Le lingue celto-padane, come il piemontese, si sono formate seguendo i medesimi criteri delle altre parlate romanze. Terminata la diretta influenza politica di Roma, le popolazioni hanno cominciato a modificare il latino influenzandolo con lo stesso strato linguistico – nel nostro caso il gaelico – su cui il latino si era depositato durante la dominazione romana.

Essendo le popolazioni di Francia e Padania appartenenti a tribù celtiche varie e diverse, è abbastanza comprensibile che queste evoluzioni, pur imparentate, abbiano portato a risultati altrettanto diversi.
Nei primi secoli del fenomeno le differenze sono ovviamente minori, essendo ancora prioritario il latino. Più o meno tutti si stanno dando da fare per sostituire i “casi” (ossia quel sistema latino di terminare le parole, per cui servus significa servo e servi invece del servo) con particelle antenate di quelle odierne (de servus, cioè del servo) e costruire verbi composti con essere e avere.
Al volgere del millennio, in Francia le diversità sono ormai impiantate: si possono già riconoscere un francese antico e un provenzale antico; mentre il Piemonte forse è rimasto un po’ indietro, e infatti il provenzale vi copre un ruolo di rilievo, così come in Lombardia. Emilia e Liguria. Bisogna attendere il XII secolo per trovare un’opera in lingua inequivocabilmente piemontese (e per questo mai nominata in nessun testo scolastico), i cosiddetti Sermoni subalpini.
Si tratta di una raccolta monumentale di argomento religioso, densa di lirismo e dotata di una grafia straordinariamente regolare per i tempi. Un esempio di lingua talmente sviluppata da far sospettare che, in fondo, il piemontese dovesse aver già cominciato a pulsare in contemporanea con le cugine d’oltralpe, e noi semplicemente non ne possediamo ancora la relativa documentazione scrìtta.
Questo discorso in apparenza noioso ha però un significato importante. Tutti ricordiamo dai libri di scuola (questo sì lo riportano!) che “il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo” (De Sanctis). Eccone alcuni versi:

Molte sono le femine
che hanno dura la testa
e l’uomo con parabole
le dimina e ammonesta.

Confrontiamoli con un brano dei Sermoni, dove Cristo scaccia i mercanti dal Tempio:

La mia maisun
si est maisun
d’oraciun,
mas vos en avez fait
balma de lairuns.

Il lettore osservi l’abisso linguistico tra i due pezzi, aggiunga che il primo è posteriore al secondo di circa un secolo, e si ponga la domanda: chi afferma che il piemontese è un dialetto italiano può avere accesso a una carriera accademica?

Brero: vanno salvate le parlate locali

Rispetto alle altre lingue padane, il piemontese ha avuto la grande fortuna di crescere in uno stato unitario e omogeneo. Risuonava in parlamento a Torino, lo usavano i re e i ministri, alternandolo al francese. L’unità d’Italia e l’immigrazione selvaggia, pur culturalmente rovinose, non hanno spento la tradizione linguistica del Piemonte la quale, anzi, ha oggi il supporto di nuovi manuali, grammatiche e ottimi vocabolari. Uno degli studiosi che più hanno contribuito alla conservazione e alla regolarizzazione del piemontese koiné (ossia la lingua unitaria, “ufficiale”, affiancata dai vari dialetti locali) è Camillo Brero, poeta, autore di numerosi saggi sulla letteratura della sua regione.

Brero è abbastanza ottimista circa il futuro del piemontese.
Malgrado 150 anni di aperta campagna denigratoria, la crisi della nostra lingua è in via di attenuazione. Assistiamo a un fiorire di periodici, enti, gruppi e famije che si occupano in modi diversi di divulgare questo patrimonio culturale. Pensa che sono oltre seicento gli insegnanti interessati ai miei corsi di aggiornamento sulla cultura locale.

Ma esiste un corrispettivo piemontese dell’Accademia della Crusca?
Esiste, per la precisione dal 1927. È la Companìa dij Brandè, che lavora specificamente in difesa della lingua, e tra l’altro ha espresso i poeti e gli scrittori più significativi del ‘900 piemontese. A Torino abbiamo anche la Ca dë Studi Piemontèis, che opera a livello universitario.

Voi piemontesisti parlate e scrivete usando la koiné. Sarà questa, presumo, la lingua che verrà insegnata in Piemonte se e quando l’evoluzione politica lo consentirà. Non c’è il rischio che le parlate locali – il monferrino, il biellese, eccetera – ne soffrano o addirittura si estinguano?
Non c’è questo rischio, credimi. La lingua piemontese, anzi, vive proprio grazie alle espressioni locali, che ne costituiscono la linfa vitale. Aggiungerei che la tanto conclamata diversità dialettale si limita in prevalenza all’espressione fonica, alla pronuncia. Sono comunque d’accordo sul fatto di insegnare il piemontese in comunione con le lingue locali.

Intanto, l’insegnamento della lingua piemontese incontra l’ostilità dell’attuale classe politica…
L’ostilità o, nel migliore dei casi, l’indifferenza. La verità è che il piemontese non offre occasioni di carriera e di potere.