Riflessioni sulla difformità rispetto al panorama architettonico circostante delle atipiche” costruzioni rurali venete.

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Ancor più grande e imponente appare il tetto del casone quando si profila in controluce, tutto solo, nel vasto piano della campagna. Una singolare piramide di legno e paglia protesa verso l’azzurro del cielo.

Negli ultimi tempi alcune pubblicazio­ni, fra le quali molto bella è quella di Paolo Tieto, edita dalla Panda, hanno riproposto all’attenzione degli studiosi una manifestazione della eredità e del­la realtà della cultura veneta che è sco­nosciuta ai più: si tratta dei casoni. So­no costruzioni dal tetto molto spiovente (nell’ordine dei 45° e più), ricoperto generalmente da una orditura di erbe palustri, quali la pave­ra o il carezin (con cui si impagliano anche le sedie). Le pareti, con il variare delle epoche, furono di legno e poi in muratura. A un solo piano abitativo, il sottotetto veniva usato per riporre il fieno. Al tempo in cui le pareti erano in legno, il focolaio (quando c’era) era l’unica parte in muratura e costituiva, sporgendo dal perimetro, un vano che andò allargandosi sempre più fino a costituire una vera e propria piccola cucina abitabile (cavarzerana).

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Camino tipico di casone ad Arzergrande.

La canna fumaria svettava alta e mas­siccia fin quasi all’altezza del colmo. Questo accorgimento, assieme a quel­lo di costruirla sempre sul lato sud, serviva a evitare che le scintille che ne uscivano potessero incendiare la co­pertura del tetto. Tale struttura del ca­mino divenne del resto anche elemento caratteristico del casone e, seppure l’origine di questi sviluppi architetto­nici sia difficilmente databile, è molto probabile che si tratti di una tradizione molto antica dalla quale hanno attinto i costruttori dei famosi camini delle case in muratura veneziane. Infatti, mentre nel casone una siffatta struttu­ra trova una funzione logica, dalla quale nasce l’elemento architettonico, nelle case in muratura, ricoperte di te­gole, non può essere altro che il rifaci­mento, abbellito e valorizzato, di un modello tradizionale precedente. Al­trettanto non è accaduto, per esempio, per un altro elemento caratteristico del casone, cioè il metodo di costruzione del tetto, per quanto riguarda la pen­denza delle falde. Su questo ha preval­so il modello latino-italiano, con pen­denza molto meno accentuata, che garantiva comunque l’impermeabilità grazie al più evoluto sistema della co­pertura in tegole di cotto.
Alla base di tale evoluzione escluderei le ragioni climatiche come strettamen­te determinanti, in seguito a un’osser­vazione molto semplice. Se noi trac­ciamo una mappa della zona alpina nella quale distinguere due diverse aree, l’una dove predomina il tetto a inclinazione accentuata e l’altra dove tale inclinazione è minore, scopriremo di aver delimitato non già due diverse aree climatiche, dal momento che il clima alpino è uno, bensì due aree cul­turali, quella neolatina e quella sasso­ne. Appare sempre evidente, al viag­giatore attento, il cambiamento di pa­norama architettonico quando si passa dalla Svizzera italiana a quella tedesca oppure dal Trentino al Sudtirolo, pur riconoscendo una certa continui­tà.

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Quando il tempo logora il manto di copertura, ecco allora apparire le strutture portanti del tetto del casone: le grosse travi ai quattro angoli, le atole, gli stretturi e i sottostretturi che ne costituiscono l’orditura.
Già alla fine del ‘400 il casone presenta una sua ben precisa configurazione: muri perimetrali uniformi, fatti in muratura, tetto di canna palustre a quattro spioventi molto inclinati, porta e balcone di piccole dimensioni.
La pianta del casone è per lo più di forma rettangolare, ma talora se ne trovano anche a base quadrata; il suo aspetto resta comunque sempre lo stesso, e cioè quello di una abitazione fatta dall’uomo con i mezzi poveri fornitigli dalla natura che gli sta intorno.

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Se l’inclinazione del tetto fosse strettamente collegata solo alla necessità di far scorrere l’acqua o la neve, tutti i costruttori del centro e nord Europa avrebbero da tempo smesso di proget­tare in tal modo, dal momento che le moderne tecniche di copertura posso­no risolvere ben altri problemi di por­tata che non qualche chilo di neve o di acqua. Invece il sistema è rimasto. L’elemento dapprima solo funzionale è diventato tradizione e questa è di­ventata modello. La funzione diventa tradizione solo quando non si inseri­sca, attraverso un processo di accultu­razione, un modello che, sostituendo il precedente che non ha più funzione, diventi dominante.
Purtroppo un ragionamento finito, in questo senso, per quel che riguarda le civiltà d’Europa, appare molto diffi­coltoso. L’etnologo che opera su un territorio europeo si trova sempre nel­la difficoltà di unire i fili conduttori di una società complessa, che mal si pre­sta a uno studio lineare esente da in­terpretazioni talvolta azzardate o da deduzioni derivate da fonti molto di­verse fra loro. Nelle culture stratificate come le nostre i tasselli del mosaico (quelli che ci sono) possono nascon­dersi ovunque. Anche l’osservazione e l’esperienza diretta “sul campo”, se­condo l’ortodossia delle scienze antro­pologiche, inducono il ricercatore a compensare talvolta le sue teorie con ipotesi che poggiano su dati parziali. In tale caso si trova a essere condizio­nato dalla storia politica e civile dei luoghi in cui opera, appartenendo egli stesso a quelle culture.
È per un insieme di ragioni di questo genere che spesso l’antropologia si astiene dal fornire spiegazioni su certi fenomeni, limitandosi alla descrizione di essi. È questo l’esempio dei casoni per quanto riguarda la loro difformità dal panorama architettonico circo­stante. Ma è proprio da difformità co­me la pendenza del tetto e da similarità come i camini che si può cominciare uno studio. Queste costruzioni vengo­no definite da tutti “atipiche” ed è per questo che viene subito da chiedersi: fino a che punto si può parlare di “ti­pico” in una cultura complessa? Fino a che punto si può parlare di omoge­neità del tipico quando vi si trova in mezzo l’atipico? E poi ancora, soprat­tutto, l’atipico andrà considerato co­me un tentativo di acculturazione o come un residuo della civiltà tradizio­nale del luogo che si è salvato dal pro­cesso di deculturazione? Per quel che riguarda i casoni io propenderei per la seconda ipotesi.
Alcuni parlano di questa costruzione come di una “novità” apparsa nel XV-XVI secolo per ragioni stretta mente economiche. Vale a dire che contadini non possidenti, esclusi dal latifondo, si sarebbero trovati nella necessità di costruirsi un riparo ser­vendosi di materiali che le immediate vicinanze potevano offrire. Per quel che riguarda le origini del modello ci si accontenta di dire che questo è ripreso da capanni di caccia e pesca, forse da sempre esistenti. Ma la eccessiva dif­formità di stile fra il casone e la casa in muratura e il fatto che un metodo di costruzione in carpenteria non si im­provvisa dall’oggi al domani, possono anche far pensare a due diverse e sepa­rate linee di evoluzione; l’una, quella dei casoni, continua il modello della civiltà indigena originaria, in questo caso la veneta; l’altra, quella delle case in muratura dallo spiovente di minore pendenza ricoperto di tegole, continua il modello indotto, e che prevale, della acculturazione latina.
Gioverebbe a questo fine uno studio comparato tra i cottages inglesi, i ca­soni veneti e certe case della Selva Ne­ra o dei Balcani, tutte abitazioni, que­ste, che presentano fra di loro notevoli affinità. Molto utile sarebbe anche ap­profondire la via, già molto bene deli­neata da P. Tieto, della ricerca icono­grafica attraverso antichi dipinti e mappe, dal momento che il materiale bibliografico è molto scarso.
In ogni caso, per il momento, l’opera più importante e pressante sembra es­sere quella della salvaguardia e della conservazione. Purtroppo, infatti, i governi che si sono succeduti sul terri­torio veneto negli ultimi cento anni so­no riusciti a decimare, con la distru­zione diretta e programmata e la pro­paganda negativa, questi monumenti della civiltà veneta che sono i casoni.

Pubblicato nel 1984 su:

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