Una sorta di post scriptum al reportage In viaggio verso l’Ucraina in guerra

Ogni viaggio inizia sempre prima di mettersi lo zaino sulle spalle o di portarsi appresso una valigia. Inizia di frequente sulla poltrona di casa, leggendo qualche guida turistica ben scritta. I più raffinati fanno un ulteriore passo avanti divorando un romanzo ambientato nei luoghi dove ci si appresta ad andare o il libro reportage di qualche noto scrittore o giornalista che ha già viaggiato nelle zone che si vogliono esplorare. Anche internet è uno straordinario modo per iniziare a viaggiare con la mente, a patto che non ci si limiti a vedere le foto degli hotel dove si intende pernottare – informandosi magari sulla presenza o meno del centro benessere – o, in maniera ancor più superficiale, visionando le località che si vuole visitare giusto per farsi un’idea se vale la pena o meno andarci. Tutte pratiche queste ultime che, se da un lato hanno portato indubbi vantaggi nel poter organizzare al dettaglio gli spostamenti e i pernottamenti, hanno però usurpato e svuotato il viaggio delle sue componenti mitiche e ben più importanti: su tutte la fantasia e l’immaginazione.
Del resto il turismo moderno altro non è che una delle varianti della società dei consumi, intriso com’è di fitti programmi, di spossanti spostamenti e di soste nei cosiddetti “luoghi di interesse” che il più delle volte durano giusto il tempo di scattare il fatidico “clic” – sdoganato ufficialmente, e a dosi a dir poco massicce, con l’èra della macchina fotografica digitale – per poi piantare la classica bandierina. Tanto per poter dire agli amici “l’ho visto”, postando magari l’“oggetto” sul social network di turno. Si finisce così per “fare” negli anni la Thailandia, il Brasile, il Marocco e via dicendo. La piega che sta prendendo il turismo dei grandi viaggi è, con le dovute proporzioni, del tutto simile a quella di coloro che, per l’appunto, “fanno” la spesa al supermercato riempiendo i propri carrelli per il solo gusto di soddisfare una strabordante ansia di accumulo dai preoccupanti tratti fobici; il tutto senza sapere neanche tanto bene cosa ci sia finito, nel carrello.
Il bello del viaggio, ma anche il difficile, dovrebbe tuttavia arrivare al ritorno. Non tanto per la delusione legata alla “fine dell’avventura” – la quale dovrebbe essere lasciata al supersonico turista mordi-fuggi-usa-getta – bensì per quanto ci si porta dietro, di bello e di brutto, da quell’esperienza. Allora si cerca in tutti i modi di prolungarlo, di dargli nuova linfa, immergendosi ancor di più in infinite letture. Chi fa così finisce allora per alimentare, in maniera del tutto involontaria, una tacita complicità e una sorta di affetto per le persone incontrate e per i luoghi che si è vissuti. Perché se è vero che ogni viaggio è inutile quando si ritorna tali e quali a come si è partiti, è anche vero che viaggiatori si diventa nel momento in cui si cambia qualcosa di sé stessi portandosi dietro un frammento di quel viaggio in grado di arricchire il personale mosaico del mondo di nuove ed imperscrutabili geografie.
Quando un viaggio che ci ha colpito diventa una parte di noi stessi scatta talvolta l’idea di ritornare più volte in quei luoghi già visti o di andare in altri dalle caratteristiche simili. Non avendone sempre le possibilità può capitare di rincorrere, come fortunati segugi che hanno fiutato un po’ per caso la giusta traccia, storie che permettano di tenere tra le mani il filo di quel frammento prezioso che, come il primo amore, mai si vorrebbe vedere perdersi nelle nebbie della vita. Il tutto può risultare ancor più sorprendente se si tratta di vicende di persone incrociate in maniera inaspettata e che mai penseremmo possano vivere a due passi da casa, nel bel mezzo di quella noiosa quotidianità che dovrebbe essere l’esatto opposto del viaggio. Quella stessa quotidianità che, se innestata a giuste dosi nell’arte del viaggiare, può rivelarsi tuttavia una piacevole scoperta; un particolare non secondario che conosce bene chi è in grado di godere realmente di un viaggio o chi, come il protagonista della storia che sta per iniziare, ha alle spalle suo malgrado un’esistenza “nomade” durata per quasi metà della sua vita.
Ma quella che segue è, prima di tutto, una di quelle storie straordinarie che meritano sempre di essere raccontate. È l’esempio di come un viaggio possa continuare, come nel mio caso, rimanendo fermi ad ascoltare un saggio vecchietto con un diluvio di parole da narrare. Un viaggio nella vita di un uomo dove, un po’ defilate all’orizzonte, si stagliano nuovamente le forme di un pezzo di mondo entrato a pieno titolo nel mio personale immaginario di aspirante viaggiatore. La storia di Aaron Kaplun mi è parsa fin da subito il riassunto ideale delle travagliate vicissitudini di un Paese, l’Ucraina, tormentato dalla perenne ricerca della propria geografia e della propria anima.

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Aaron Kaplun oggi. Vive a Tradate con la moglie Christiane. (foto di Valerio Raffaele)

Il racconto di Aaron

Sono nato a Kiev il 5 aprile del 1935 da papà Huna e mamma Perla. I miei nonni paterni erano di Kamenec-Podolski, in Ucraina Occidentale. Quelli materni invece erano di Zwanzy, in Bessarabia, l’attuale Moldavia. La nostra casa era in via Zelanskaya 5, ora via Zadanovskovo, vicino ai bagni pubblici della città. L’appartamento era formato da un corridoio con cinque locali, tre dei quali ospitavano ciascuno un gruppo familiare. Oltre alla mia vi erano una famiglia – ebrea come la nostra – con due gemelle di qualche mese più grandi di me, e una ucraina. La cucina e i servizi erano in comune. A quei tempi nelle case c’erano solo i servizi igienici essenziali.
Pietja, il papà delle gemelle, era tubercolotico. La loro mamma si chiamava Emma. Una gran bella donna! Credo che in qualche modo le piacesse mio padre. Il loro nonno era un venditore di giocattoli. Per questo avevo sempre tra le mani qualcosa con cui giocare. Uno dei ricordi più belli è che li buttavo fuori dalla finestra della cucina tirandoli contro il muro esterno del bagno pubblico. Finivano tutti nella legnaia in basso. Ma non era un problema perché ne potevo avere sempre di nuovi!
Mio padre lavorava come commesso in un magazin di alimentari e arrotondava lo stipendio facendo il cappellaio mentre mia mamma era un’abile sarta di biancheria intima. Per lavorare aveva due macchine da cucire di marca Singer. Non si viveva certamente nel lusso, ma tutto sommato la vita ci sorrideva. Poi scoppiò la guerra. Papà fu chiamato al fronte per combattere nell’Armata Rossa. Con il bombardamento di Kiev da parte dei nazisti nell’agosto 1941, la guerra entrò nelle nostre case. Per noi la situazione divenne sempre più difficile. Con l’avanzata dei tedeschi e dei loro alleati ucraini, iniziarono i primi rastrellamenti e i pogrom contro gli ebrei. Decidemmo quindi di lasciare l’Ucraina e di partire per Tashkent, in Uzbekistan. Ricordo chiaramente che arrivammo al mattino in stazione e che c’era una folla di persone che si accalcava sui binari per partire. Con me c’erano la mamma, il mio fratellino Micha di 3 anni e la famiglia delle gemelle. I nonni di queste ultime, vedendo che tutti i vagoni erano già pieni, decisero di aspettare il treno successivo per viaggiare un po’ più comodi. Fu l’ultima volta che li vedemmo. Il nostro fu l’ultimo convoglio che partì, l’ultimo treno della salvezza. Gli ebrei che quella mattina rimasero a Kiev finirono sterminati a Babij Jar. Per quanto riguarda mio padre, non lo rividi mai più. Qualche tempo dopo approfittò di una licenza per tornare a Kiev. Voleva vedere se eravamo partiti. Fu ucciso da alcuni vicini di casa ucraini.
Il viaggio per l’Uzbekistan fu lungo e difficile. Durò più di due settimane. Eravamo ammassati sui vagoni merci. Riuscimmo a portarci dietro solo lo stretto indispensabile. Tuttavia, intuendo che sarebbero tornate utili, mamma riuscì a far caricare anche le due macchine da cucire. A Tashkent, in un primo periodo, trovammo un alloggio nella parte vecchia della città in un locale che condividevamo con altre nove persone. Poco dopo il nostro arrivo però il piccolo Micha morì. Era inverno, si ammalò di pertosse e fu ricoverato in ospedale dove contrasse una meningite fulminante. Un’altra tragedia si era abbattuta sulla mia famiglia. Tuttavia i tempi erano tali che per non perdersi era imperativo continuare a guardare avanti.
In seguito, quando l’altolocata famiglia musulmana di nome Yussupov che già ci ospitava mise a nostra disposizione un intero locale tutto per noi, la nostra situazione migliorò. Inoltre furono gentilissimi, non chiedendoci mai un soldo per l’affitto. Durante la nostra permanenza in Uzbekistan non ci furono mai problemi tra ebrei e musulmani. Fu da loro che imparai a mangiare con le mani il riso, l’uva passa, l’agnello. Ci si sedeva sui tappeti dove, grazie a un recipiente pieno di carboni ardenti che veniva tolto prima di mettersi a tavola, i nostri piedi distesi rimanevano caldi. Al centro del basso tavolo in legno di forma quadrata, c’era un piatto unico dal quale ognuno attingeva per soddisfare i propri appetiti. Gli Yussupov erano dei musulmani particolari: spesso e volentieri bevevano alcolici! Ben presto feci amicizia con Habe, il figlio del capofamiglia. Ricordo ancora con un certo terrore la sua circoncisione. A noi ebrei viene fatta da piccoli. A lui, povero, la fecero a 13 anni in maniera naturale facendogli cavalcare un asino privo di sella!
Di quei tempi ricordo la scuola vicina a Besz Agach, la “piazza dei 5 alberi”, un laghetto, il cinema. Andavo in giro con la tibitieika, il tipico copricapo locale. La mamma nel frattempo si era risposata. Era rimasta vedova giovane e, come si usava dire una volta, era ancora in età da marito. A Tashkent conobbe Liber, un ebreo polacco di Tarnopol (città che oggi si trova in Ucraina) che durante la seconda guerra mondiale fu prigioniero dei russi i quali lo spedirono nei campi di lavoro dell’Asia Centrale. Insieme ebbero due figli, i miei fratellastri: Arie nacque a Tashkent, Anna invece venne alla luce quando ci eravamo già trasferiti in Polonia. Oggi vivono entrambi a Haifa, in Israele.
La nostra vita in Uzbekistan, che allora faceva parte dell’Unione Sovietica, durò cinque anni. Per un periodo abitammo anche a Samarcanda. Ricordo l’animatissimo suk della città vecchia e il tempio azzurro di Tamerlano. Vissi per qualche mese anche a Fergana; una sorta di “vacanza” si può dire, giusto per lasciare riposare un poco mia madre. Del resto ero già abituato a staccarmi per qualche tempo dalla mia famiglia, visto che non era la prima volta che mi allontanavo.
Nel 1946 partimmo per la Polonia. Nel cuore musulmano dell’URSS non c’era molto da fare. Liber aveva sì cercato di guadagnare qualcosa dal contrabbando di riso e zucchero sulla tratta ferroviaria per Mosca, ma lo beccarono al primo tentativo! Sfruttammo allora la possibilità di andare in Polonia, entrata da poco sotto la sfera di influenza russa, grazie alla cittadinanza del mio patrigno. La mamma inoltre, avendo sposato uno straniero, era diventata “persona non grata per lo Stato sovietico”. Rinunciammo così alla cittadinanza e, insieme a essa, a qualsiasi possibilità di tornare, diciamo così, nella nostra patria. Anche se ancora oggi è difficile per me parlare di una patria di appartenenza quando già a 11 anni si hanno alle spalle tante migrazioni. Insieme a noi partirono anche le gemelle. Come la mia, la loro madre si era sposata in seconde nozze in seguito alla morte di Pjetia. Il nuovo marito era un polacco amico di Liber, anch’egli di Tarnopol, che durante la guerra aveva perso la moglie e la figlia di 10 anni, entrambe uccise dai tedeschi.
In Polonia iniziai l’ennesima nuova vita. Con l’adolescenza si manifestò in me un carattere sempre più ribelle e difficile da dominare. E, insieme a tutto ciò, riprese ben presto la lotta per racimolare il denaro necessario per vivere. Liber fece un corso per diventare imbianchino e poi trovò lavoro in una fabbrica di porcellane. Il suo stipendio mensile però bastava appena per due settimane. Ma per fortuna avevamo ancora una “carta segreta” da giocare: la macchina da cucire di mamma! L’altra, quella di mio padre, fummo costretti a venderla a Tashkent. Ma con quella rimasta, che volle portare con sé a tutti i costi, mia madre iniziò a fabbricare su commissione delle trapunte. Nei tempi liberi la aiutavo accompagnandola in treno nei piccoli villaggi della Slesia e delle regioni limitrofe a comprare dai contadini le piume che servivano a imbastire i piumoni invernali. In questo modo, sgobbando tutti i giorni, riuscivamo ad arrivare alla fine del mese. Allora erano le miniere di carbone a dare lavoro alla gran parte delle persone che vivevano in quella zona della Polonia meridionale. Per fortuna, grazie alle capacità di mia madre, misi piede in una miniera solo durante una gita scolastica. Quando mi trovai al buio nelle profondità della terra ebbi paura per tutto il tempo! L’aria dei villaggi era talmente inquinata dalle scorie di carbone che le camicie bianche diventavano subito nere.
Per noi ebrei non era semplice vivere nella Polonia degli anni ‘50. Il fatto che nessuno di noi lavorasse nelle miniere contribuì a diffondere tanti pregiudizi nei nostri confronti da parte dei polacchi. Inoltre era appena nato il nuovo Stato comunista. Si aveva paura a parlare, bastava un nonnulla per essere sbattuti in galera.
I ricordi belli di quel periodo però sono molti. In particolare quelli legati alla scuola. La direttrice, sapendo che papà era stato un militare russo, decise addirittura di cambiarmi nome: fui così ribattezzato con il nome di Arcadius (il cui significato è “pietra angolare”) Eckstein (il cognome del mio patrigno). Un nome che in fondo non mi dispiaceva. Con molti miei compagni si creò un rapporto speciale rimasto vivo nel tempo. Nel 2005, quando tornai a Walbrzych per rivedere i luoghi della mia prima giovinezza, ci ritrovammo tutti assieme. Un’esperienza bellissima, arricchita dalla serena consapevolezza di essere riusciti a diventare vecchi!
Anche in Polonia, come prima in Unione Sovietica, per chi voleva darsi da fare non c’erano molte speranze. Per gli ebrei scampati alla Shoah che vivevano ancora in Europa la possibilità di dare una svolta alla propria vita si presentò con il consolidarsi dello stato di Israele nato nel 1948. Nel 1957 giunse così l’ora di una nuova partenza. In Israele mi riappropriai del mio nome originario che quasi avevo dimenticato; non prima però di aver superato una serie di problemi con le autorità di controllo alle quali dovetti spiegare le peripezie della mia cangiante identità.
Appena arrivati ci stabilimmo a Haifa, nel nord del paese, sul Mar Mediterraneo. A 22 anni sentivo tuttavia il bisogno di staccarmi del tutto da mamma e dalla famiglia che lei si era con coraggio ricreata. Così decisi di andare a vivere per qualche tempo in un kibbutz dove preparavo le cassette della frutta e facevo l’apicoltore. Qui imparai finalmente l’ebraico che in precedenza non avevo mai potuto studiare.
Il duro lavoro manuale mi fece tornare ben presto la voglia di rimettermi sui libri. Andai così a Gerusalemme dove mi iscrissi alla facoltà di biologia. Frequentai per tre anni l’università e quando mi mancavano pochi esami per terminare gli studi decisi di smettere per andare a insegnare chimica nelle scuole agrarie di Tel Aviv e Kiriat Shmona. Qui conobbi un collega di matematica che si era laureato a Bologna. Gli confidai che il mio sogno nel cassetto era diventare medico. Fu lui che mi spinse a compiere il grande salto verso l’Italia. Nel settembre del 1964 arrivai a Milano dove mi iscrissi alla facoltà di Medicina. Nel 1967 conobbi Christiane Vandezande, una ragazza belga di Bruxelles, che qualche anno dopo sarebbe diventata mia moglie. Nel 1969 ottenni l’agognata laurea. Nell’Italia degli anni ‘60 c’era una notevole penuria di medici soprattutto nelle zone di provincia, fuori dai grandi centri urbani. Il primo maggio del 1970 iniziai così a lavorare all’Ospedale Galmarini di Tradate, una piccola cittadina ai piedi delle Prealpi tra Como e Milano, in provincia di Varese. Qui svolsi l’intera carriera lavorativa fino al 2000, anno in cui andai in pensione.
A 35 anni, in Italia, mi fermai. Ebbi una soddisfacente vita lavorativa e mi feci una famiglia. Nella mia vita da sradicato senza patria crebbi però con la voglia di tornare nei luoghi della mia primissima infanzia che dovetti traumaticamente abbandonare. L’occasione ci fu nel 1991 quando l’Unione Sovietica, sotto la guida di Michail Gorbaciov, si stava aprendo all’Occidente. Non ci pensai due volte e acquistai un biglietto aereo per Kiev. Volevo tornare in Ucraina, rivedere i luoghi dove iniziarono le mie peregrinazioni. Feci una breve sosta a Babij Jar e, grazie all’aiuto di due anziani ebrei, riuscii a recarmi nel luogo dove un tempo sorgeva la mia casa. Era stata demolita, al suo posto c’era soltanto un ampio piazzale con dei lavori in corso. Solo l’edificio del bagno pubblico con la sua insegna arrugginita era rimasto in parte intatto. Nella mia mente però tutto era uguale a cinquant’anni prima. Compreso il muro scrostato che avevo di fronte, contro il quale avevo lasciato cadere spensierato i primi giocattoli della mia vita movimentata.

Epilogo

Durante il suo viaggio nell’allora Unione Sovietica dell’agosto 1991, Aaron Kaplun assistette sulla Piazza Rossa al tentativo di golpe che voleva deporre l’allora segretario del Partito Comunista Michail Gorbaciov. Lo ringrazio per avermi omaggiato di alcuni preziosi originali del quotidiano russo “Pravda” che raccontano le cronache di quelle storiche giornate.
Dalla sua unione con Christiane sono nati 4 figli i quali hanno fatto provare loro la felicità di diventare nonni per ben 9 volte. Grazie alla sua specializzazione in ginecologia ebbe la fortuna di gioire anche per i tanti bambini che fece nascere.
Del periodo in Polonia, Aaron è rimasto molto legato con l’amico e compagno di scuola Pavel Bergman. Con lui, anche nell’epoca di internet e di email, intrattiene un costante rapporto epistolare con tanto di posta ordinaria e lettere scritte a mano.
E le gemelle? Una delle due, Rina, gli fu offerta in sposa. Egli rifiutò perché voleva continuare a studiare. L’altra gemella Wala, analogamente al padre, si ammalò di tubercolosi. Entrambe lasciarono la Polonia negli anni ‘50 per emigrare negli Stati Uniti insieme al loro patrigno Munja. Da allora Aaron non ha più avuto notizie di loro.
Con i fratelli acquisiti Arie e Anna si sente regolarmente per telefono.
A Haifa riposano in pace il patrigno Liber, morto nel 1968, e l’amata madre. Perla morì a 56 anni; nello stesso anno, il 1970, in cui Aaron iniziava a lavorare decidendo di fermarsi definitivamente in Italia. L’amata macchina da cucire Singer rimase al fianco della coraggiosa mamma fino all’ultimo respiro.

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