L’attacco molto preciso e nitido di un ministro italiano contro una appartenente a un’etnia (zingara), apostrofata con un suffisso peggiorativo applicato alla definizione comune dell’etnia stessa (zingaraccia), è probabilmente uno sfogo che un rappresentante delle istituzioni non dovrebbe permettersi. Sia per motivi di stile, sia per motivi pratici. Soprattutto – questi ultimi – in una società dove la tradizionale religione del moralismo sessuale è stata sostituita da quella del moralismo razziale.
Sappiamo che per secoli la prima religione, quella cristiana classica, ha considerato come male supremo il peccato carnale, immensamente peggiore dell’omicidio o della violenza; al punto da usare omicidio e violenza per punire i peccatori (e soprattutto le peccatrici). Detta crudamente, fino a non molti decenni fa per la chiesa era meno grave un assassinio di una scopata.
Oggi questa chiesa classica è stata dapprima affiancata da quella parallela del comunismo trinariciuto, quindi praticamente sostituita dal comunismo radical chic. Ciò che rimane della chiesa cattolica si è infine saldato con la nuova fede progressista, riproponendo la secolare oppressione sulle nostre società. Ma con un cambiamento oggettuale: lo stromento dello dimonio non è più la fornicazione ma il razzismo. Per il resto tutto è rimasto identico, nel senso che di fronte al nuovo Peccato Mortale ogni infamia passa in secondo piano: il furto, l’omicidio, lo stupro.
L’aspetto più triste è che – così come il clero ottocentesco riteneva atto impuro grattarsi i testicoli – quello attuale riesce ad annusare il fumo dell’intolleranza praticamente in ogni manifestazione dell’ottanta per cento della cittadinanza (caucasoide, ovvio).
Insultando la zingara, il ministro ha scioccamente messo sui piatti della stadera, da una parte una delinquente che lo ha minacciato di morte, dall’altra un termine dall’inconfondibile richiamo etnico. Giustamente, gli officianti hanno stigmatizzato il peccato vero, quello mortale, il secondo. E trattandosi di gente che ogni settimana indica una figura di riferimento, un personaggio da beatificare e “da cui ripartire” (talvolta un pendaglio da forca), non ci stupiremmo se la gradevole abitante del campo ricevesse qualche visita pastorale.
Ecco: i campi rom… Era di questi che volevamo parlare, prendendo spunto dalla suddetta polemica, e lo facciamo riproponendo un’analisi abbastanza “tecnica” di cinque anni fa: nessun motivo di riscrivere l’articolo ex novo, ché nel frattempo non è cambiato nulla.

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