Che lo stupro fosse, oltre che un crimine di guerra e contro l’umanità, anche un’arma di guerra me lo aveva spiegato in dettaglio la storica Bruna Bianchi una decina di anni fa, in un’intervista che ripropongo a fine articolo.
Ovviamente ci sono guerre e guerre. Quelle di cui si parla e quelle su cui si preferisce stendere un velo (un sudario?) poco pietoso.
Così avviene per l’occupazione di Afrin nel Nord della Siria, avviata nel 2018 da parte dell’esercito turco con i suoi ascari jihadisti. Secondo quanto ha denunciato (durante una conferenza-stampa nel campo di Serdem, a Shehba, dove si affollano decine di migliaia di sfollati) una portavoce dell’organizzazione per i diritti umani di Afrin-Siria, in questi cinque anni almeno 99 donne sono state ammazzate, 74 violentate e oltre un migliaio rapite. E almeno una decina si sarebbero suicidate dopo aver subìto maltrattamenti e umiliazioni.
Non esisterebbero invece al momento dati attendibili sulla pratica alquanto diffusa dei “matrimoni” forzati.
Ovviamente si tratta di numeri in difetto, quelli accertati. Per un portavoce di Kongra Star potrebbe trattarsi solamente del 10% dei crimini effettivamente avvenuti. Un quadro generale alquanto fosco alimentato, oltre che da stupri e rapimenti, anche da torture e aggressioni sessuali di ogni genere, sia contro le donne in generale sia contro i minori.
Di gran parte delle migliaia di donne sequestrate, rapite (di fatto desaparecidas) non si conosce il destino.
In un comunicato letto da Heyhan Elî si sollecitano “tutte le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani, le organizzazioni umanitarie femministe a compiere il loro dovere morale e legale di fronte ai crimini commessi contro la popolazione nei territori occupati del Nord della Siria. Gli autori di questi crimini, in particolare quelli contro le donne e i bambini, devono essere tradotti davanti a un tribunale. Occorre inoltre esercitare ogni possibile pressione sullo Stato turco affinché ritiri le sue truppe dai territori occupati. Gli sfollati devono poter rientrare in sicurezza nelle loro terree le vittime devono poter usufruire di sostegno sia morale che materiale”.
La settimana scorsa un altro esponente dell’organizzazione, Mihemed Ebdo, aveva denunciato come dall’inizio del 2023 le violazioni dei diritti umani si fossero ulteriormente accentuate: “Lo Stato turco viola i diritti umani nella regione commettendo crimini di ogni genere: massacri, rapimento, stupri, saccheggi e distruzione dell’ambiente naturale”.
Complessivamente dall’inizio dell’anno i rapimenti documentati in totale sarebbero stati almeno 208, tra cui 24 donne e un minore, un tredicenne vittima di violenze sessuale.
Sempre nel 2023, tredici persone, tra cui tre donne, sono state assassinate dalle forze occupanti. Inoltre oltre 16mila alberi sono stati abbattuti, un altro migliaio sradicati e circa settanta ettari di terreno dati alle fiamme.
Su tali vicende era intervenuto in questi giorni anche Alif Muhammad, portavoce del coordinamento del Kongra Star. Denunciando in particolare un recente episodio, l’azione criminale compiuta da Zakaria Bustani, un esponente del – cosiddetto – consiglio locale del distretto di Jinderes, sempre nel cantone di Afrin sotto occupazione. Insieme al figlio, Nasr Bustani, si sarebbe reso responsabile dello stupro di una ragazzina di 14 anni rapita da casa sua minacciando di morte i presenti.
Sempre in agosto, le truppe di occupazione e i mercenari islamisti avrebbero violentato anche tre insegnanti di una scuola di Jarablus. Invece un capo della milizia Al-Sharqiya si sarebbe “limitato” a minacciare un cittadino di Janders di violentarne la figlia se non avesse versato un forte riscatto.
Stando ai dati forniti dal portavoce di Kongra Star, tra luglio e agosto i mercenari filo-turchi avrebbero violentato almeno 20 donne e cinque bambini
Per non parlare del saccheggio (per poi vendere i reperti sul mercato nero) e della pura e semplice distruzione di siti storici come il tempio di Ishtar d’Ayn Dara, del mausoleo di Nebi Huri, della grotta di Duderi e della tomba di Mar Maron.
Scopo apertamente dichiarato, lo stravolgimento demografico della regione attraverso la realizzazione di colonie in cui insediare popolazioni filo-turche. In questa opera di “genocidio culturale” Ankara può contare sul sostegno economico di Qatar, Kuwait, organizzazioni legate ai Fratelli Musulmani (al-Ayadi al Bayda, Kuwait al-Rahma, Binyan al-Qatari) e di organizzazioni palestinesi.

Lo stupro come arma

Ed ecco l’opinione di Bruna Bianchi, docente di Storia Contemporanea all’università Cà Foscari di Venezia, che intervistammo il 2 settembre 2013:
 
A quasi 40 anni dalla pubblicazione di Against our will di Susan Brownmiller che denunciava lo stupro come “arma repressiva” nei confronti delle donne, le cose non sembrano essere cambiate. Un suo parere…
 
Lo stupro è onnipresente, non solo nelle situazioni citate, tanto in pace quanto in guerra. Le donne migranti che dal Messico cercano di attraversare illegalmente la frontiera con gli Stati Uniti, prima di partire prendono anticoncezionali sapendo che quasi certamente verranno violentate. Rientra nella loro condizione in quanto donne sole o comunque in una situazione di debolezza, come quelle nei campi profughi. In tutte le guerre civili contemporanee, il cui scopo è distruggere un’organizzazione sociale, sradicare o annientare una comunità, gli stupri hanno raggiunto un’ampiezza e una ferocia estrema.
Le donne, soprattutto in tempo di guerra, mantengono i legami della famiglia e della comunità e quindi occupano un posto particolare in questa logica della distruzione. Ucciderle e degradarle si è rivelata una strategia militare efficace per diffondere il terrore, costringerle alla fuga, rendere impossibile il ritorno. 
 
Cosa ha rappresentato, anche simbolicamente, lo stupro in situazioni di conflitto come i Balcani, il Ruanda o la Repubblica Democratica del Congo?
 
Violentare, occupare il corpo della donna significa conquistare simbolicamente un territorio (quindi lo stupro conquista, degrada, ripulisce lo spazio). Nei Balcani, negli anni ‘90, tutti i gruppi etnici se ne sono resi colpevoli. L’opinione pubblica è rimasta particolarmente colpita dall’orrore dei “campi di stupro” organizzati dai serbi con lo scopo di far nascere “piccoli cetnici” da donne bosniache musulmane in base al pregiudizio che solo gli uomini possono trasmettere l’etnia. Si contava sul fatto che le donne, considerate “contaminate”, sarebbero state rifiutate dalla loro comunità e i figli abbandonati a un destino di marginalità. In Ruanda invece molti bambini nati da stupro sono stati arruolati nell’esercito. Per queste ragioni oggi si parla di stupro come crimine contro l’umanità, crimine di genere e contro l’infanzia.
In Congo il fattore determinante è il controllo delle risorse minerarie e quindi, ancora una volta, sfruttamento del territorio. Gli stupri esprimono volontà di terrorizzare, umiliare, imporre il senso dell’inesorabilità di un destino di sottomissione totale e renderlo manifesto attraverso l’umiliazione della donna, la sua disumanizzazione. Lo stupro inoltre  rafforza lo spirito di complicità maschile, esalta il potere e l’autorità come valori inscritti nella virilità. Nella cultura dominante il corpo femminile è una risorsa da sfruttare. Pensiamo al lavoro agricolo, svolto nel mondo in gran parte dalle donne, al traffico di ragazze a scopo matrimoniale, al turismo sessuale o alla prostituzione.

Bruna Bianchi.

 
Sulla prostituzione, anche in àmbito femminista, non c’è sempre pieno accordo, o sbaglio?
 
La prostituzione è una forma estrema di sfruttamento e oppressione, un turpe mercato alimentato da povertà e discriminazione che riduce ogni anno in schiavitù sessuale 5 milioni di donne, di cui un milione di bambine. Esse sono inviate per lo più nei Paesi occidentali dove l’accesso a prestazioni sessuali a pagamento ha avuto una crescita esponenziale. È considerata una servitù irrinunciabile, socialmente accettata e coperta dai media che riducono la questione alle “donne sfruttate” da un lato e a “pochi sfruttatori” (quelli che gestiscono i traffici) dall’altro. Una parte significativa della giurisprudenza femminista considera la prostituzione come tortura, in quanto l’uso del corpo delle donne a fini di piacere rientra nei “trattamenti disumani e degradanti”. Esistono poi altre correnti di pensiero femminista che invece parlano di sex work, forse pensando di sottrarre le donne alla svalorizzazione.
 
A suo avviso è possibile tracciare una linea di demarcazione tra i metodi adottati dagli eserciti o dalle milizie comunque legate al potere (gruppi etnici dominanti o strumento di interessi economici) e quelli dei “movimenti di liberazione”? Ho in mente i gruppi guerriglieri latino-americani del secolo scorso o le milizie libertarie nella guerra civile di Spagna che semplicemente fucilavano gli stupratori, soprattutto quando provenivano dai loro ranghi.
 
Ritengo che quando si prendono le armi sia difficile sfuggire allo spirito del militarismo. In Guatemala, ad esempio, sia l’esercito sia i gruppi paramilitari e i guerriglieri che si resero colpevoli di stupro condividevano la stessa immagine della donna, simbolo della terra e oggetto di appropriazione e anche di protezione. Le donne riproducono la nazione fisicamente e simbolicamente, incarnano la moralità di una comunità, mentre gli uomini la proteggono, la difendono e la vendicano. Il corpo femminile è il luogo simbolico del territorio della nazione, sia per lo Stato che per i movimenti identitari, oggetto della protezione o dell’esecrazione maschile. La concezione maschile della vergogna e dell’onore è un nodo cruciale per comprendere le dinamiche degli stupri di massa. Si pensi alla Partizione dell’India quando tra 75mila e centomila donne furono violentate e rapite, e molte altre furono uccise o spinte a togliersi la vita dai propri familiari per non essere stuprate dagli uomini dell’altro gruppo religioso.
 
Esiste poi un’altra faccia della medaglia. La sua opinione sulle donne addestrate e arruolate nell’esercito afgano e presentate all’opinione pubblica come esempio di “emancipazione”?

Vedo il rischio di un uso disonesto e retorico delle donne soldato in Afghanistan non solo da parte di chi le arruola, ma anche di chi dice “in fondo ora ci sono le donne soldato, anche le donne possono essere militariste, violente…”.
In tutte le società l’ordine simbolico dominante è quello maschile. Pensiamo all’enfasi su concetti come autonomia, indipendenza, competizione. Tutto ciò che è legato agli affetti, al quotidiano, alla responsabilità per la vita, alla cura, è svalutato. Non esiste più l’ordine simbolico della madre, e il lavoro domestico e di cura delle donne è invisibile, non pagato, svalorizzato. In un certo senso le donne costituiscono una casta, destinate per nascita a un lavoro senza valore. Non vedo quindi come ci si possa stupire se alcune accolgono i valori dominanti.
 
Volendo individuare i fattori economici all’origine dell’oppressione subita dalle donne, contro chi punterebbe il dito?
 
Tra le opere che hanno dato un contributo decisivo alla conoscenza della posizione delle donne nella società antica non si può non menzionare The living goddesses dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas. Il volume dimostra che nell’Europa antica nell’arco di alcuni millenni (dal 7000 al 3000 a.C.) si erano sviluppate diverse società matrifocali nelle quali la donna, associata in quanto madre alla natura, portatrice di vita e di morte, aveva un ruolo fondamentale a livello simbolico e religioso, così come nella pratica sociale. La studiosa descrive queste culture, poi quasi completamente distrutte con le invasioni delle popolazioni indoeuropee, come pacifiche, prive di gerarchie e di forti differenze di classe. Altri studi hanno disegnato un quadro che in parte rientra nelle linee tracciate da Engels. L’egualitarismo originario e la condizione delle donne iniziarono a declinare quando esse persero la loro autonomia economica, quando il lavoro delle donne, inizialmente pubblico nel contesto delle comunità o dei villaggi, fu trasformato in un servizio privato nei confini della famiglia.
 
Tale trasformazione è da considerare più un frutto della natura umana o della cultura?
 
Come femminista rifiuto la dicotomia tra natura e cultura. Il femminismo, e in particolare l’ecofemminismo, hanno criticato il pensiero oppositivo. È impossibile separare la natura dalla cultura; si pensi alle prime relazioni delle donne con l’ambiente naturale. Spinte dalla volontà di nutrire e proteggere i figli, le donne svilupparono la prima vera relazione produttiva con la natura; in questo processo acquisirono una conoscenza profonda delle forze generative delle piante, degli animali, della terra e la tramandarono, ovvero crearono la società e la storia.
 
Questo per la cultura. Diversa invece la posizione dell’ecofemminismo nei confronti della tecnologia, estranea se non ostile alla natura. Un atteggiamento in cui colgo alcune affinità con il pacifismo e l’ecologismo radicale; in parte anche con l’antispecismo…
 
A partire dal dilemma ambientale contemporaneo e dalle sue connessioni con la scienza e la tecnologia, l’ecofemminismo ha ricostruito il processo di formazione di una visione del mondo e di una scienza che, riconcettualizzando la natura come una macchina anziché come organismo vivente, sanzionarono il dominio dell’uomo sulla natura e sulla donna. La percezione della natura come materia inerte si rese necessaria per eliminare ogni remora morale allo sfruttamento accelerato e indiscriminato delle risorse naturali e umane. Riducendo gli esseri viventi a macchine da studiare, su cui sperimentare, separando ragione ed emozione e stabilendo la superiorità della razionalità astratta, il pensiero scientifico dissocia l’uomo dalla donna, gli animali, la natura; femminilizza la natura e naturalizza le donne. La natura e le donne esistono per i bisogni degli uomini. Storicamente il mondo degli uomini è stato costruito in opposizione al mondo della natura e a quello delle donne. Essere uomini significa dissociarsi dal femminile e da quello che rappresenta: vulnerabilità, cura, inclusione. La mascolinità può essere raggiunta attraverso l’opposizione al mondo concreto della vita quotidiana, fuggendo dal contatto con il mondo femminile della casa verso il mondo maschile della politica o della vita pubblica. Questa esperienza di due mondi giace al cuore dei dualismi oppositivi.

E per il futuro? Vede qualche possibile alternativa allo stato di cose presente?
 
Il futuro di una comunità veramente umana richiede che gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità, vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della produzione e del sostegno della vita, cambiare il modo di pensare, di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutino la violenza. Per quanto riguarda i movimenti, al momento attuale tra femministe, pacifisti, ambientalisti, antispecisti (ma penso anche a chi si batte per i diritti dell’infanzia, contro lo sfruttamento minorile, in difesa delle minoranze, degli indigeni) manca la connessione. Da questo punto di vista il caso del Congo – da cui eravamo partiti – appare emblematico: di fronte alla violenza sugli inermi, donne e bambini, alla distruzione delle foreste, all’estinzione degli animali, alla tragedia dei profughi non è più consentito avere sguardi parziali, occorre connetterli, sia a livello teorico che pratico.