E dopo il terremoto, la sostituzione etnica?

Tra gli effetti collaterali del terremoto del 6 febbraio esiste anche quello di un possibile “cambiamento demografico” (leggi: sostituzione etnica) nelle regioni maggiormente colpite. Fino al momento del sisma abitate prevalentemente da curdi di confessione alawita.
Preoccupanti le prospettive, per esempio, per le popolazioni curde alawite di Pazarcik e di Elbistan (provincia di Kahramanmaras/Gurgum), già fortunosamente sopravvissute ai pogrom degli anni settanta, in particolare nel dicembre del 1978, quando oltre un migliaio di loro vennero brutalmente ammazzati e molti altri costretti alla fuga, disperdendosi in altre regioni della Turchia e in Europa.
Ora in qualche modo Ankara sembra volerci riprovare, avendoli di fatto abbandonati a sé stessi dopo il 6 febbraio. Nella malcelata speranza che se ne vadano altrove, sradicandosi per sempre dalle terre ancestrali.
Come hanno ricordato esponenti di hdp, “l’epicentro del sisma si collocava a Maraş, regione curdo-alawita che negli anni settanta aveva già subìto l’emorragia di una massiccia emigrazione [a causa dei citati pogrom] e che ora ha perso in gran parte i mezzi di sussistenza”.
Senza dimenticare che proprio nella regione di Maraş era già stata avviata la costruzione di campi profughi per gli immigrati arabi sunniti provenienti dalla Siria. In vista di un cambio demografico (leggi sempre: sostituzione etnica, espulsione) che, a questo punto, il terremoto potrebbe aver favorito.
Il timore di un ulteriore spopolamento, oltre che dal partito democratico dei popoli (hdp), è stato espresso dalla commissione per gli affari internazionali e religiosi dell’unione delle comunità del Kurdistan (kck), rivolgendo all’opinione pubblica internazionale un appello di solidarietà con queste comunità a rischio e per evitarne la dispersione.
Analoga richiesta di vigilare sui trasferimenti più o meno forzati della popolazione quella sollevata dal centro di coordinamento di crisi di Amed (Diyarbakır, con oltre 400 vittime accertate) in una conferenza stampa nel distretto di Payas (Kayapinar). Il centro è sorto dalla collaborazione tra vari partiti (oltre a hdp, il partito democratico delle regioni, il partito della sinistra verde…) e alcune ong.
L’esponente di hdp Gülistan Atasoy ha innanzitutto ricordato e onorato le decine di migliaia di vittime del sisma e i milioni di sfollati. Per poi denunciare le “carenze causate dalla mentalità centralista del governo akp/mhp, capitalista, avido di denaro e immorale”. Precisando che se a Diyarbakir sono crollati “solo” sei edifici (ma sarebbero oltre duemila quelli danneggiati, una cinquantina quelli irrecuperabili) i morti accertati risultano ben 409. Una conferma delle criminali operazioni di speculazione edilizia già denunciate anche prima del sisma.
Tuttavia “la solidarietà del popolo è fonte di speranza, fondamentale di fronte alla visione militarista dello Stato”.
Purtroppo Diyarbakir, come tante altre città e villaggi curdi, è amministrato direttamente dal ministero degli Interni che ha sostituito arbitrariamente i sindaci e i consiglieri comunali eletti dalla popolazione. E questo, fatalmente, ha reso più complicato l’intervento dei soccorsi.
Del resto anche in questa situazione apocalittica, il governo turco (definito “vile, egoista e misantropo”) non si sarebbe preoccupato d’altro che del “mantenimento del proprio potere”.
Di sicuro non si risparmia nelle condanne ai gestori del potere l’unione delle comunità del Kurdistan. Essa sostiene che la ragione per cui molti aiuti mobilitati dopo il terremoto sono stati di fatto bloccati sarebbe “l’identità curdo-alawita delle popolazioni colpite”. Un’identità che si vorrebbe eliminare (“vista come un nemico da distruggere”). Tanto che “le distruzioni e le vittime sono viste dal governo come un’opportunità favorevole alla politica genocida già applicata in passato”.
Da parte sua il co-presidente del partito della sinistra verde, Abbas Şahin, ha voluto ricordare che c’era stato un precedente. Infatti “l’akp [il partito di Erdogan] era arrivato al potere nel 1999 dopo il terremoto con l’evidente mancanza di misure di sicurezza nella regione di Marmara”. Ma a 23 anni di distanza l’akp sembra non aver imparato la lezione, proseguendo nella nefasta opera di devastazione ambientale e di sfruttamento sia delle risorse naturali sia delle popolazioni “alla ricerca del profitto e accettando la logica del massacro, delle stragi al fine di arricchire ulteriormente una minoranza di suoi sostenitori e collaborazionisti”. Di fronte allo spettacolo di un dramma incommensurabile, “il potere politico tenta di sfuggire alle sue responsabilità con la solita politica del controllo e del consenso e definendo il sisma come la catastrofe del secolo” (e come tale imprevedibile secondo le autorità turche, aggiungiamo noi).
Ma il popolo sa “riconoscere quale sia la realtà dei fatti”.
Con la sua “politica del giorno per giorno, protesa solo alla conservazione del potere, l’akp è diventato il carnefice di decine di migliaia di persone”.
Con i ripetuti condoni e amnistie nel settore edilizio, centinaia di migliaia di abitazioni hanno ottenuto il permesso di costruzione in zone non adeguate – notoriamente ad alto rischio sismico – senza controlli e sorveglianza. Questa politica a breve termine “fondata sui profitti ha rappresentato un disastro per la nostra società”.

Sciacalli istituzionali

Dato che al peggio non c’è limite, ora si profila l’eventualità che “qualcuno” abbia l’intenzione di approfittare anche degli aiuti.
Informava il centro di coordinamento che molte forniture per gli aiuti urgenti (alimenti caldi, coperte, eccetera) erano state rese disponibili fin dal primo momento, grazie al lavoro di migliaia di volontari che si erano spinti fino ai villaggi più lontani. Da Diyarbakir erano partiti centinaia di camion stipati appunto di tali forniture d’emergenza. E invece, “lo Stato e il governo che per almeno tre giorni non si erano fatti vedere nei luoghi colpiti dal sisma, hanno cominciato a confiscare le forniture di soccorso”. Allo scopo, secondo il coordinamento di “arricchirsi”.
Con una “mentalità usurpatrice ben conosciuta dal nostro popolo”.
Per le decine di migliaia di persone le cui abitazioni sono ora inagibili, il governo ha proposto il trasferimento dalla città di Diyarbakir a quella di Antalya. Un metodo, denunciava Abbas Şahin, che “a noi fa tornare in mente la politica di reinsediamento [leggi deportazione] già sperimentata alla fondazione della Repubblica”.
Quanto alla soluzione provvisoria, una tendopoli di oltre ventimila tende “espone la popolazione, oltre che all’isolamento sociale, ai rischi sia di epidemie che di inondazioni” (sorgerebbe in prossimità del Tigri).
Ma soprattutto, osserva l’esponente di hdp Zeyyat Ceylan: “Noi dobbiamo continuare a vivere qui, nel nostro paese, qualsiasi cosa succeda. Il fatto che ci siano state cosi tante vittime è dovuto alla mancanza di precauzioni, di difese. Noi difenderemo sempre la vita sul posto. Senza il regime di amministrazione forzata, queste carenze non esisterebbero.Le comunità amministrate con la forza non sono in grado di risollevarsi autonomamente”.
Per cui appare evidente che “lo Stato turco ha fallito nella sua missione”.
In compenso la solidarietà a Diyarbakir è una realtà concreta, “costruita nel corso di 50 anni di lotte. Il nostro rimedio è il nostro popolo. Prendiamoci cura gli uni degli altri, uniamo le nostre mani nella solidarietà”, concludeva Zeyyat Ceylan.
Per continuare a vivere nella propria terra senza mai rinunciare alla propria identità.