Biden e il Medio Oriente: cosa cambierà?

Le domande che seguono sono state rivolte a Pipes da Michael Johns.

Quali saranno i cambiamenti politici più significativi che l’amministrazione Biden probabilmente apporterà subito nei confronti del Medio Oriente?

Per rispondere, mi rifaccio a due elementi fondamentali. Innanzi tutto, proprio come Trump ha assunto la carica con l’intento di ribaltare le politiche di Obama, così Biden intende invertire quelle di Trump. In secondo luogo, i suoi quasi cinquant’anni di carriera politica fanno di Biden la personificazione stessa dell’establishment democratico. Insieme, questi due elementi mi inducono a prevedere un ritorno immediato alle politiche tradizionali e convenzionali. Per quanto concerne i cambiamenti che Biden apporterà subito nei confronti del Medio Oriente, dubito che egli possa fare molto più che comunicare per telefono le sue intenzioni ai vari leader ed emettere ordini esecutivi. Con un ordine esecutivo potrebbe consentire l’immigrazione dai tredici Paesi ostili che Trump ha bandito, oppure permettere all’Autorità Palestinese di riaprire la sua legazione a Washington.

Quando era vice-presidente Biden manifestò l’intenzione di tornare al Piano di Azione Congiunto Globale (JCPOA) del presidente Obama, l’accordo sul nucleare iraniano. Lo farà?

La risposta dipende in gran parte da un fattore che sfugge al controllo di Biden, ossia la politica interna dell’Iran, essendo l’accordo controverso in Iran come negli Stati Uniti. La pragmatica fazione di Rohani-Zarif vuole riportare gli Stati Uniti nell’accordo; alla fazione ideologica guidata da Khamenei l’accordo non è mai piaciuto e vorrebbe far pagare a caro prezzo il re-impegno degli americani (ai quali richiede letteralmente un ingente anticipo). Date queste dinamiche, oltre ai tentativi da parte dei Paesi arabi sunniti di esercitare pressioni su Washington in modo più esplicito rispetto agli anni di Obama, sono incline a pensare che sarà difficile per il governo statunitense rientrare nel JCPOA a condizioni accettabili.

In che modo l’amministrazione Biden farà fronte alle azioni aggressive dell’Iran oltre i suoi confini, soprattutto in Iraq e nel Golfo Persico?

Obama ha minimizzato le trasgressioni iraniane per raggiungere un accordo, e Biden potrebbe essere tentato di fare lo stesso. Detto ciò, gli sviluppi degli ultimi quattro anni ostacoleranno un facile ritorno alla situazione precedente. L’opposizione interna all’Iran è diventata un fattore significativo in Yemen, in Libano e in Iraq, mentre i sauditi e altri mostrano una maggiore determinazione nell’opporsi a Teheran.

In quale misura le recenti normalizzazioni dei rapporti diplomatici tra i Paesi arabi e Israele ridisegnerà il Medio Oriente?

Nettamente. Il cambiamento nelle relazioni tra i Paesi arabi sunniti e Israele è in divenire da molto tempo; dopotutto, il Piano Abdullah venne presentato nel 2002, mentre l’ultima guerra su larga scala tra gli Stati arabi e Israele ebbe luogo nel 1973 (casualmente lo stesso anno in cui Joe Biden entrò al Senato). Nel corso dei decenni, i Paesi arabi sono stati sempre meno disposti a combattere Israele e più propensi a conviverci, una tendenza alimentata ulteriormente dai forti cali dei prezzi energetici nel 2014 e nel 2020, dal JCPOA, da un crescente sentimento antislamista e dalle sollecitazioni di Trump. A meno che non avvenga qualcosa di veramente inaspettato, questa evoluzione dovrebbe continuare. Israele ha già relazioni formali con 6 dei 22 membri della Lega Araba, e il numero probabilmente aumenterà.

Questi sviluppi cambieranno il modo in cui l’amministrazione Biden affronterà Israele e il conflitto israelo-palestinese?

Certo. La squadra di Biden è incline a concedere a Mahmoud Abbas e all’Autorità Palestinese il potere di veto su gran parte della diplomazia mediorientale: è la solita vecchia storia, quella del linkage, l’idea bislacca che sia il conflitto arabo-israeliano a guidare il Medio Oriente, che il progresso richieda ovunque una benedizione palestinese. In linea di massima, i leader degli Stati arabi sono diventati insofferenti al negazionismo dell’AP e non vogliono esserne limitati. Se la Casa Bianca dovesse incontrare proteste contro lo screditato linkage da Karthoum, se non addirittura da Algeri, dovrà rivedere i propri presupposti.

Anche Biden come Obama avrà rapporti difficili con il primo ministro Netanyahu?

Sì. Forse saranno un po’ più concilianti, ma le tensioni finiranno inevitabilmente per venire a galla, dato il numero crescente di antisionisti in seno al Partito Democratico e l’atteggiamento di superiorità, ipocrita e pedante, che da tempo Biden ha assunto nei confronti dello Stato ebraico. Ecco una parafrasi di un recente articolo israeliano sull’incontro che Biden ebbe con l’allora primo ministro israeliano Golda Meir nel 1973, articolo in cui basterebbe sostituire il nome di Nixon con quello di Trump per trovare applicazione oggi: “Biden criticò l’amministrazione Nixon per essere stata ‘trainata da Israele’ lamentandosi che era impossibile avere un vero dibattito al Senato sul Medio Oriente poiché i senatori avevano paura di dire cose impopolari tra gli elettori ebrei”.

Su Twitter, il mese scorso, lei ha assegnato al presidente Trump voti migliori per la sua politica riguardante il Medio Oriente rispetto a quelli assegnati al vicepresidente Biden; tranne per quanto concerne la Turchia, nel qual caso ha giudicato Trump “terribile” e Biden “buono”. Perché?

Trump l’ha fatta passare liscia a Recep Tayyip Erdogan su ogni questione, tranne su una curiosamente minore, riguardante la detenzione del pastore evangelico Andrew Brunson. Alcuni osservatori collegano questa linea morbida agli interessi finanziari di Trump in Turchia, un’interpretazione che egli stesso ha stranamente incoraggiato. Ma lo vedo più come un esempio della strana tendenza all’amicizia con i dittatori, tra cui Vladimir Putin e Kim Jong-un. Al contrario, Biden fa parte del mainstream su tale argomento, definendo Erdogan un “autocrate” e invocando una serie di politiche più severe nei confronti della Turchia riguardo a questioni come le attività di esplorazione del gas nel Mare Mediterraneo, la base aerea di Incirlik e i curdi.

Obama ha scoraggiato il movimento a favore della democrazia contro un regime ostile in Iran e lo ha incoraggiato contro uno amico in Egitto. Qual era il calcolo alla base di quella posizione, e la vedremo ripetersi con Biden?

È un classico esempio di politica che usa due pesi e due misure: trattare con gentilezza un regime nemico nel tentativo di allettarlo e trattare duramente un alleato perché ti dà sui nervi. Si pensi alla Russia e alla Polonia o alla Cina e Taiwan. Obama ha legato la sua reputazione in politica estera a un accordo con l’Iran e non si sarebbe lasciato mettere il bastone tra le ruote da una fastidiosa rivolta civile. Non gli piaceva nemmeno Mubarak e non vedeva motivo di andare in suo aiuto. Penso che Biden ripeterà lo stesso schema, anche se in modo meno sottile.

L’amministrazione Trump ha appena annunciato il ritiro di migliaia di soldati dall’Iraq e dall’Afghanistan. Sono decisioni sagge?

No, aprono la strada a ulteriori sconvolgimenti nei due Paesi, dove gli Stati Uniti hanno perso migliaia di vite e investito migliaia di miliardi di dollari. Questo brusco cambiamento dell’ultimo minuto, probabilmente, nasce dalla consapevolezza di Trump di dover mantenere la promessa di por fine a quelle che egli definisce le “guerre eterne” dell’America. Ma, visto che tra poche settimane diventerà un privato cittadino, è altamente irresponsabile da parte sua avviare questa fondamentale iniziativa così tardi nel suo mandato.

Come dovrebbe regolarsi l’amministrazione entrante?

I nuovi arrivati si trovano davanti alla scelta sgradevole se accettare il fatto compiuto di Trump o vanificarlo. Optare per questa seconda scelta non sarà un compito facile, considerando quanto il ritiro dei militari determini reazioni nei Paesi stranieri e negli Stati Uniti. In poche parole, Trump ha lasciato al suo successore una patata bollente sulla scrivania dello Studio Ovale.

 

1 dicembre  agosto 2020 – www.danielpipes.org