto la prima volta intorno al 1840 da alcuni missionari e, nonostante i suoi fruitori siano inevitabilmente diminuiti negli ultimi due secoli, risulta ancora parlata da oltre 2000 persone, in particolare nelle riserve “indiane” del Midwest.
Prima di essere rinchiusi definitivamente nelle riserve, i lakota che vivevano nelle Great Plains si distinguevano per l’estrema linearità delle loro strutture sociali: gli uomini si dedicavano alla caccia o alla guerra, mentre le donne, che rimanevano nell’accampamento insieme agli anziani saggi, avevano il compito di curare i bambini, l’orto e la casa. Quest’ultima consisteva in una tenda conica di quattro o cinque metri di diametro, realizzata con pertiche in legno e coperte con pelli di bisonte cucite insieme.
Nella cultura lakota la componente immateriale che si traduce in una fortissima spiritualità è indubbiamente fondamentale, imprescindibile nella vita quotidiana della tribù. Il termine spiritualità non viene usato a caso: come per tutti i popoli nativi americani, è più corretto parlare di spiritualità piuttosto che di religione in quanto essi non fanno riferimento, come accade nelle religioni monoteistiche, a profeti o libri sacri, né esistono una verità rivelata, una fede o un dogma. Il concetto di spiritualità lakota è basato sull’idea di wakan, manifestazione della forza soprannaturale che domina l’intero universo comprese tutte le persone e le cose, incarnata nella figura massima di Wakan Tanka, e può essere spiegato come la sacralità di tutte le forme della creazione che, in quanto tali, sono parte ed espressione della stessa energia creatrice primordiale da cui è nata la vita.

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Pipa lakota, 1890 circa.

Quindi gli uomini, così come il mondo minerale, animale e vegetale, sono parte del cangleska wakan, il sacro cerchio della vita. Il lakota quando prega o compie rituali non parla di Dio né a lui direttamente si rivolge, ma si connette con il Sacro, inteso come energia creatrice ancestrale di tutto l’universo. Chiunque o qualunque cosa appartenga al sacro cerchio della vita viene ritenuto Dio, poiché la parte animica e spirituale presente in ogni forma di vita (anche nell’uomo) è essa stessa una piccola parte dell’energia creatrice. L’universo è la forma materializzata dello Spirito Creatore,  la manifestazione visibile del mondo invisibile e spirituale.
In base a questa concezione, i lakota considerano tutte le forme di vita animali, vegetali e anche minerali, allo stesso livello in quanto dotate di uno “spirito” interiore, e pertanto vivono in piena armonia con il mondo naturale. Gli animali e gli alberi hanno uguale dignità degli esseri umani e meritano lo stesso rispetto. Da qui il concetto di sacralità della terra – la madre ancestrale Ina Makoce – il rispetto di ogni altra forma vivente e, di conseguenza, dell’intero ecosistema nel quale l’uomo è inserito. Che va per forza tutelato, altrimenti è l’uomo stesso a rischiare la scomparsa.
La vita spirituale del gruppo non contempla la presenza di sacerdoti, in quanto un solo uomo non sarebbe in grado di detenere un potere tanto grande. All’interno della comunità vi possono al più essere alcuni uomini “speciali”, dotati di poteri spirituali che altro non sarebbero se non doni ricevuti grazie a visioni e sogni del Grande Spirito. Per questi motivi la spiritualità lakota non deve essere considerata una religione, ma piuttosto uno strumento per mantenersi in costante relazione con l’universo: come insegna la frase, paradigmatica per il popolo lakota, “mitakuye oyasin”, ovvero “tutto è mio parente” oppure “tutto è connesso o collegato”. Questo genere di spiritualità non prevede quindi l’esistenza di gerarchie, ma si fonda su un profondo rapporto di rispetto, amore e armonia con gli elementi del creato, tutti tra loro interconnessi, e si traduce in un particolare stile di vita responsabile, adottato dai nativi nei confronti di tutte le forme viventi.
Un altro fattore importante è che la spiritualità non costituisce un aspetto distaccato, da vivere a parte, ma rientra e si incastra perfettamente nella quotidianità, spesso scandendone i tempi: essa viene vissuta ogni giorno e osservata in tutte le cose. L’intera vita è dunque incentrata sulla componente spirituale: ogni azione singola o di gruppo è sempre preceduta da una preghiera, da un ringraziamento e da un’offerta. Le cerimonie rituali rivestono un ruolo centrale nella società lakota, e per la maggior parte non sono andate perdute con il passare dei secoli, ma vengono praticate ancora oggi.
La più antica è sicuramente l’inipi, il rito di purificazione alla base di ogni cerimonia spirituale e di qualsiasi attività quotidiana, come la battaglia, la caccia o la ricerca di cavalli. Praticato tutti i giorni, non consiste solamente in una purificazione fisica del corpo, ma anche dell’anima. Prevede la costruzione di una tenda semisferica nel mezzo della quale viene scavata una buca coperta con pelli di bisonte, nonché la presenza di pietre che, dopo essere state bruciate con il fuoco, vengono introdotte nella struttura dove i partecipanti si sono riuniti sedendo al buio. Sulle pietre incandescenti viene versata acqua gelata in modo da provocare una grande quantità di vapore bollente; i partecipanti, durante la “sudorazione”, strofinano il corpo con erbe sacre (generalmente salvia) e intonano canti e preghiere, bevono acqua e fumano la sacra pipa. L’interno della struttura, chiamata appunto “capanna sudatoria”, simboleggia il ventre materno, e il completamento del rito permette la rinascita. Con questa cerimonia l’individuo purifica il suo io liberandosi dalle negatività fisiche e spirituali che vengono lasciate all’interno della capanna, preparandosi così ad affrontare il mondo esterno con un nuovo spirito.

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Inipi, capanna sudatoria.

Altre cerimonie importanti sono fumare la sacra pipa e la danza del sole. La prima non rappresenta esclusivamente un manufatto utilizzato nella vita quotidiana, ma possiede una valenza immateriale profonda: è l’oggetto sacro per eccellenza, è uno strumento di preghiera ricco di significati simbolici ed evocativi. La pipa viene riempita e fumata secondo un preciso rituale, viene passata tra i diversi partecipanti mentre si recitano preghiere che arrivano al cielo trasportate dal tabacco che si disperde nell’aria. La danza del sole è il rituale più complesso e solenne: si svolge ogni anno per quattro giorni, e i danzatori compiono un giuramento rimanendo impegnati nella danza dall’alba al tramonto senza né bere né mangiare, offrendo in sacrificio piccole quantità del proprio sangue.
Esistono anche diversi luoghi simbolici nella tradizione lakota. Il più significativo è il territorio delle Black Hills (Paha Sapa), situato al confine tra il South Dakota e il Wyoming. Rappresenta senza dubbio il luogo più sacro per questa popolazione, che lo ritiene il centro della terra. È la sede di vari miti della creazione; per esempio, qui si troverebbe la caverna dalla quale il popolo dei Sette Fuochi emerse sulla superficie della terra.
Secondo un’altra versione del mito della creazione, l’universo ricevette un canto e in ogni sua parte ne è racchiuso un frammento: nelle Black Hills (chiamate in lingua lakota Wamaka Ognaka I-cante, ovvero “cuore di tutto ciò che esiste”) sarebbe invece contenuto il canto intero. Queste leggende chiariscono lo straordinario legame che unisce i lakota a queste colline, spiegando le numerose battaglie politiche e oltre centocinquant’anni di guerre – prima sul campo e poi in tribunale – per farsi restituire un luogo sacro, il più spirituale e importante per la loro tradizione e identità etnica.

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La cultura lakota è positivamente impregnata anche di altri valori che, uniti a quelli fondanti di natura spirituale, rendono l’idea di una società altruista, rispettosa di ognuno, legata alle proprie tradizioni e ai propri antenati, molto unita e compatta al suo interno. Lo testimoniano la generosità (wacantognaka), sentimento diffuso che contribuisce ad aumentare il benessere del popolo attraverso gesti di condivisione gratuita: non sono coinvolti esclusivamente beni materiali, ma anche emozioni come la gentilezza, la compassione e la simpatia. In occasione di eventi importanti, ogni famiglia raduna i propri averi e li dona agli altri membri della tribù, i quali sono liberi di prendere ciò che desiderano. Chi ha elargito gratuitamente i beni continua a possederli poiché, come suggerisce un vecchio detto lakota, una cosa che si continua a possedere senza donarla si finisce per perderla.
Non c’è posto per l’egoismo tra i membri della comunità, prevale l’amore tra quelli che vengono considerati come fratelli: la “parentela” (wotitakuye) infatti è uno dei valori più importanti che si rifà alla tiyospaye, la famiglia allargata, comprendente i concetti generali di vivere in armonia, appartenere a una stessa comunità, relazionarsi e avere fiducia negli altri. Si appartiene a una tiyospaye dalla nascita, tramite il matrimonio o l’adozione, ma con questo concetto si può fare riferimento anche a tutta la nazione lakota.
La fortezza (wacintaka) è ciò che serve per affrontare i pericoli e le sfide con coraggio, credendo in se stessi e accettando la possibilità di venire a patti con i problemi così da riuscire a risolverli.
C’è infine la saggezza (woksape), propria degli anziani, l’esperienza accumulata nella vita che permette di comprendere il reale significato dei processi naturali, dei modelli della società e dello scopo dell’esistenza. È anche fondamentale per capire i valori spirituali e le credenze su cui è fondata la propria cultura, che vanno seguiti lungo lintero corso della vita e soprattutto condivisi con tutti gli altri.
Emerge quindi come la società lakota, fin dai suoi albori, fosse incentrata su una cultura evoluta, dominata da valori indubbiamente positivi quali l’altruismo, la generosità, il rispetto e la tolleranza verso tutti: atteggiamenti che riservarono inizialmente ai coloni bianchi, ricevendone in cambio malattie, privazioni, saccheggi, espropri, deportazioni, stermini e confinamento nelle riserve.

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La battaglia di Little Bighorn, 25-26 giugno 1876.

Lo scontro con i coloni

I primi incontri certificati tra gli esploratori europei e il popolo lakota risalgono agli inizi del XIX secolo, tuttavia non si verificarono incidenti significativi. Mezzo secolo dopo, la presenza dei coloni nelle Great Plains si era notevolmente rafforzata, essendo gli USA una giovane federazione di Stati in continua espansione verso ovest. L’esercito statunitense costruì Fort Laramie in territorio lakota senza autorizzazione e procedette al completamento della Oregon Trail, una ferrovia che collegava i due estremi del Paese. Dopo alcuni scontri si arrivò alla firma di un primo trattato (Fort Laramie Treaty) nel 1851, che stabiliva la sovranità lakota sulle Grandi Pianure in cambio del passaggio della ferrovia sui loro territori. Tuttavia il governo non riuscì a far rispettare il trattato e alcuni coloni si insediarono in territorio lakota violando i patti stabiliti; i nativi reagirono così attaccando coloro che senza autorizzazione si erano stanziati nelle terre a loro sacre.
La risposta statunitense non tardò ad arrivare e fu più feroce che mai: il 3 settembre 1855, circa 700 soldati guidati dal generale William S. Harney perpetrarono il Grattan Massacre, distruggendo un villaggio lakota in Nebraska e uccidendo 100 persone, tra uomini, donne e bambini.
Negli anni successivi scoppiarono brevi guerre (Dakota War, 1862) combattute nei territori tra gli Stati del North e South Dakota, il Montana e il Minnesota. I lakota, che consideravano sacre le Black Hills, si opponevano strenuamente alla loro occupazione a all’attività mineraria, una delle più praticate dall’uomo bianco nell’Ovest in quanto molto redditizia.
Tra il 1866 e il 1868 l’esercito statunitense combatté i lakota lungo il Bozeman Trail per proteggere i numerosi minatori che viaggiavano lungo la ferrovia. Il leggendario capo oglala, Red Cloud, condusse però il suo popolo alla vittoria: venne quindi siglato un secondo trattato (Fort Laramie Treaty, 1868) che riconosceva ufficialmente le Black Hills territorio di appartenenza esclusiva dei nativi, vietando per sempre qualsiasi tipo di insediamento bianco.
Tuttavia, appena quattro anni più tardi venne scoperta la presenza di giacimenti auriferi all’interno delle colline, e un gran numero di cercatori d’oro si riversò nell’area. Il governo degli Stati Uniti, allettato dall’enorme prospettiva di guadagno, venne meno ai patti stabiliti pochi anni prima riuscendo a invalidare il precedente accordo grazie a battaglie legali quantomeno ambigue e procedendo all’esproprio delle terre. Nel contempo il governo continuava a combattere i sioux con il tenente colonnello Custer e il generale Sheridan, che spronava i suoi soldati a cacciare e uccidere il bisonte in quanto principale fonte di sussistenza del nemico.
Negli anni successivi i lakota si allearono con altre tribù e in numerose occasioni si scontrarono con l’esercito federale in battaglie passate alla storia; come quella di Little Bighorn, dove i nativi capeggiati da Crazy Horse sconfissero nettamente Custer sbaragliando il suo reggimento. La pesante sconfitta obbligò il Congresso a investire ulteriori fondi nel rafforzamento delle armate: così i lakota vennero piegati in una serie di battaglie, culminate in quella decisiva del 1877 che pose fine alla Great Sioux War.
I lakota furono così confinati nelle riserve, mentre i loro territori espropriati divennero a tutti gli effetti proprietà dei coloni. Fu loro vietata la caccia al bisonte, sicché divennero allevatori di bestiame domestico e coltivatori di granturco sedentari, costretti a dipendere dal governo federale per la distribuzione dei viveri e soprattutto per il sussidio annuale loro elargito, in base agli accordi che erano stati praticamente costretti a sottoscrivere.
Quasi tutte le tribù native persero la completa libertà e furono obbligate a sopportare ogni tipo di sopruso dello Stato americano in un processo che si tradusse in una vera e propria segregazione di gruppo. Da allora, le riserve “indiane” si sono sempre più caratterizzate come luoghi estranei rispetto al resto degli USA, o meglio come veri e propri non luoghi, corpi estranei alla società statunitense sparpagliati sul territorio, spazi segnati dalla difficoltà delle condizioni di vita, da povertà diffusa, mortalità infantile, alcolismo, diabete e suicidi, piaghe sociali con tassi sempre molto elevati tra gli amerindi. Essi infatti hanno dovuto fronteggiare prima il loro genocidio perpetrato dall’uomo bianco, poi l’esproprio delle terre sulle quali vivevano in armonia con tutto il creato da migliaia di anni, infine la chiusura nelle riserve, circostanze che hanno portato alle tragiche conseguenze di cui parlavamo.
Solamente pochi nativi sono riusciti a lasciare le riserve per integrarsi nella società statunitense e diventare protagonisti di un riscatto sociale. Un fatto assai curioso che testimonia la parziale integrazione di alcuni nativi è l’aiuto che fornirono all’esercito statunitense nel XX secolo: durante la seconda guerra mondiale, grazie alla particolarità della loro lingua, alcuni lakota – insieme con individui cherokee, choctaw, mesquakie, comanche e navajo – vennero scelti per prestare servizio come code talker nei marines. Il loro compito era trasmettere messaggi segreti tramite reti radio o telefoniche, utilizzando come codici le loro lingue madri, conosciute da un ristretto numero di persone e quindi difficili da decifrare per il nemico.
Ancora oggi la maggior parte dei lakota vive dentro riserve in North e South Dakota, Montana e Minnesota, mentre il resto risiede in città di questi stessi Stati, come per esempio Rapid City (South Dakota).

L’attivismo e le rivendicazioni

Con il passare degli anni, i trattati siglati inizialmente tra nativi e governo statunitense non vennero più rispettati o addirittura annullati, e le terre indigene furono espropriate diventando a tutti gli effetti proprietà degli Stati Uniti. Tuttavia, nonostante le ingiustizie subite, gli autoctoni non hanno smesso di sentirsi un popolo con una precisa identità nazionale, né hanno cessato di lottare in difesa dei propri diritti. Si sono infatti organizzati in movimenti di protesta dai quali sono emerse le figure di importanti attivisti, fondando vere e proprie organizzazioni volte alla tutela del loro patrimonio culturale e alla rivendicazione di quanto sottratto loro con la forza.
Nel 1968, a Minneapolis, nasce l’American Indian Movement (AIM) con lo scopo di salvaguardare la sovranità e i diritti della popolazione “indiana”, la sua “spiritualità”, combattere il razzismo e indirizzarne la leadership. I membri dell’AIM si sono resi protagonisti dell’episodio di Wounded Knee nel 1973 quando hanno occupato l’omonima città del South Dakota, teatro del tragico massacro del 1890, per protestare contro l’elezione a presidente del consiglio tribale di Richard Wilson, ritenuto corrotto, e in generale per la richiesta di riprendere i negoziati per la regolamentazione dei rapporti tra nativi e governo centrale.
I sioux in particolare, avendo più di altre etnie consolidato una forte coscienza “nazionale” grazie all’esperienza della Great Sioux Nation, si sono distinti per attivismo. Proprio alcuni anziani lakota hanno dato vita all’Unrepresented Nation and People Organisation (UNPO), un’organizzazione per la difesa delle tradizioni culturali e dei diritti sulle terre ancestrali perdute. L’obiettivo principale di tutti questi movimenti è infatti quello affrontare la questione dei numerosi territori sacri per i nativi sottratti con la forza o con l’inganno, rendendosi protagonisti ancor oggi di accese battaglie legali nei tribunali di tutto il Paese.
Da un punto di vista legale, i lakota sioux possono essere considerati come semi-autonomous nation in quanto il governo consente loro di essere rappresentati localmente nelle riserve da persone elette dai nativi stessi, facenti parte di un consiglio, negli Stati del North e South Dakota, Minnesota e Nebraska. Ogni riserva presenta un governo locale le cui modalità e periodi d’elezione possono differenziarsi da caso a caso. Molti adottano il modello di un consiglio tribale con più membri il cui presidente viene eletto direttamente dai votanti. Mentre a livello statale e nazionale i lakota sono rappresentati dai politici eletti nei rispettivi Stati e Congressi distrettuali nei quali vivono. Questi governi “tribali” sono sottoposti alla supervisione del Congresso e del Bureau of Indian Affairs, il cui parere è continua fonte di contrasti.
È innegabile un neanche troppo velato desiderio di indipendenza del popolo lakota e di tutti i sioux, che vorrebbero poter vivere in modo autonomo e in piena sovranità sulle terre che sono sempre state loro. Sono stati frequenti i tentativi in questa direzione, con azioni, occupazioni e proposte portate avanti dai movimenti indipendentisti, tramite iniziative sia individuali sia collettive. Il 30 giugno 1980, più di un secolo dopo l’esproprio, i lakota ottennero un’importante e significativa vittoria in tribunale: la Corte Suprema decretò che il governo degli Stati Uniti si era appropriato illegalmente del territorio delle Black Hills e concesse ai nativi un indennizzo pari a 15,5 milioni di dollari per il valore di mercato della terra nel 1877, più gli interessi legali accumulati nei successivi 103 anni, per una somma complessiva di 105 milioni di dollari… senza tuttavia restituire loro la sovranità. I lakota non accettarono il risarcimento, in quanto il valore della terra dei loro antenati non poteva essere tradotto in denaro, e hanno continuato a combattere per la restituzione.

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La Repubblica di Lakota.

Il “caso” della Repubblica di Lakota

Siamo così arrivati al settembre 2007, quando le Nazioni Unite promulgano una risoluzione non vincolante sui diritti dei popoli indigeni che non vieme firmata da Stati Uniti, Canada,  Australia e Nuova Zelanda, i cui governi si rifiutano fermamente. Nel dicembre dello stesso anno un piccolo gruppo di nativi (Lakota Freedom Delegation), capeggiati da Russel Means, noto attivista legato all’AIM, e formato da Gary Rowland, Duane Martin Senior e Phyllis Young, si reca a Washington per presentare una dichiarazione ufficiale di annullamento unilaterale dei trattati stipulati in precedenza tra il governo federale e il popolo lakota, facendo riferimento soprattutto ai trattati di Fort Laramie del 1851 e del 1868, agli accordi firmati il 17 giugno e il 25 giugno 1876 dopo le vittorie su Crook in Montana e su Custer a Little Bighorn; appellandosi all’articolo VI della Costituzione, alla Convenzione di Vienna e alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni di pochi mesi prima, in quanto gli stessi Stati Uniti sono stati i primi a non rispettare e a violare apertamente i trattati negli anni immediatamente successivi, occupando e rubando le terre ancestrali, causando la progressiva distruzione dello stile di vita dei nativi e del loro patrimonio culturale con la segregazione nelle riserve.
Alla base di questa iniziativa non c’è solamente la volontà di recuperare le terre dei padri, ma soprattutto il desiderio di tornare a vivere in piena autonomia da nazione libera dagli oppressori: infatti il passaggio successivo vede la dichiarazione d’indipendenza dei territori sacri al popolo lakota, confermando la convinzione di abbandonare gli Stati Uniti e la proclamazione della nascita della Repubblica di Lakota. Questa forte presa di posizione, evolutasi nella dichiarazione d’indipendenza, viene per l’appunto considerata dagli stessi protagonisti non come una normale secessione regionalista, ma come una giustificata affermazione di sovranità su un territorio sottratto in passato ai legittimi proprietari con la forza e l’inganno.
L’area del neonato Stato si estenderebbe per circa 200.000 kmq tra gli Stati federali di North Dakota, South Dakota, Nebraska, Wyoming e parte del Montana (con il cuore del territorio coincidente con la regione delle Black Hills),  comprendendo una popolazione di più di 12 milioni di abitanti, di cui circa 100.000 di origine lakota. Infatti all’interno dello Stato pensato dagli attivisti si troverebbero anche grandi città dove i nativi non rappresentano la maggioranza, come Omaha (Nebraska), Rapid City (South Dakota) e Casper (Wyoming). Inoltre, al fine di contenere tutte le riserve che ospitano cittadini lakota, l’area dello Stato includerebbe anche riserve non sioux, dove i lakota costituiscono una minoranza. I confini della Repubblica di Lakota si rifanno a quelli stabiliti nel Trattato di Fort Laramie del 1851, ovvero segnati dai fiumi Yellowstone a nord, North Platte a sud, Missouri a est.
La lettera presentata da Russel Means e i suoi compagni invitava il governo statunitense ad avviare negoziati con la dichiarata Nazione Lakota e minacciava, in caso contrario, l’immediato esercizio dei diritti dei cittadini della repubblica all’interno del proprio territorio, comprendente quindi anche parti dei cinque Stati federali. La capitale è stata identificata nella città di Porcupine (South Dakota). Il governo degli Stati Uniti non ha accettato la situazione e non riconosce l’esistenza della Repubblica che di fatto non è uno Stato reale né tanto meno autonomo. A legittimare la posizione federale vi è anche il fatto che in realtà l’iniziativa sarebbe stata portata avanti solamente da uno strettissimo nucleo di attivisti lakota, senza il consenso di alcun membro del consiglio tribale, i cui leader principali hanno addirittura dichiarato pubblicamente di non approvare l’iniziativa di Means e compagni e di non riconoscersi nella Repubblica di Lakota. Il presidente del governo tribale della Riserva di Rosebud, Rodney Bordeaux, ha preso le distanze da Means, sottolineando che né il suo né altri gruppi lakota avrebbero fornito supporto o sostegno.
Russel Means non è quindi la voce di tutto il popolo lakota, che anzi non approva la sua azione, così come lo stesso Bureau of Indian Affairs. D’altro canto Means ha continuato a perorare la sua causa e ha rincarato la dose dichiarando che è stato il comportamento stesso del governo a provocare la loro azione, non avendo garantito quanto stabilito in 33 trattati: la questione della terra, l’assistenza sanitaria, l’educazione e altri servizi di base. All’inizio del gennaio 2008, la Repubblica di Lakota ha reso noto che avrebbe intentato un’azione legale per far cadere i vincoli relativi a tutte le terre espropriate dal governo all’interno dei confini rivendicati: in prima istanza, il tentativo è stato respinto.
L’ipotetico Stato di Lakota è aperto a tutti i gruppi etnici e soprattutto a tutti i cittadini già residenti nell’area dei cinque Stati coincidente con il territorio rivendicato: chiunque decidesse di rinunciare alla cittadinanza americana per aderire alla neonata Repubblica, avrebbe diritto a ricevere un nuovo passaporto e patente di guida. La Nazione sarebbe organizzata come una confederazione fondata sul rispetto di princìpi libertari, e i cittadini pagherebbero le tasse direttamente alle singole comunità, considerate le unità base dello Stato dotate di notevole autonomia, ricalcando l’antico modello della Confederazione Sioux. Sempre nel 2008 Russel Means si è auto dichiarato Chief Facilitator del governo provvisorio della Repubblica di Lakota, mentre i rappresentanti delle singole comunità dovrebbero essere scelti dagli anziani. I sostenitori del movimento indipendentista asseriscono che la validità dell’atto compiuto dai lakota è testimoniato dalla legge statunitense stessa, in quanto ogni tribù di nativi è sempre stata e sempre dovrà essere considerata “nazione” sovrana come stabilito da diversi trattati che, grazie all’articolo VI della Costituzione, devono essere considerati come legge suprema dello Stato. In questo senso, come abbiamo già sottolineato, si dovrebbe parlare di recupero di sovranità e non di secessione, con presupposti da ricercarsi nei trattati di Fort Laramie del 1851 e del 1868, che conferivano la proprietà esclusiva del territorio al popolo lakota e sancivano quello che avrebbe dovuto essere un ritiro e un abbandono definitivo degli insediamenti dei coloni. Inoltre il gruppo rivendica il diritto di abbandonare lo Stato americano sulla base della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969 e della Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni, aggiungendo l’aggravante che il contenuto dei trattati di Fort Laramie è stato apertamente violato e il territorio delle Black Hills espropriato illegalmente. I lakota sostengono anche che gli Stati Uniti hanno palesemente e ripetutamente violato l’autonomia dei popoli nativi tramite azioni, decreti legislativi e sentenze giudiziarie controverse, espropriando i loro territori e arrivando alla terribile pratica di rinchiuderli nelle riserve. Questi eventi hanno contribuito ad alimentare le attuali problematiche che affliggono la popolazione lakota, come l’alto tasso di disoccupazione, la povertà cronica e le malattie diffuse. Il distacco dagli Stati Uniti rappresenterebbe dunque la soluzione per risolvere questa situazione e aiuterebbe a ripristinare e valorizzare la lingua e la cultura lakota.
Il governo statunitense considera il tentativo lakota illegale e non riconosce l’esistenza della Repubblica, aggiungendo che l’azione non è neanche stata legittimata né tanto meno appoggiata dal governo tribale eletto da cittadini lakota. A partire dal febbraio 2008 la Lakotah Freedom Delegation ha cominciato a cercare consensi e riconoscimenti internazionali: una petizione formale è stata inviata alle ambasciate di diversi Paesi tra cui Venezuela, Bolivia, Cile, Uruguay, Sudafrica, Irlanda, Timor Est, Turchia, India, Finlandia, Islanda, Serbia e Russia: molti di questi hanno dimostrato il loro interesse per la causa lakota ed espresso la loro vicinanza, ma nessuno ha preso realmente posizioni ufficiali in merito.

lakota standing rock - sioux-1899
Sioux, 1899.

Un esempio per tutti

I lakota sono un popolo fiero e combattivo che ha sempre lottato per difendere le terre dei propri antenati, il cui centro è rappresentato dalla regione delle Black Hills, luogo sacro per la loro tradizione. I contatti e i successivi scontri con l’uomo bianco hanno cambiato per sempre la vita e la storia di questo gruppo: i coloni hanno occupato i territori ancestrali, hanno eliminato la principale fonte di sussistenza sterminando il bisonte, hanno depredato le colline ricche di oro e materie prime, hanno contribuito al quasi totale genocidio dei nativi con guerre e malattie, non hanno rispettato i trattati espropriando le loro terre con azioni legali controverse, infine hanno rinchiuso i superstiti nelle riserve, privandoli della libertà e distruggendo parte della loro identità, fondata su un sistema culturale originale, incentrata su una forte spiritualità che predica il rispetto di tutte le forme del creato, la generosità e la solidarietà.
La cultura lakota per fortuna non si è estinta, ma è sopravvissuta e continua a sopravvivere nell’animo dei discendenti che ancora oggi si battono contro le ingiustizie, mossi dai principi positivi insiti nella loro società. Fatti recenti come la dichiarazione di indipendenza della Repubblica di Lakota e la protesta di Standing Rock, seppur molto differenti, sono accomunati dalla ferrea volontà di combattere per i propri diritti, opponendosi e affrontando senza paura il governo statunitense.
La creazione della Repubblica di Lakota è un episodio che ha riscosso perplessità tra gli stessi nativi, che hanno preso le distanze criticando soprattutto le modalità dell’azione; tuttavia ha avuto il merito innegabile di porre ulteriormente in luce i torti subiti dai lakota e ha aumentato la coscienza etnica di molti di loro.
Standing Rock, invece, ha contribuito a far conoscere un’iniziativa che metterebbe a serio rischio l’equilibrio ambientale della zona. Stiamo parlando di due eventi in divenire e non è possibile prevedere come evolveranno le cose nei prossimi mesi e anni. Tuttavia è importante far tesoro degli insegnamenti dalla cultura lakota, accogliendo e adottando valori preziosi come il rispetto per gli altri, la tolleranza, l’altruismo e la salvaguardia dell’ecosistema.

 

N O T E

1) Il Missouri (3725 km) è uno dei fiumi più lunghi del continente nord americano ed è il principale affluente del Mississippi. Nasce in Montana dalla confluenza dei fiumi Madison, Jefferson e Gallatin e, dopo aver attraversato anche North Dakota, South Dakota, Nebraska, Iowa e Kansas, si getta nelle acque del Mississippi a nord di Saint Louis (Missouri).