Attraverso l’esame di documenti dell’epoca, ricostruiamo la storia degli stanziamenti albanesi nell’Italia meridionale dal XV al XVIII secolo. Come vivevano i profughi nelle nuove terre.

La venuta dei nuclei di Albanesi nella nostra penisola è distinta nella storio­grafia arbèrèshe in stanziamenti ed emi­grazioni dalla patria d’origine, l’Alba­nia. In genere la storiografia ritiene che nei primi insediamenti le popolazioni albanesi siano state trattate con parti­colari privilegi dai governanti del tem­po, ma tale diffusa opinione viene smentita da alcuni storici contempora­nei e da documenti d’archivio, i quali attestano che gli Arbèrèshe vennero di­stribuiti in casali e borgate semi vuoti, nei quali essi dovevano adempiere a de­terminate funzioni, come ripopolare questi casali e prestare manodopera nel­le campagne dei grossi feudatari. Il pri­mo stanziamento risale al 1448 ed è do­cumentato da diverse testimonianze storiche, tra le quali la relazione che Lorenzo Giustiniani, regio bibliotecario, inviò al Migliorini, ministro di Gra­zia e Giustizia del Regno di Napoli, nei primi anni dell’800.

Un gruppo di soldati albanesi, condotto da Demetrio Reres e dai suoi figli Gior­gio e Basilio, accorse per recare aiuto al re Alfonso di Aragona, che, avendo sconfitto gli Angioini ed occupato il trono di Napoli, era entrato in conflit­to con i baroni calabro-siciliani nostal­gici degli Angiò. Ma c’erano già stati dei contatti tra Alfonso e il popolo al­banese, poiché il sovrano aveva soste­nuto in passato la guerra che uno stre­nuo condottiero albanese, Giorgio Ca­striota Scanderbeg, conduceva contro le orde turche che avevano invaso l’Al­bania durante la loro politica espansio­nistica. Si legge nella relazione del Giustiniani al Migliorini: “Convien ricordarvi che ritrovandosi re di Epiro Giorgio Castriotto, appellato Scanderbeg, celebre nella storia de’ generali, fu egli forte­mente assediato da’ Turchi, e forse ve­dendosi a mal partito cercò aiuto al no­stro Alfonso; il quale avendolo pron­tamente soccorso di gente non meno che di vettovaglie, lo pose in istato non solo di difendere lo Stato suo, ma di to­gliere in seguito a’ Turchi diverse fortezze d’importanza.” Scrive, inoltre, Bartolomeo Facio nella sua opera in la­tino De rebus gestis ab Alphonso I, edi­ta nel 1562: “Quo tempore Scanderbecus nobilis in Epiro Regulus ac magnae et spectatae virtutis adversus Tureos, a quibus obsidebatur, ad Alphonsum le­gatos auxilium oratum misit…” Quin­di, per ricambiare l’ausilio fornito a Scanderbeg, quei soldati combatterono e vinsero, domando la rivolta dei ba­roni; il re ricompensò il loro appoggio cedendo dei territori in Sicilia e in Ca­labria, dove molti soldati fondarono o ripopolarono Piana degli Albanesi, Contessa Entellina, Santa Cristina Ge­la, Palazzo Adriano, Mezzojuso, Bron­te, Biancavilla, San Giuseppe di Mastellaro, Sant’Angelo e San Michele (in Si­cilia); Caraffa di Catanzaro, Carfizzi, Gizzeria, Pallagorio, San Nicola dell’Alto, Vena, Amato, Andali, Arietta, Belvedere, Marcedusa, Zagarise e Zangarona (in provincia di Catanzaro).

Una seconda trasmigrazione di Alba­nesi avvenne sotto Ferrante di Arago­na, salito al trono dopo la morte del pa­dre Alfonso. La situazione politica del suo regno era ancora travagliata dalle rivolte di alcuni baroni capeggiati dal principe Orsini di Taranto, dai tentativi di Giovanni d’Angiò di sottrargli il potere e dalle se­dizioni delle masse popolari, sconten­te delle pesanti tasse. In questa occa­sione fu lo stesso Scanderbeg a guida­re nelle Puglie il valoroso esercito al­banese contro i nemici di Ferrante (1461-62). In un’opera di Cesare Lom­broso, In Calabria, edita nel 1898, ri­troviamo la narrazione un po’ enfati­ca di questo episodio: “Una venuta de­gli Albanesi in Italia rimonta al 1462, quando Ferrante di Aragona, assedia­to in Barletta, e più le insistenze di Pio II (Enea Silvio Piccolomini) chiamaro­no in aiuto contro Giovanni d’Angiò Giorgio Castriota o Scanderbeg. Que­sti scese alle spiagge di Puglia; ed i Francesi al solo suo appressarsi sciol­sero l’assedio e, riportata la peggio in una battaglia, ritornarono oltre Alpi.” Repressa la rivolta, Scanderbeg tornò in Albania con un gruppo di soldati per continuare la lotta contro l’esercito tur­co. Ma molti seguaci rimasero nelle Pu­glie e territori limitrofi, fondando o ri­popolando Chieuti, Casalvecchio di Puglia, Castelluccio dei Sauri, Casal­nuovo Monterotaro (in provincia di Foggia); San Marzano di San Giusep­pe, Belvedere, Roccaforzata, Faggiano, San Giorgio, Carosino, San Crispieri (in provincia di Taranto), anche se al­cuni studiosi ritengono che gli Albane­si si siano insediati solo a San Marza­no, l’unico che conserva lingua e carat­teri di questo popolo; Campomarino, Ururi, Portocannone, Montecilfone (in provincia di Campobasso). Tutti questi paesi aumentarono di po­polazione con le successive migrazioni, avvenute dopo la morte di Scanderbeg (17 gennaio 1468). Costui aveva com­battuto per ben 25 anni contro i Tur­chi invasori, riuscendo a tenerne in scacco l’esercito e a battere ripetutamente i sultani Murad II e Maometto II, che avrebbe detto di lui: “Se Scanderbeg non fosse esistito, avrei messo il turbante sulla testa del Papa e la mez­zaluna sulla cupola di San Pietro”, te­stimoniando così la profonda fede che Scanderbeg aveva nella religione cristia­na, della quale si fece coraggioso pala­dino. Scrive ancora il Giustiniani: “I Turchi incominciarono, ben subito morto che fu quel grande generale, a vendicarsi dei torti e delle vittorie che aveva riportate sopra di essi, a segno che Giovanni suo figlio, non avendo af­fatto il valore del padre [come si legge anche nella sopracitata opera del Lom­broso, ndr, ebbesi a rifugiare negli Sta­ti che il padre suo aveva ottenuti in Puglia dal sullodato re Ferrante, e con tale occasione si trasmigrarono in regno un’altra infinità di Albanesi, che pur ebbero poi ad avere abitazione in diver­si luoghi.”

Le emigrazioni citale dal Giustiniani ebbero luogo dal 1468 al 1506: i profughi, volendo difendere la loro libertà e la fede cristiana bizanti­na, si imbarcarono su navi veneziane, slave, napoletane ed albanesi “Per tre qind mile trima iktin, çaitin detin se te mbajen besen” (Ma 300.000 giovani fuggirono, ruppero il mare per salvare la fede), canta un’antichissima rapso­dia albanese. Le navi approdarono alle coste della Calabria, dove, inoltrandosi nell’inter­no, gli emigrati fondarono o ripopola­rono, in provincia di Cosenza, Ejanina, Frascineto, Civita, Lungro, Firmo, San Demetrio Corone, San Giorgio Al­banese, Santa Caterina, Vaccarizzo Al­banese, San Cosmo Albanese, Acqua­formosa, San Martino di Finita, Mac­chia Albanese, Cervicati, San Benedet­to Ullano, Marzi, Cerzeto, Cavalleriz­zo, Falconara Albanese, Mongrassano, Plataci, San Basile, Spezzano Albane­se, Santa Sofia d’Epiro. Inoltre alcuni profughi andarono a stabilirsi nei pae­si sorti con i precedenti stanziamenti. La quarta migrazione, sempre stando alla relazione del Giustiniani, avvenne sotto l’imperatore Carlo V, nel 1534, allorché si ebbe la caduta (ad opera dei Turchi) di Corone, Modone, Nauplia e Patrasso in Morea. L’ammiraglio di Carlo V, Andrea Doria, fu incaricato dal viceré di Napoli, Pietro da Toledo, di condurre quegli Albano-greci nel Meridione per via mare. Molti di quei profughi si fermarono a Napoli, ma la maggior parie preferì sta­bilirsi nei paesi già abitati dai loro fra­telli albanesi. Alcuni Coronei, guidati da Lazzaro Mathes, fondarono o ripo­polarono Barile, San Costantino Alba­nese, San Paolo Albanese, Ginestra, Maschito (in provincia di Potenza); Ca­stroregio e Farneta (in provincia di Co­senza); Greci (in provincia di Avellino).

Scrive Lorenzo Giustiniani a proposi­to di una quinta e di una sesta migra­zione: “La quinta trasmigrazione fu sotto Filippo IV, essendo venuto un gran numero di gente da Majna nel 1647, ch’è un’altra contrada della stessa Morea, e si sa che buona parte di tali Greci si fissarono nella suddetta terra di Barile in Basilicata… La sesta trasmi­grazione avvenne poi sotto l’Augusto Carlo Borbone nel 1744. A quei tali Al­banesi fu assegnata da quel sovrano un’estensione di terra in Abruzzo Ul­teriore, che appellavasi Abbadessa (ora Villa Badessa ndr) e ch’era stata ven­duta da Giovanni Tedesco alla casa Farnese, ed era venuta in proprietà di esso Carlo, per la morte di Elisabetta sua madre, il tutto rilevandosi partitamente dall’Archivio Allodiale del re.” Una settima migrazione, di scarso ri­lievo per il numero degli emigrati, ri­sale al periodo in cui regnava Ferdinan­do IV, e probabilmente interessò dei territori in provincia di Piacenza (Pievetta e Bosco Tosca).

Come vivevano i profughi nelle loro nuove terre? Lo racconta Girolamo Marafioti, teologo dell’ordine dei Mi­nori Osservanti, nelle Cronache e anti­chità di Calabria, stampate a Padova nel 1610. “Sogliono tenere dentro i lo­ro tuguri alcune profonde fosse, den­tro le quali ascondono bovi, porci, vi­telli, pecore et ogni altra cosa che ac­quistano nelle campagne. Le loro don­ne sono anco gagliarde poco meno che gli uomini. Vestono di vestimento aspe­ro dal cinto in giù, e dal cinto in su il vestito è di vario colore, perché in un corpetto di vestimento pongono alcu­ne pezze, l’una accanto all’altra, di di­verso colore; le scarpe non sono di pelle delicata, ma di pelle rozza, in quel mo­do che calzano i mariti; le novelle spo­se sogliono parare le maniche di seta, allacciate con vitte di seta di diversi colori. Quando sono giorni di festività di car­nevale o altri, usano fare alcuni giochi alla moresca e si prendono con l’una o con l’altra mano uomini e donne e fan­no un giro ed or si stringono ed or si allargano e ballando tutti cantano nel­la loro lingua albanesca. Rassomiglia questa lingua alla lingua moresca, per­sica e arabica e aveno molto al raro me­scolati alcuni vocaboli greci. Eglino mai abitano un paese piano, ma solo den­tro le montagne e boschi e non fabbri­cano case, a ciò non siano soggetti a ba­roni, duchi, principi ed altri signori… Tutti esercitano l’arte di coltivare le campagne e avere cura dei greggi e ar­menti e tra di loro non si trova uomo nobile, ma tutti fanno vita uguale: niuno impara lettere, eccetto colui che vuo­le farsi calojero (sacerdote), e alcun al­tro molto raro. Fanno gli uffici della chiesa secondo l’uso della loro lingua, la quale è molto differente dall’uso la­tino e greco…”