Intervista a Enrique Cabeza. Insieme con Yomaira Mendoza, ha recentemente portato a conoscenza dell’opinione pubblica europea le esperienze di una comunità afro-colombiana che ormai da venti anni cerca di tener fuori dal proprio territorio la violenza e le minacce dei latifondisti. Nel 1996 erano iniziati attacchi e massacri contro le comunità, che di conseguenza erano state costrette a fuggire e nascondersi. Nei campi di rifugio hanno cominciato a organizzarsi per ritornare, un processo organizzativo lungo e difficile dato il persistere della violenza. Nel 2006 è stata realizzata la prima Zona Humanitaria del Curvaradò.

Cominciamo con un riepilogo della vostra vicenda nel contesto dell’attuale Colombia…

Anzitutto devo dire che lo Stato colombiano, il governo attuale del presidente J.Manuel Santos, ha compiuto passi importanti nella lotta per tentare di restituire la terra ai contadini. Ma, nonostante una legge (n. 1448) per la restituzione della terra e nonostante il presidente Santos abbia collocato il caso delle Comunità di origine africana della Cuenca del Rio Curbaradó e del Rio Jiguamiandó (nel nord-ovest della Colombia) come esempio emblematico di restituzione delle terre ai legittimi abitanti… in sostanza “fuori dalla legge stessa”, un caso speciale per accelerare l’iter della 1448 che prevedeva circa dieci anni per entrare in vigore, direttamente attraverso la Corte Costituzionale con la sentenza 448… nonostante ciò, dicevo, i latifondisti colombiani, a capo di formazioni paramilitari, mantengono ancora il controllo applicando le devastanti culture intensive e l’allevamento. E, aggiungo, anche nonostante la stessa Corte Costituzionale abbia emesso ben 4 sentenze consecutive per ordinare la restituzione della terra.

Potresti riassumere quali sono state le varie direttive emesse in questi anni, in particolare dalla fine degli anni novanta e le vostre iniziative a riguardo? E quali sono le principali violazioni dei diritti umani (uccisioni, minacce…) ai danni della vostra comunità?

zona-humanitaria
Le zone umanitarie – come le undici presenti nei bacini di Curvaradò e di Jiguamiandò – sono un’istituzione tipicamente colombiana che si fonda sulla distinzione, accolta dal Diritto Internazionale Umanitario, tra civili e combattenti. I membri delimitano la propria zona e vietano l’ingresso a qualsiasi soggetto armato, legale o illegale.

Il 1997, anno nero per la nostra comunità, era quello in cui la terra avrebbe dovuto essere espropriata allontanando nel contempo la violenza dal territorio.
Invece nel “Settembre nero” di quell’anno i paramilitari e i militari costrinsero la gente a fuggire nelle periferie metropolitane o nella foresta (rifugiati interni). Poi, per obbligare le persone a firmare i documenti con cui cedevano i diritti sulla terra, i paramilitari sono andati a cercare le famiglie una per una dove si erano rifugiati costringendole con le minacce.
Da allora la situazione è rimasta sostanzialmente immutata; malgrado alla sentenza della Corte Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) si siano poi aggiunte, come dicevo, quelle della Corte costituzionale colombiana. Oltre alla prima, 448, altre quattro ( 222, AO45, 299, 112) e anche due indagini informative tecniche dell’Istituto di sviluppo rurale (INCODER). Noi avevamo denunciato le inadempienze alla Corte e la Corte aveva ordinato all’INCODER di procedere in tal senso.
Le indagini stabilirono che la terra apparteneva di diritto alle comunità e che era stata espropriata illegalmente usando la violenza. Ancora oggi risultano come proprietari gli stessi comandanti delle milizie paramilitari responsabili della dura repressione contro le comunità. Sempre dalle indagini, emerse come quelle terre venissero utilizzate principalmente per l’allevamento estensivo e per la coltivazione della palma da olio, una monocultura devastante per l’ambiente e la biodiversità. Noi invece prima coltivavamo una grande varietà di piante: riso, platano, mais, yucca, in forma tradizionale, ancestrale, e vivendo di questo. Dietro gli attuali proprietari c’è anche Vicente Castaño, già noto come comandante di una formazione paramilitare.
Tra il 2004 e il 2005 la nostra comunità (circa 10mila famiglie) ha deciso di rientrare in modo organizzato nella propria terra e ci siamo costituiti in “zone umanitarie e di biodiversità”, luoghi esclusivamente per la popolazione civile fuori dal conflitto che dilania e insanguina la Colombia. Abbiamo ritrovato un contesto irriconoscibile con coltivazioni di palma da olio e allevamento estensivo. Il titolo collettivo che ci è stato titolato è di 100mila ettari di terra; ora ci ritroviamo in due “zone umanitarie” di circa 40 ettari, questo è quanto ci siamo ripresi. Siamo letteralmente circondati da allevamenti e coltivazioni di palma. Abbiamo tagliato le palme su questa nostra piccola porzione e ripreso le nostra coltivazioni tradizionali. Tra il 2004 e il 2005 sono stati assassinati alcuni esponenti delle comunità che si erano impegnati per la restituzione delle terra. Tra gli altri, Walberto Hoyos della comunità Caño Manso che si era opposto all’ex colonello dell’esercito Luis Felipe Molano. Nella comunità di Apartadocito – El Serrao vennero assassinati Jose Eustoquio Rojas. Argenito Diaz, Manuel Ruiz, Samir Ruiz di 15 anni (nel 2012, durante un’investigazione di INCODER). Nell’assoluta, totale impunità.
Il 24 gennaio 2014, la Procura ordinò la riesumazione a Llano Rico di due cadaveri di persone assassinate ancora nel 1997 (nello stesso anno ne vennero uccise circa 7mila in un solo dipartimento) e ricevette la denuncia per l’omicidio di José Eustoquio (assassinato nel 2007). Contemporaneamente ricevette anche la denuncia per le minacce di morte da parte degli allevatori contro i membri della comunità (vedi il caso della famiglia Urango-Mendoza). La comunità ha dimostrato giuridicamente che la terra le appartiene poiché le venne data a titolo collettivo nel 2000 e in base a una legge (la 70/1993 per le comunità afro-colombiane) che ne riconosce i diritti alla terra. Militari, paramilitari e latifondisti, allevatori e coltivatori di palme da olio e banane, si unirono per sviluppare ulteriormente i loro progetti di arricchimento con la grande monocultura al prezzo di sangue e sofferenza per le comunità.

Chi sono altri tra i maggiori responsabili di queste prevaricazioni? Cosa è accaduto in seguito?

Tra gli impresari, latifondisti e a capo di milizie paramilitari, Ramiro Quintero, l’allevatore Ramirez Castaño e l’allevatore e bananero Dario Montoya. A partire da questo momento iniziarono le minacce telefoniche e i tentativi di assassinare gli esponenti della comunità che si erano mobilitati per reclamare il diritto alla terra.

L’anno scorso, mi pare di capire, gli avvenimenti hanno subìto un’accelerazione, almeno per quanto vi riguarda…

Dopo l’uccisione del marito e del fratello, Yomaira Mendoza si era rifugiata in una “zona umanitaria” di Caño Manso. Dal 26 gennaio 2014 si sono attivate le PBI (Brigate Internazionali di Pace) per sostenerci, accompagnarci, proteggerci. Nel marzo 2014 sono arrivati anche alcuni giornalisti europei da Londra e da Dublino per intervistare Yomaira, che ha denunciato quanto stava accadendo. Subito dopo sono riprese le minacce. Per telefono le dicevano cosa le sarebbe accaduto (“Non ti ricordi cosa è capitato a tuo marito?”) e nella notte entrarono in casa per ucciderla. Questo, va precisato, anche all’interno della “zona umanitaria” in teoria protetta dall’esercito colombiano. Dopo alcune telefonate di minaccia mi aveva telefonato mentre mi trovavo a Medellin. Io le consigliai di andare a dormire altrove. Il giorno dopo, ritornata a casa, trovò la porta forzata e un esplicito messaggio: “ Perché non ci hai aspettato?”
Da quel momento cambiammo “zona umanitaria” spostandoci in quella di Camelias. Qui sono poi venuti per incontrarci gli ambasciatori di Norvegia e Francia (5 e 6 marzo 2014). Subito dopo, la notte del 6 marzo, arrivarono nuovamente i paramilitari per uccidere Yomaira, nonostante la presenza poco lontano (circa 200 metri) dell’esercito. Inevitabile pensare che sostanzialmente siano d’accordo. A questo punto ci siamo rifugiati a Llano Rico (20 maggio 2014) dove ci sono stati altri tentativi di omicidio. Un giorno io, Enrique Cabeza, stavo lavorando con la comunità nella “zona di biodiversità del Paraiso”. Alle cinque di sera arrivarono in casa mia 12 soldati, e l’uomo incaricato della mia scorta disse: “Ci sono i soldati, allora posso stare tranquillo e me ne torno a dormire a casa mia”. Una coincidenza? Erano d’accordo? Non saprei… Per maggior sicurezza, visto che la mia scorta non si fermava per la notte, sono andato a dormire a Llano Rico. Avevo intuito che qualcosa non andava. Più tardi, ero già andato a dormire, mio padre ricevette una telefonata con cui lo informavano che io ero stato ammazzato.
Mio padre telefonò allora a mio fratello che dormiva nella stanza vicino alla mia e che mi avvisò. consentendomi di scappare dal retro mentre qualcuno stava già entrando in casa. Allora telefonai alle due scorte (la mia e quella di Yomaira) che chiamarono il ministero e le PBI (esistono dei protocolli di sicurezza per i casi di emergenza). Da Bogotà mi dissero di andare dove ci sono i soldati, in una base militare. Allora io dichiarai che “se mi succede qualcosa vuol dire che sono stati i militari”. Il giorno dopo, accompagnati dalla polizia, ci siamo recati all’aereoporto per Bogotà. Da segnalare un fatto inquietante. Persino sull’aereo c’era un paramilitare, che ci seguì viaggiando con noi e riprendendoci in un video. Intanto arrivavano altre minacce di morte contro i miei genitori e i figli di Yomaira.
Il 16 luglio 2014, alle sei di sera, suonarono il campanello e chiamarono Yomaira al cellulare mentre era in casa. Qualcuno disse di essere mio amico e che lo avevo mandato io. Affacciandosi dal secondo piano, lei vide quattro persone armate di pistola, due alla porta e due in motocicletta. Per telefono le dissi di nascondersi, ché stavo arrivando con la scorta. A questo punto ci fermò la polizia che poi venne con noi, ma i quattro armati erano già scappati. Arrivò poi un altro messaggio a Yomaira per telefono: “Io posso dirti chi ha ammazzato tuo marito e quanto è stato pagato”. Per la cronaca, la cifra era l’equivalente in pesos colombiani di circa 170 euro e il sicario venne a sua volta eliminato per non lasciare testimoni.

Dicevi che la data stabilita a norma di legge per la restituzione della terra alla comunità era il 24 novembre 2014. Cosa è accaduto invece?

L’11 novembre uscì un articolo sul quotidiano “El espectador” in cui si leggeva che a Ramirez Castaño e a un altro latifondista, Echeverri, si era “spezzato il cuore” perché stava per arrivare la polizia per cacciarli dalla terra ottenuta con tanti sacrifici. Immediatamente, singolare coincidenza, l’allontanamento venne sospeso (sebbene l’occupazione della terra da parte di questi signori fosse del tutto illegale). Inoltre, proprio il 24 novembre, i paramilitari dalle quattro del pomeriggio fino alla mattina successiva sequestrarono il figlio quindicenne di Yomaira, chiedendogli dove si trovavano sua madre ed Enrique.Lo stesso giorno minacciarono anche mio padre. Il 3 gennaio 2015 anche l’altro figlio di Yoamaira, 18 anni, venne minacciato. Gli inviarono via Skype l’immagine di un teschio e di fiori… chiedendogli dov’erano Enrique e Yomaira. Per finire, il 7 gennaio 2015, il latifondista Lopera ha fatto tagliare la rete della mia coltivazione mandando dentro il suo bestiame.

Potresti spiegare come è cominciata e come si qualifica la vostra alternativa nonviolenta in un contesto come quello colombiano? Come si differenzia da altre forme di ribellione alle evidenti ingiustizie sociali?

L’alternativa nonviolenta nasce come necessità per riavere la terra che ci venne strappata e per mostrare alla Stato che noi non siamo insorti. Quella sarebbe la scusa poi usata per diperderci trasformarci in profughi interni (desplazados) per mano di paramilitari ed esercito. Ancora negli anni settanta vennero alcuni esperti della Banacol ad analizzare le nostre terre per verificare se fossero adatte alle coltivazioni intensive per banane e palma africana. Presero dei campioni e tornarono dopo quindici giorni chiedendoci di vendere la terra. Ovviamente la gente rispose di no. Cominciarono allora a minacciare dicendo: “Se non la vendi tu, me la venderà la tua vedova…”.

Ricordiamo che il direttore della Banacol è ora proprietario un’azienda di palma da olio (“Palma de Curbaradó”).

Curvaradò