Il nuovo libro dello storico Giorgio Fabre, Il Gran Consiglio contro gli ebrei, è basato su documenti inediti che rivelano il volto antiebraico di un personaggio come Italo Balbo, fino a oggi gabellato di frequente come ostile o almeno impotente di fronte ai famigerati “provvedimenti per la difesa della razza” del regime.
Pubblicato dall’editore “Il Mulino”, lo studio di Fabre parte dall’acquisizione dall’Archivio Centrale dello Stato di un ciclostilato preparato personalmente da Mussolini come base di dibattito per la riunione dei gerarchi del 6 e 7 ottobre 1938, che in un incontro a Palazzo Venezia davano valore giuridico (si fa per dire) alla forsennata campagna antisemita voluta dal duce, in perfetta continuità con i sentimenti razzisti profondamente nutriti dal dittatore e già evidenziati in altri libri di Favre (Mussolini razzista, Garzanti, 2005).

Basandosi sul testo del Capo, i principali uomini del regime discussero, annotarono e stabilirono le norme discriminatorie da imporre; talvolta lasciando tracce scritte dei loro suggerimenti, nessuno in reale contrasto con le linee volute da un Mussolini ormai deciso a emarginare gli italiani d’origine ebraica e mettendoli ai margini della vita civile.
E tutti i presenti sottoscrissero le regole della vergogna.
Compresi il silente “salvatore della patria”, Grandi, che nel 1943 in un altro convulso Gran Consiglio apriva la strada alla cacciata di Mussolini, e il “quadrumviro” manganellatore sconfitto dagli Arditi del Popolo a Parma, il ferrarese Italo Balbo.
Grazie allo studio di Fabre, sappiamo ora con certezza che Balbo contribuì personalmente alla stesura definitiva del testo del provvedimento.  
Perciò sono frutto di fantasia le dicerie che Balbo “non perdonò al duce le leggi razziali”, frottole messe in giro negli anni sessanta da un suo uomo di fiducia su un “settimanale per soli uomini” e subito prese sul serio da una storiografia cortigiana, assolutoria d’un personaggio che è stato eroicizzato ed esaltato come campione del genio italico per le sue trasvolate atlantiche.
E, a parer mio, non hanno tutti i torti gli americani che non amano vedere ancora nel parco di Chicago la colonna offerta da Mussolini per celebrare le sue imprese.
Unico personaggio di spicco del regime escluso dall’incontro d’ottobre del 1938 fu Giovanni Gentile, e non per caso poiché, come ricorda Fabre, Mussolini “non condivideva le [sue] più recenti idee e definizioni sulla razza”.  

Nel 1938 il governo trasformò l’Ufficio centrale demografico in Direzione generale per la demografia e la razza (detto “Demorazza”). L’ente gestiva censimenti e certificazioni come questa riprodotta.

Moderato, “personaggio per molti versi anomalo”, il celebre filosofo non mancò di mettersi di traverso durante la Repubblica Sociale finché, come documenta Luciano Mecacci in un libro coraggioso, finì freddato da un killer spietato, spinto da oscuri mandanti.
Aperta la strada dal Gran Consiglio, le misure antiebraiche vennero varate con il beneplacito di Vittorio Emanuele il quale le firmò senza batter ciglio. Ma non furono un incidente passeggero e anomalo poiché, sottolinea giustamente Fabre, “nel dopoguerra il razzismo fascista non fu davvero eliminato; anzi, ci fu una sostanziale continuità nelle posizioni amministrative che gestirono proprio la politica antiebraica e razzista della Demorazza, i cui funzionari, dopo il 1945, rimasero ad alti livelli al Ministero dell’Interno o addirittura ascesero dalla magistratura ai vertici dello Stato”.
Nel 1938 il Gran Consiglio ha tracciato il solco, ma il burocratismo inamovibile lo ha difeso. Con il duce e dopo.