Si battevano contro progetti minerari, contro la deforestazione, contro il moloch agro-industriale… e sono stati assassinati.
Almeno 164 i morti ammazzati nel 2018 (solo quelli accertati, beninteso) mentre lottavano contro la devastazione di Madre Terra. I dati sono quelli forniti da Global Witness. Secondo questa ONG il Paese più mortifero per gli ambientalisti attivi sarebbero le Filippine con un record, l’anno scorso, di 30 persone uccise, tra ecologisti e indigeni che difendevano le loro terre ancestrali. Tra le vicende più gravi, l’uccisione di donne e bambini da parte di milizie armate – sul libro paga dei proprietari delle coltivazioni di canna da zucchero – nell’isola di Negros. Successivamente l’avvocato delle famiglie delle vittime è stato a sua volta ucciso.
Seguono nella graduatoria, quasi a pari merito, la Colombia (dove il fantomatico “processo di pace” in realtà ha riaperto ampi territori forestali, prima controllati dalle FARC, alla speculazione e al saccheggio) con 24, e l’India, nonostante l’eroica resistenza di adivasi e naxaliti, con 23. Il piccolo Guatemala, già teatro nel secolo scorso di un autentico genocidio nei confronti degli indios, si conferma come il Paese con la più alta percentuale di ecologisti ammazzati (16) rispetto al numero di abitanti.
Tra gli episodi più gravi dell’anno scorso, quello avvenuto in Tamil Nadu, India meridionale. Qui, il 23 maggio 2018, 13 persone sono state assassinate dalla polizia dopo una manifestazione contro la fonderia Sterlite (gruppo Vedantaui) responsabile dell’inquinamento di aria e acqua nella città di Thoothukudi. I manifestanti chiedevano la chiusura dell’impianto per la lavorazione del rame. Tra le vittime anche una giovane di 17 anni. Il movimento autodenominatosi “Anti Sterlite” ha riunito migliaia di persone, e negli scontri dopo la sparatoria mortale venivano dati alle fiamme numerosi mezzi dell’azienda e auto della polizia. I feriti sono stati oltre una sessantina.
In Brasile (dove quest’anno diversi indios sono stati uccisi dai garimpeiros dopo il “via libera” di Bolsonaro), nel solo stato del Para sono almeno otto i morti accertati l’anno scorso tra la popolazione in conflitto con i grandi proprietari dell’industria della soia.