Continua a soffiare forte il vento di nuove informazioni che regolarmente giunge dal Sud America in merito alla delicata questione mapuche: negli ultimi mesi sono stati diversi gli aggiornamenti e gli sviluppi, spesso legati a tristi fatti di cronaca, che hanno visto protagonisti membri del “popolo della terra”, i bistrattati mapuche, antico gruppo amerindo spodestato con la forza dai propri luoghi ancestrali e relegato oggigiorno solamente in alcune aree dell’Araucania e della Patagonia, tra Cile e Argentina.
A partire dal secolo XIX, i governi centrali di entrambi gli Stati hanno dapprima sottomesso e poi incorporato e colonizzato i territori originari dei mapuche, usurpandone risorse, diritti e tradizioni: da allora i superstiti hanno dato vita a una tenace opposizione tradottasi negli anni in una vera e propria lotta impostata su incontri, manifestazioni, creazione di organizzazioni locali volte a contrastare le ingerenze e violenze del potere statale. Questi eventi hanno portato a coniare l’espressione “conflitto mapuche”, che negli ultimi decenni si è caratterizzato per una catena di azioni-reazioni, segnato anche da episodi piuttosto gravi quali scontri, carcerazioni preventive e uccisioni.
La rivendicazione mapuche teoricamente mirerebbe a riottenere la completa sovranità sulle terre dei padri; vista l’evidente difficoltà, l’obiettivo minimo è quanto meno il riconoscimento della propria identità culturale e il risarcimento per il genocidio troppo a lungo perpetrato. In questo contesto di perenne tensione si sono inseriti alcuni episodi che hanno alimentato ancor più la già innescata miscela esplosiva. Lo scorso novembre in Cile è stato vigliaccamente ucciso Camilo Catrillanca, 24enne della comunità di Temucuicui a Ercilla, nel cuore dell’Araucania: il ragazzo è stato raggiunto da un proiettile alla nuca mentre, tornando dal lavoro nei campi, si trovava alla guida del suo trattore. Nonostante il ministro dell’Interno, Andrew Chadwick, si sia immediatamente affrettato a sminuire l’episodio definendolo un fatto di delinquenza comune per nulla connesso al conflitto mapuche, la realtà è ben diversa: Camilo era in prima linea nella causa indigena nonché nipote di Juan Segundo Catrillanca, lonko della comunità e figlio di Marcelo, storico attivista per i diritti dei mapuche. 1) La sua tragica fine non è dovuta allo sfortunato esito di uno scontro a fuoco all’interno di un’operazione su alcuni veicoli rubati nella zona – come si è tentato di liquidare fin dall’inizio – bensì a un’esecuzione mirata e condotta a sangue freddo dal corpo antiterrorista dei carabinieri.

conflitto mapuche
Proteste in seguito all’omicidio Catrillanca.

Stiamo parlando del famigerato Comando Jungla, un gruppo speciale più o meno segretamente addestrato in Colombia e mandato in Araucania dal presidente Sebastian Pinera grazie alla brutale applicazione della ley antiterrorista, che ha reso possibile la militarizzazione della regione volta a tenere sotto controllo con ogni mezzo la resistenza mapuche e che, criminalizzando gli indigeni, garantisce notevole libertà d’azione al reparto speciale e sostanziale impunità. Lo stesso Pinera ha provato a negare più volte l’esistenza del commando, sebbene sia chiaro a tutti che la verità è un’altra e che l’assassinio di Catrillanca vada aggiunto alla lunga catena di morti – tra i quali Alex Lemum, Matias Catrileo e Mendoza Collio – collegata al progetto governativo di tacitare la comunità mapuche.
L’omicidio ha fatto esplodere una serie di proteste contro il governo tanto nelle comunità rurali quanto nelle realtà urbane come Santiago, con i protagonisti che hanno fatto sentire forte la propria voce chiedendo chiarezza nelle indagini e rivendicando ancora una volta il sacrosanto diritto di riottenere le loro terre, oltre 5 milioni di ettari sottratti dall’autorità centrale e spesso rivenduti a peso d’oro alle multinazionali senza scrupoli.
Altri abusi si sono verificati a febbraio in Argentina quando, in seguito a proteste degli indigeni, le autorità hanno messo in atto una cruenta repressione procedendo all’arresto indiscriminato di anziani, donne e bambini. Ma l’episodio più grave è avvenuto negli stessi giorni in Cile dove altri due giovani mapuche hanno perso la vita. L’ennesima tragedia ha avuto luogo nella regione di Pidima, anch’essa in pieno stato d’emergenza con l’occupazione militare, e si è dimostrata un nuovo atto di violenza intimidatoria nei confronti della comunità locale: i fratelli Loncomilla, figli del lonko Jose Cariqueo Saravia, sono stati feriti mortalmente alla testa da colpi di arma da fuoco in circostanze ancora tutte da chiarire. Alcune ipotesi investigative suggeriscono che il responsabile sia il proprietario di un podere conteso con la comunità mapuche, appartenente alla cerchia di latifondisti della zona che ha esercitato pressioni per la mobilitazione di carabinieri e militari per attuare una ferrea repressione. Le indagini non sono semplici e il clima politico dell’area si è così incendiato ulteriormente. L’eco delle proteste si è fatta sentire fino in Argentina dove, due giorni dopo i fatti cileni, la polizia ha duramente sedato una protesta di mapuche appartenenti alla comunità di San Martin, nella provincia di Salta presso la regione di Tartagal.
Sempre dall’Argentina, nel mese di marzo è giunta una buona quanto insperata notizia: la completa assoluzione di cinque membri della comunità mapuche Pu Lof Cushamen, situata nella provincia del Chubut in Patagonia, accusati e processati per usurpazione e furto di bestiame. I cinque ragazzi erano stati denunciati anche per occupazione di proprietà dalla Compagnia de Tierras de Sur Argentina, della famiglia Benetton. La sentenza rappresenta sicuramente un durissimo colpo nei confronti delle disumane politiche predatrici del governo centrale, da sempre alla mercé dei grandi proprietari terrieri ai quali vengono garantite leggi protettive dei loro interessi e forze repressive.

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Manifestazione mapuche repressa dalla polizia.

La comunità mapuche ha ritenuto la sentenza un precedente storico per la sua importanza, dal momento che nelle motivazioni il giudice ha esplicitamente fatto riferimento al conflitto mapuche come reale conflitto politico e non solamente giudiziario, suggerendo l’apertura di un dialogo tra tutti i soggetti coinvolti. Inoltre è stato menzionato il genocidio attuato nei confronti dei popoli nativi i quali hanno il diritto di recuperare i propri luoghi ritrovando la libertà. Infine il giudice ha intimato di aprire nuovi fascicoli e disporre indagini in merito alle diverse misure giudiziarie intraprese per processare e criminalizzare indistintamente gli indigeni.
La rilevanza di questa sentenza assume anche un valore simbolico in riferimento alla particolare comunità di Pu Lof, la stessa di cui faceva parte Santiago Maldonado, giovane attivista locale “desaparecido” nel 2017 e poi trovato cadavere dopo 78 giorni di ricerche nel letto del fiume Chubut, morto per affogamento. A oggi vi sono davvero poche certezze sulla drammatica fine di Maldonado; di sicuro si spera che questa sentenza possa essere un ulteriore monito per la ricerca della verità.
Il 3 aprile, la comunità mapuche cilena ha organizzato una marcia nella città di Temuco alla quale hanno preso parte 2000 persone. La manifestazione – come hanno fatto sapere le autorità nazionali – non era autorizzata ed è stata così repressa con la forza, dando vita ai consueti soprusi dai quali un gruppo di indigeni ha provato a difendersi con bastoni e pietre. I mapuche hanno dichiarato di aver voluto manifestare pacificamente come sancito dalla Costituzione e avvertito che, se la situazione non dovesse migliorare, inizieranno a ignorare volutamente lo Stato cileno, lo stesso che ha da sempre calpestato i loro diritti, dapprima soggiogandoli per poi rapinarli delle proprie terre. Le richieste in seno alla protesta sono sempre le stesse: smilitarizzazione dell’Araucania e difesa, in conformità con il diritto internazionale, della libertà di autodeterminazione di ogni popolo. La situazione generale dei mapuche, sia in Cile sia in Argentina, risulta infatti sempre più precaria: l’applicazione della ley antiterrorista, oltre a considerare ingiustamente l’etnia stessa come un’organizzazione terroristica, ha prodotto in questi anni discriminazioni e repressioni sotto forma di carcerazioni preventive, violenze gratuite e uccisioni ingiustificate: sono più di 20 gli individui di origine mapuche assassinati dal 2008, un numero impressionante. È ora che questo nuovo sterminio volga al termine.
Un altro tema caro alle proteste autoctone è sicuramente quello ambientale: in Araucania gli indigeni stanno lottando contro il disboscamento forsennato, condotto da multinazionali che abbattono le specie locali piantando alberi non autoctoni per produrre carta. Quasi tutto il sud del Cile è interessato da questo fenomeno. Le imprese forestali hanno volutamente modificato la geomorfologia della regione introducendo alberi non endemici come il pino e l’eucalipto per la ottenere cellulosa: essi costituiscono le specie più dannose in quanto richiedono un’enorme quantità d’acqua, che viene di conseguenza prelevata in loco fino a prosciugare le falde delle comunità locali. Tutte queste operazioni comportano un grave danno ambientale per la biodiversità dell’area e provocano ulteriori problemi ai mapuche. Lo scempio è reso possibile dalla legge forestale 701, eredità del regime dittatoriale di Pinochet. L’industria forestale è dominata da due gruppi economici, Matte e Angelini: entrambi controllano circa il 70% del suolo coltivabile nella zona, e questo grazie agli anni della dittatura durante i quali hanno ricevuto terre gratuite e notevoli sovvenzioni statali. La polizia controlla quotidianamente il territorio in modo che il disboscamento non venga ostacolato dalle genti mapuche.
Il prosciugamento delle falde acquifere rappresenta un problema serio in quanto le coltivazioni, principale mezzo di sostentamento delle famiglie locali, necessitano di acqua ogni giorno. L’Araucania deve così affrontare anche la scarsità d’acqua che, unita al cambiamento climatico alimentato dal disboscamento sfrenato, crea siccità in una regione dove le estati arrivano a superare i 35 °C. Il problema ambientale costituisce un’altra colpa del governo che pesa come un macigno, una volta di più, sulle oppresse teste dei mapuche.

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Donne mapuche protestano contro il governo cileno.

L’assassinio di Catrillanca ha fomentato ingenti proteste con mobilitazioni in più di trenta città, a Santiago dove hanno partecipato centinaia di persone come nelle campagne, e in alcune località sono andate avanti per due settimane: è il segnale che la questione mapuche è fortemente sentita, viva e anche organizzata. Una parte della popolazione cilena ha comunque espresso solidarietà nei confronti della comunità indigena, sentimento che invece manca del tutto alle autorità le quali non accennano a fare il minimo passo indietro in questa secolare battaglia.
Negli ultimi anni la resistenza mapuche si è intensificata, come dicevamo, ma ha anche intrapreso nuove vie, aprendosi a forme e modalità nuove. La principale novità è il sempre più elevato coinvolgimento delle donne, che hanno istituito scuole indigene dove viene studiato il mapudungun, la lingua mapuche. Anche il microcosmo di questa etnia è in continuo fermento ed evoluzione, arricchendosi di individui “eterogenei” che occupano spazi pluriculturali misti condivisi tranquillamente con soggetti non mapuche. Questo fenomeno è testimoniato dal crescente numero di persone che stanno recuperando le tradizioni culturali mapuche anche in ambienti urbani, dove alcuni appartenenti a quartieri abitati in prevalenza dalla classe media iniziano ad avvicinarsi al mapudungun. Da sottolineare anche il ruolo emergente di forme di comunicazione e di espressione giovanili quali blog su internet e scritte sui muri, importanti realtà aggregative e identitarie che hanno permesso di allargare la base del consenso alla causa mapuche in particolare nelle città.
Esiste dunque una reale differenza, figlia dei cambiamenti in corso nella società attuale, tra le modalità di protesta dei mapuche rurali e di quelli urbani: i primi restano tendenzialmente legati all’eredità culturale arcaica, ai suoi valori e alla sua organizzazione socio-economica, e privilegiano una lotta di stampo tradizionale; i secondi presentano una mentalità più cosmopolita, sono maggiormente coinvolti nelle controversie sociali e vorrebbero un’identità mapuche decisamente più aperta alla diversità. Tuttavia, nonostante questa tangibile dicotomia socio-culturale, l’obiettivo primario della lotta politica di tutta la comunità mapuche cilena e argentina è uno e comune, ma risulta anche il più difficile: la restituzione dei territori ancestrali. Sarebbe quindi giusto che, a prescindere dai protagonisti delle proteste indigene – siano essi individui ancorati alle vecchie tradizioni e al mondo agrario oppure soggetti urbani più versatili ed elastici – l’intero popolo ritornasse in pieno possesso dei luoghi dai quali sono stati ingiustamente cacciati, in cui possano vivere non discriminati, liberi e in pace con le loro tradizioni in un contesto non militarizzato, in modo che abbiano fine una volte per tutte le innumerevoli persecuzioni e gli omicidi.

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Nel mondo di spaventapasseri immaginato dai Benetton non c’è posto per i mapuche.

 

N O T E

1) Il termine lonko (“testa” in lingua mapudungun) era utilizzato per indicare il capo delle comunità mapuche già prima dell’avvento dei coloni europei. Sotto la sua autorità vi erano quindi diverse famiglie che condividevano antenati comuni o vivevano vicine e, in caso di guerra, erano solite unirsi in gruppi più ampi. Questa reminiscenza dell’epoca precolombiana è perdurata fino ai giorni nostri.
Per approfondire la storia e cultura mapuche, si legga il dossier di Stefano Bossi I mapuche: la lotta del “popolo della terra”.