Nel mondo musulmano sunnita si è sviluppata una nuova corrente di pensiero: la pulizia etnica. Non nel senso di vero e proprio genocidio, ma dell’espulsione delle popolazioni non sunnite. La sua diffusione significa che le minoranze non sunnite avranno un triste futuro nei Paesi a maggioranza musulmana; e alcune potrebbero anche non avere alcun futuro.
Di seguito spiegherò le origini della pulizia etnica in Medio Oriente, ne descriverò le conseguenze soprattutto sui cristiani e analizzerò le possibili reazioni al fenomeno.

Le Genti del Libro

Per cominciare, esaminiamo la situazione dei non musulmani nei Paesi a maggioranza islamica prima del 1800. I musulmani dividevano gli infedeli in due categorie: i monoteisti riconosciuti dall’islam come seguaci di una fede valida (per lo più ebrei e cristiani) e i politeisti (soprattutto gli induisti), privi di tale riconoscimento. La prima categoria, quella di cui ci stiamo occupando, è nota come Genti del Libro (Ahl al-Kitab).
I musulmani erano relativamente tolleranti nei confronti delle Genti del Libro, ma solo se esse accettavano di diventare dhimmi (persone protette) riconoscendo il dominio dei musulmani e la superiorità dell’islam: in altre parole, se accettavano di essere inferiori. I dhimmi dovevano pagare tasse speciali (la jizya), non potevano servire nell’esercito o nella polizia, o più in generale non potevano esercitare alcuna autorità sui musulmani. Le leggi suntuarie abbondavano; un cristiano o ebreo doveva camminare a piedi o andare in groppa a un mulo ma non a cavallo, e per strada doveva cedere il passo ai musulmani (ovviamente l’applicazione pratica differiva da un Paese all’altro, da un’epoca all’altra.)
Lo status accordato alle minoranze religiose rese i Paesi governati dai musulmani assai diversi dal cristianesimo premoderno. I cristiani che vivevano sotto il dominio islamico godevano di condizioni di vita migliori rispetto a quelle dei musulmani sotto il dominio cristiano. Intorno al 1200 si preferiva essere un cristiano nella Spagna islamica anziché un musulmano nella Spagna cristiana. Lo stesso per gli ebrei: Mark R. Cohen osserva che “sotto l’islam, soprattutto durante i secoli formativi e classici (fino al XIII), gli ebrei subirono molto meno persecuzioni rispetto agli ebrei vissuti nel mondo cristiano”.
Ma non dobbiamo idealizzare la condizione di dhimmitudine. Sì, è vero, offriva un certo livello di tolleranza e convivenza, ma basato sul presupposto della superiorità musulmana e dell’inferiorità non musulmana. I musulmani potevano anche abusare a piacimento di questa condizione. Nessun cittadino moderno accetterebbe gli inconvenienti del vivere come dhimmi.
Di fatto, la condizione di dhimmitudine fu abolita nei tempi moderni, vale a dire dopo il 1800, quando le potenze europee (inglese, francese, olandese, spagnola, italiana, russa e altre) soverchiarono quasi tutto il mondo islamico. Perfino i pochi Paesi – Yemen, Arabia, Turchia, Iran – che sfuggirono al diretto controllo europeo avvertirono il predominio dell’Europa.
Gli imperialisti cristiani ribaltarono la dhimmitudine, favorendo i cristiani, e anche gli ebrei, i quali mostrarono una maggiore disponibilità ad accettare i nuovi governanti, a imparare le loro lingue e competenze, a lavorare per loro e a fungere da intermediari con le popolazioni a maggioranza musulmana. Ovviamente, queste mal sopportavano lo status elevato di cristiani ed ebrei.
Quando il dominio europeo raggiunse la sua inevitabile fine, i musulmani, una volta tornati al potere, rimisero le minoranze al loro posto, anzi peggio, poiché non ripristinarono la dhimmitudine che era stata abolita. Insicuri di se stessi, i nuovi governanti tendevano a guardare con astio alle Genti del Libro, arrabbiati con loro per aver servito gli imperialisti e sospettosi dei loro legami permanenti con l’Europa (e, nel caso degli ebrei, con Israele).
Si può dire che i dhimmi da cittadini di seconda classe fossero diventati di terza o quarta classe. Il crollo dell’impero ottomano fece registrare più persecuzioni di cristiani ed ebrei di quante ce ne fossero mai state prima, a cominciare dal genocidio del popolo armeno in Turchia nel primo decennio del XX secolo fino ad arrivare alle recenti infamie subite dai cristiani in Iraq e in Siria.

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Una chiesa copta distrutta e bruciata nella provincia egiziana di Minya, nel 2013. In quel periodo elementi della Fratellanza Musulmana e simpatizzanti di Morsi distrussero una cinquantiìna di chiese copte, cattoliche e protestanti.

Dopo il Sabato viene Domenica

Prima di continuare con l’esperienza cristiana, soffermiamoci brevemente su quella ebraica. Le antiche comunità giudaiche scomparvero in seguito alla fine dello status di dhimmitudine e la creazione dello Stato di Israele nel 1948. Gli ebrei se ne andarono o furono cacciati soprattutto nei venti anni successivi alla seconda guerra mondiale. La piccola ma vivace comunità giudaica dell’Algeria offre forse l’esempio più lampante dei cambiamenti post-imperiali. Gli ebrei residenti in quel Paese erano talmente legati al governo di Parigi che l’intera comunità lasciò l’Algeria nel luglio 1962 insieme ai governanti francesi.
Nel 1945, la popolazione ebraica nei Paesi a maggioranza musulmana contava circa un milione di persone; oggi oscilla tra le 30 e le 40mila, quasi tutte residenti in Iran, Turchia e Marocco. Pochissimi vivono altrove: in Egitto ci saranno forse 60 ebrei, 9 in Iraq e ancor meno in Afghanistan. Queste sparute comunità di anziani scompariranno nel giro di pochi anni.
Si dice: “Prima il popolo del Sabato poi il popolo della Domenica”. Adesso è il turno dei cristiani. Che stanno ripercorrendo l’esodo ebraico. Dal 1500 al 1900, i cristiani costituivano un buon 15 per cento della popolazione mediorientale, secondo David B. Barrett e Todd M. Johnson. Nel 1910, questa percentuale era scesa al 13,6 per cento, secondo Todd M. Johnson e Gina A. Zurlo; e nel 2010, i cristiani si erano ridotti a un misero 4,2 per cento, ossia meno di un terzo rispetto a un secolo prima. Ovviamente, la tendenza al ribasso continua rapidamente.
Come afferma il giornalista Lee Smith: “Essere cristiani in Medio Oriente non è mai stato facile, ma l’ondata di tumulti che ha investito la regione in quest’ultimo anno ha reso quasi insopportabile la situazione per la minoranza cristiana della regione”. Gli esempi sono allarmanti e per molti versi senza precedenti nella lunga storia dei rapporti tra cristiani e musulmani. Eccone alcuni (per i quali ringrazio Raymond Ibrahim):

  • In Nigeria, il gruppo islamista Boko Haram ha ucciso nel 2010 almeno 510 persone, soprattutto cristiani, incendiando o distruggendo più di 350 chiese in dieci stati nel nord del Paese.
  • In Uganda, la vigilia di Natale del 2011, i musulmani hanno gettato acido in faccia a un pastore di una chiesa provocandogli gravi ustioni.
  • In Iran, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione in una chiesa dove si stava celebrando il Natale e tutti i presenti, compresi i bambini della scuola domenicale, sono stati arrestati e interrogati.
  • In Tajikistan, un giovane vestito da Babbo Natale è stato accoltellato a morte mentre visitava i parenti e portava doni.
  • In Malesia, i parroci e gli insegnanti delle chiese hanno dovuto ottenere il permesso per cantare le carole natalizie, fornendo le loro generalità e i numeri delle carte d’identità alle stazioni di polizia.
  • In Indonesia, “vandali” hanno decapitato una statua della Vergine Maria.

Il messaggio è chiaro: “Cristiani, non siete i benvenuti. Andatevene”.
I cristiani hanno risposto lasciando il Medio Oriente in tutta fretta, al punto che la fede sta morendo proprio nel suo luogo di nascita. In Turchia, la popolazione cristiana contava 2 milioni di fedeli nel 1920, ma ora ne resta qualche migliaio. In Iraq, il Christian Solidarity International ha scoperto nel 2007 che circa la metà del milione di cristiani che vivevano lì fino a pochi anni prima era fuggita dal Paese. Forte il grido dell’Iraqi Christian Relief Council: “Siamo in via di estinzione”. In Siria, all’inizio del secolo scorso, i cristiani rappresentavano circa un terzo della popolazione, oggi sono meno del 10 per cento. In Libano, la percentuale è passata dal 55 per cento di 70 anni fa a meno del 30 per cento odierno. I copti se ne stanno andando come mai era successo nella loro lunga storia.
In Terra Santa, i cristiani costituivano il 10 per cento della popolazione nel periodo ottomano; quella cifra è scesa oggi intorno al 2 per cento. Betlemme e Nazareth, praticamente sinonimi di cristianesimo, per quasi due millenni sono state a maggioranza cristiana ma ora non più: adesso sono città a maggioranza islamica. A Gerusalemme, nel 1922, i cristiani erano più numerosi dei musulmani; oggi i cristiani sono appena il 2 per cento della popolazione cittadina. Nonostante questa emigrazione, Khaled Abu Toameh, un giornalista palestinese musulmano, osserva che “Israele rimane l’unico posto in Medio Oriente dove i cristiani arabi si sentono protetti e al sicuro”.
Secondo il “Wall Street Journal”, oggigiorno “sono più numerosi i cristiani arabi che vivono al di fuori del Medio Oriente di quelli rimasti nella regione. Circa venti milioni vivono all’estero, contro i 15 milioni di cristiani arabi che rimangono nel Medio Oriente, secondo un rapporto dell’anno scorso di tre associazioni cristiane e dell’università di East London”. Citando Samuel Tadros dello Hudson Institute, il quotidiano rileva che il numero delle chiese copte negli Stati Uniti è passato da 2 nel 1971 a 252 nel 2017.
I cristiani d’Oriente stanno affrontando questa crisi in vari modi. Ne esaminerò tre.

Melchiti

I cattolici melchiti, presenti soprattutto in Libano e in Siria, hanno cercato di evitare problemi dicendo ai musulmani esattamente ciò che vogliono sentirsi dire. Il patriarca Gregorio III Laham di Antiochia dichiarò in modo clamoroso nel 2005:

Noi siamo la Chiesa dell’islam. (…) L’islam è il nostro ambiente, il contesto in cui viviamo e con cui siamo storicamente solidali. (…) Capiamo l’islam dall’interno. Quando sento un versetto del Corano, per me non si tratta di una cosa estranea. È un’espressione della civiltà cui appartengo.

Gregorio III accusava l’Occidente per l’islamismo: “Il fondamentalismo è una malattia che si scatena e prende piede davanti al vuoto della modernità occidentale”. Analogamente, il patriarca di Antiochia nel 2010 accusò Israele degli attacchi jihadisti ai cristiani d’Oriente: la violenza

non ha niente a che fare con l’islam. (…) Ma in realtà è un complotto ordito dal sionismo e da alcuni cristiani con orientamenti sionisti e mira a minare l’islam e a darne una cattiva immagine. (…) È anche un complotto contro gli arabi (…) per negare loro i diritti e soprattutto quelli dei palestinesi.

Nel 2011 Gregorio III aggiungeva che il conflitto arabo-israeliano è “l’unico” motivo dell’emigrazione dei cristiani orientali dal Medio Oriente e questo sta causando la loro “estinzione demografica”.
L’approccio del patriarca di Antiochia equivale a dire: musulmani, per favore, non fateci del male; diremo tutto ciò che volete. Non abbiamo una nostra identità. Siamo, di fatto, una specie di musulmani. È una supplica dhimmi per l’era post-dhimmi.

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Gregorio III Laham di Antiochia.

Maroniti

I maroniti storicamente hanno offerto l’esempio più eclatante di contrapposizione a questa autodenigrazione. Per ragioni teologiche (la chiesa cattolica) e geografiche (le montagne), essi rappresentavano la comunità cristiana più assertiva e libera del Medio Oriente. Armati e autonomi, mantennero a distanza i signori islamici.
Nel 1926 indussero una potenza imperiale, la Francia, a creare uno Stato – il Libano – per loro. Ma i maroniti erano avidi: anziché accettare un “Piccolo Libano” dove insieme con altri cristiani avrebbero costituito l’80 per cento della popolazione, chiesero e ottennero un “Grande Libano” in cui costituirono meno del 40 per cento della popolazione totale. Cinquant’anni dopo, nel 1976, i maroniti pagarono il prezzo di questa pretesa allorché i musulmani scatenarono una guerra civile che durò quindici anni e distrusse il potere maronita.
I maroniti reagirono accusandosi a vicenda. Se alcune fazioni continuarono a essere ribelli, la più importante divenne simile ai melchiti. Nel 1991, l’ex generale Michel Aoun affrontò i siriani; oggi, adula Hezbollah e serve la jihad. Ossrva Lee Smith:

I maroniti si erano sempre distinti per essere una delle sètte religiose più ostinatamente indipendenti della regione. Ma la paura, il risentimento e la miopia politica li hanno spinti a cercare protezione e appoggio presso gli elementi più pericolosi e retrogradi del Medio Oriente: la Siria, l’Iran e Hezbollah.

In breve, i maroniti sono passati dall’essere dei cristiani liberi a dhimmi parziali.

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Ragazze in costume tradizionale maronita. Ma si tratta di una comunità di fuorusciti a Nicosia, Cipro.

Copti

Dalla conquista islamica, circa quattordici secoli fa, i copti egiziani hanno intrapreso un cammino quasi opposto a quello maronita. La loro geografia (un territorio piatto), la loro storia (un forte governo centrale) e la loro società (mescolata ai musulmani) erano sfavorevoli a un potere indipendente, costringendoli a chinare il capo. Accettando pienamente la dhimmitudine, i copti sopravvissero e riuscirono a resistere all’islamizzazione meglio di quanto fecero molti altri cristiani d’Oriente, come attestano i loro numeri relativamente elevati.
L’epoca coloniale offrì loro un ruolo più importante che sfruttarono prontamente, come dimostra il nonno dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, che fu primo ministro dell’Egitto dal 1908 al 1910. Questa parentesi di potere terminò con la partenza degli inglesi negli anni Cinquanta.
A partire dal 1980, ebbero luogo due sviluppi paralleli. Da un lato, gli islamisti presero sistematicamente di mira i copti, praticando varie forme di coercizione e violenza contro di loro, spalleggiati dal governo egiziano (che di regola privilegia le ottime relazioni con gli islamisti rispetto alla protezione della sua minoranza cristiana). I cristiani divennero oggetto di una specie di partita politica: per esempio, Hosni Mubarak fece il doppio gioco, fingendo di essere il protettore dei copti mentre era tutt’altro.
In compenso i copti, dopo secoli di quasi-silenzio, hanno ritrovato la voce. Si sono organizzati per difendersi, per parlare apertamente del loro dramma e guidare le proteste quando un presidente egiziano si è recato in visita a Washington. Malgrado una lunga tradizione di quiescenza, i copti stanno diventando i nuovi maroniti.

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Gli egiziani appartenenti alla chiesa copta ortodossa sono una decina di milioni.

Prospettive?

Nonostante le diverse risposte – ultra-dhimmi, dhimmi, reattiva – il futuro del cristianesimo in Medio Oriente appare plumbeo. Da parte dei musulmani, l’accettazione dello stato di dhimmitudine ha lasciato il posto a un fugace miglioramento, seguito da un’inclinazione alla pulizia etnica.
Si sente molto parlare dell’odio e della paura per l’islam, che ora chiamano “islamofobia”. Ma secondo Ayaan Hirsi Ali, ex musulmana ed ex parlamentare olandese, il vero problema è tutt’altro: è la cristofobia.

Una valutazione imparziale degli eventi e delle tendenze recenti porta alla conclusione che l’entità e la gravità dell’islamofobia impallidiscono rispetto alla sanguinosa cristofobia che attualmente impazza nei Paesi a maggioranza musulmana da un capo all’altro del globo. Il complotto del silenzio che circonda questa violenta espressione di intolleranza religiosa deve cessare. È in gioco nientemeno che il destino del cristianesimo, e in definitiva di tutte le minoranze religiose.

La pulizia etnica nei confronti degli ebrei e dei cristiani segna la fine di un’èra. L’affascinante multiformità della vita mediorientale viene ridotta alla piatta monotonia di un’unica religione e di una manciata di minoranze assediate. L’intera regione, non solo le minoranze, è impoverita da questa tendenza.
Cosa possono fare gli occidentali per risolvere questo problema?
Esistono soltanto due opzioni: proteggere i non musulmani – cristiani e altri – in modo che continuino a vivere nei Paesi a maggioranza islamica, oppure aiutarli ad andarsene, rinunciando alle loro storiche patrie.
La prima opzione è ovviamente preferibile, avendo i cristiani il diritto inalienabile di restare nelle loro terre. Ma in che modo gli occidentali possono aiutarli a raggiungere l’obiettivo? Servirebbero sia la loro volontà di farlo, sia una propensione da parte dei musulmani al cambiamento. Ma nessuna delle due ipotesi appare realistica, in prospettiva. Soprattutto quando sono in gioco i diritti umani degli altri, i governi democratici da soli non possono prendere delle decisioni: hanno bisogno del sostegno popolare. Al momento gli occidentali sembrano riluttanti a prendere i provvedimenti necessari – come la pressione economica e militare – per garantire la sopravvivenza in loco del cristianesimo mediorientale.
Il che ci lascia l’alternativa meno allettante: aiutare i cristiani ad andarsene e accoglierli. L’emigrazione è un’esperienza dolorosa in sé, e le democrazie avranno difficoltà a formulare politiche che diano priorità ai fedeli di determinate religioni. Indipendentemente da questi e altri aspetti negativi, la migrazione è un’opzione reale, che si sta manifestando quotidianamente. E i cristiani d’Oriente scompaiono così, sotto i nostri occhi, dalle loro antiche terre natali.

 

23 gennaio 2018 – www.danielpipes.org
traduzione di Angelita La Spada