Le modificazioni del concetto di regione dall’ “epopea” delle annessioni ai nostri giorni. L’eterna incompatibilità fra centralismo statalistico-burocratico e l’antica e mai sopita necessità di camminare con le proprie gambe. Come alla Costituente, in un clima di generale improvvisazione, vennero deluse le aspettative di una corretta divisione regionale, che tenesse conto delle singole realtà etno-linguistiche.

“L’Italia non la si voleva e non la si vuole dalle masse”. L’affermazione, obiettivamente tranchant, è del 1866; dunque non appartiene, come potreb­be parere, alla cronaca ma alla storia. A pronunciarla e a scriverla a chiare let­tere, in una stagione probabilmente più vivace e “rissosa” di quanto si creda, Stefano Jacini, aristocratico proprie­tario terriero, di sentire moderato e for­mazione cattolica, figura di primissimo piano nel mondo politico-culturale dell’Italia postunitaria. Jacini, e con lui gran parte dei padani, guardava con perplessità venata di sfi­ducia ai modi che avevano presieduto alla formazione dello Stato unitario. Certo, non gli sfuggiva il valore di quel­l’approdo, necessario per collocare l’I­talia a livello delle nazioni più evolute o, per dirla con l’espressione cara a quei tempi, per garantirle un posto nel “con­certo europeo”… Ma le luci non era­no sufficienti per giustificare le molte, moltissime ombre. In verità “l’epopea delle annessioni”, come veniva spesso definita la dinami­ca dell’unificazione, aveva soffocato ogni dibattito sul miglior assetto da darsi all’Italia indipendente. E c’erano in quel giudizio tutti i sentimenti e i risentimenti d’un mondo lombardo di fi­ne cultura, di consumata esperienza amministrativa, d’antico e non gratui­to scetticismo verso orientamenti non indigeni, dunque estranei al felice risul­tato storico indotto dall’innesto della lezione asburgica sul solido tronco del civismo lombardo.

Ora, invece, lo stile subalpino dettava legge. Ma si era poi certi che avesse vin­to il migliore? Iniziava così a esprimersi, entro un ser­rato contrappunto polemico con la for­ma centralistica del nuovo Stato, quel­la difesa del valore delle particolarità locali e del loro diritto a una compiuta autorealizzazione che avrebbe conno­tato la cultura politica di matrice cat­tolica fino all’inserimento della voce “regione” nel testo costituzionale del­l’Italia repubblicana. La passione per la vita locale (il genius loci, dicevano loro) e il disagio verso la forma-Stato, i cattolici se la portava­no nel sangue insieme a una predilezio­ne tenace per la civiltà medievale, fat­ta di maglie finemente intessute (la fa­miglia, la pieve, il municipio, le corpo- razioni di arti e mestieri,,.): un dispie­garsi di vita civile in cui ogni cellula ave­va proprio dinamismo e propria voce. Al contrario lo Stato, con la sua logica accentratrice, con la sua etica di poten­za, ma soprattutto con la profonda lai­cizzazione del costume che comporta­va storicamente il suo imporsi, non pia­ceva e non convinceva. Veniva di lì l’e­terna, e a suo modo suggestiva, ambi­guità dell’autonomismo di matrice cat­tolica, in difficile equilibrio fra antico e moderno, fra reazione e profezia. Moderna era in Jacini, per esempio, la consapevolezza dell’incompatibilità fra accentramento statale, gigantismo bu­rocratico e bisogni di efficienza e pro­duttività di uno Stato moderno. Luci­da, e legata a una faticosa gestazione concettuale, era la ricerca di una demo­crazia non formale, dunque di una partecipazione politica che non fosse ritua­lismo svuotato di peso specifico ma espressione di una concreta dialettica di forze storiche. “Governare da lontano, amministrare da vicino”, amava ripetere il “gran lombardo”. Tuttavia a far ricadere il progetto sul suo versante antimoderno giocava una sorta di inibizione profonda a intende­re e accettare la irreversibilità della rivoluzione industriale, allora incipiente, e dei dilaceranti effetti che avrebbe avu­to sui tradizionali rapporti produttivi ed equilibri sociali. Era, quello, un au­tonomismo in larga misura nostalgico che, detto in termini psicanalitici, ne­gava il moderno perché avvertiva, più o meno consapevolmente, che ne sareb­be stato emarginato. E così fu. La nuova Italia, con le sue ciminiere, le sue strade ferrate, il suo proletaria­to industriale, la sua inquieta realtà an­tropologica segnata da schiaccianti omologazioni, vinse. Per fortuna, secondo alcuni. Per disgrazia, secondo al­tri. Il dibattito in sede storiografica, ma non solo lì, è più che mai aperto. Quando col Partito popolare di Sturzo l’autonomismo cattolico tornò alla ribalta politica, lo fece in termini pro­fondamente riveduti. Era il 1919 e fra il nostalgico “piccolo è bello” di jaciniana memoria e il regionalismo ag­guerrito del siciliano Sturzo c’era di mezzo il conflitto mondiale. Lasciata alle spalle ogni “mistica” municipale, il nuovo partito guardava al futuro e si nutriva d’un realistica conoscenza delle strutture sociali e produttive del paese. Forze d’ispirazione religiosa, ma di metodo politico laico, ponevano or­mai il problema della successione alla vecchia classe dirigente, non più in ter­mini della vecchia querelle filopapale di fine secolo, ma come proposta di un modello amministrativo meglio aderen­te alle caratteristiche di una società di massa.

Dunque, discorso postliberale, non an­tiliberale. La riforma dello Stato ne era il cuore: la lotta all’accentramento bu­rocratico, ai torpori e agli inquinamenti di viete pratiche clientelari passava per di lì. Gli esempi della mobilitazione agraria e di quella civile durante la guer­ra stavano a dimostrare la improponi­bilità (e il rischio politico!) di continua­re a regolare la vita nazionale col siste­ma delle formule livellatrici e centralistiche. In nome di una “libertà più li­berale” Sturzo chiedeva la smobilita­zione dello Stato. E da Milano Filippo Meda, “pezzo da novanta” dell’opinione lombarda, fa­ceva eco e acconsentiva, carezzando quell’antico bisogno ambrosiano di camminare con le proprie gambe che a Roma non cessava di parere foriero di pericolose impennate autonomistiche… Il segretario politico del Partito popo­lare, che veniva, non a caso, da una lunga esperienza amministrativa, riusci­va a leggere le trasformazioni della so­cietà senza paralizzanti attaccamenti al­la scolastica cattolica ed era già prote­so a disegnare un più ampio organismo sovramunicipale in grado di imprime­re alle situazioni locali una direttiva di più ampio respiro. Covava l’idea di re­gione. Ma il governo centrale, nel travagliato triennio fra la fine della guerra e la mar­cia su Roma, aveva altro per la testa. Tutto un mondo era al tracollo con i suoi valori, il suo stile politico interno e in­ternazionale. L’Italia risorgimentale era agli sgoccioli. Altro urgeva alle porte. E non era una stagione di libertà. Sturzo col suo progetto di autonomia regionale, ampiamente travalicante il mero decentramento amministrativo, marciava ormai controvento. Il proget­to, nato e pensato come una sorta di legittima difesa della società civile ri­spetto alla società politica, doveva co­noscere negli anni della dittatura la sua stagione più buia. Fu soffocato, non conculcato. Covò sotto la cenere, in at­tesa. Alcide De Gasperi, stendendo fra il 1942 e il ’43 le notissime Idee ricostrut­tive, le articolò intorno al tema della li­bertà politica come unico criterio in grado di assestare su basi meno friabi­li la rinata democrazia. Interrogando­si su come la società italiana avesse po­tuto conoscere una così rapida involu­zione autoritaria, molte coscienze di differente ispirazione ideologica erano ormai concordi nel puntare il dito ac­cusatore contro la forma centralistica dello Stato unitario. “La più efficace garanzia organica della libertà – scrisse De Gasperi – sarà data dalla costituzio­ne della regione.” Una robusta e articolata vita locale ap­pariva dunque il miglior antidoto con­tro la tirannide del Moloch statale. È con tale convinzione che i democratici cristiani si accinsero ai lavori della Co­stituente. Ma fu proprio allora che qualcosa, o molto, doveva cambiare. La sensazione che si ricava nel trapas­so dalla fase preparatoria al biennio co­stituente 1946-47 è di una sensibile di­versità di clima politico-culturale, de­stinata a condizionare profondamente l’identità progettuale e propositiva di ciascuna forza politica. Proprio l’itine­rario del regionalismo (problematica­mente segmentato in stasi e accelerazio­ni) risulta particolarmente espressivo di un progressivo imporsi della “ragion politica” rispetto a valutazioni di più ampio respiro culturale. Il catalizzatore del dibattito, come della finale deci­sione favorevole al nuovo ente, finiva col coincidere con il tipo di rapporto che ogni partito, ma in particolare la DC e il PCI, individuava fra opzione regionalista e personali esigenze di mantenimento ed espansione del con­senso politico. Il progetto, in altre pa­role, fu ghermito dall’incipiente dialet­tica bipolare fra DC e sinistre e si mos­se all’interno di una tattica simmetrica fin troppo eloquente. Il partito di De Gasperi ne difese l’iscrizione nel detta­to costituzionale, ma ne rimandò la rea­lizzazione a una stagione di minore vi­rulenza comunista… Il PCI togliattiano inizialmente ne osteggiò l’accogli­mento prevedendo una propria immi­nente occupazione delle leve centrali del potere; in seguito, sfumata tale prospet­tiva, si espresse favorevolmente per ga­rantirsi attraverso il nuovo livello au­tonomistico aree di opposizione perife­rica. All’interno di tale dinamica, oggettiva­mente delicatissima, ben poco spazio ri­maneva per affrontare il “problema re­gione” in termini tecnicamente adegua­ti e culturalmente aggiornati. Tale pro­cesso, che è difficile non ritenere com­plessivamente involutivo, si espresse con particolare evidenza nel dibattito (o mancato dibattito) circa i criteri da adottare per la definizione delle nuove circoscrizioni regionali. La commissione incaricata di formulare le proposte iniziali aveva concluso (non senza forti dissensi interni) a favore del­l’adozione del criterio storico tradizio­nale e non era andata oltre l’indicazio­ne di massima circa l’opportunità di istituire come nuove regioni il Molise, il Salento e il Friuli e di procedere alla divisione dell’Emilia in due regioni: l’Emiliano-appenninica e la Romagna. Tuttavia, nel consegnare quelle conclu­sioni, era stata la commissione stessa a rilevarne il carattere provvisorio, do­vuto all’assenza di adeguati studi tecnico-geografici e, pertanto, di alterna­tive fondatamente praticabili. Era un chiaro invito rivolto alla Commissione dei 75 a promuovere le ricerche permet­tendo di impostare il problema in ter­mini meno lacunosi e sorpassati. Da parte di qualcuno (C. Mortati, E. Vanoni…) si parlò non solo di insufficien­za ma di irrazionalità delle divisioni re­gionali tradizionali rispetto ai fini cui dovevano servire. Occorreva, insom­ma, mobilitare economisti e geografi, linguisti, antropologi e storici per per­venire alla individuazione di unità socialmente ed economicamente omoge­nee che riflettessero lo stato delle sin­gole realtà locali. Ma tali studi non vennero. La sostanziale sospensione di giudizio adottata dagli interessati lasciava inten­dere la scelta del quaeta non movere co­me risposta all’oggettiva spinosità del problema. Fu l’imminenza elettorale dell’autunno a riportare improvvisamente alla ribalta il problema: la sollecitazione veniva dal Ministero dell’interno che chiedeva un responso in vista delle votazioni. Ma il terreno degli studi non registrava sen­sibili passi avanti. In un clima di imbarazzata improvvi­sazione si arrivò a una votazione a sor­presa che vide prevalere di un solo vo­to la tesi della divisione tradizionale del­le regioni storiche. Si era determinata così una sorta di consacrazione “a scatola chiusa” de passato gravida di esiti problematici. La grande distanza fra “paese reale’ e “paese legale”, tenace male oscuri dell’Italia postunitaria, era lontana dall’essere colmata. S’affidava invece al le generazioni successive, che solo ne 1970 avrebbero realizzato le regioni ; statuto ordinario, una eredità di difficile adempimento cui il travaglio dell’industrializzazione e l’esigenza tutti moderna della pianificazione economica avrebbero impresso connotazioni funzioni del tutto impreviste.