Dal fallimento dei miti eurocentrici al concetto di sviluppo multilineare

Ulderico Bernardi

A un’analisi anche affrettata degli accadimenti mondiali, cercando di cogliere i segni più significativi per una previsione dei possibili orientamenti sociali, appare che i paesi industrializzati d’Oriente e di Occidente, così come quelli eufemisticamente definiti “in via di sviluppo”, conoscono oggi un’accentuazione delle resistenze e dei conflitti verso la divisione del lavoro dell’età industriale avanzata.
Sono manifestazioni transideologiche, che fanno la loro apparizione sia nei paesi “della transizione al socialismo”, sia negli altri, quelli a proprietà privata degli strumenti di produzione. Gruppi sociali e studiosi singoli, di qua e di là dello spartiacque costituito dal regime sociopolitico, ripropongono con la loro azione critica il recupero di quel senso della globalità sociale che già nella prima industrializzazione fu sostenuto dai cosiddetti “utopisti” – Fourier, Owen, Saint Simon, eccetera – nell’intento di riportare l’economia, e la sfera del produrre, entro l’insieme delle relazioni umane valutate parimenti indispensabili.
Il disagio esistenziale che colpisce una gran fascia giovanile, essi dicono, deriverebbe anche dal fatto che queste generazioni dell’automazione si sentono sempre meno incidenti nei processi lavorativi e nella produzione: così di beni, come di socialità e di potere. Avvertono, i giovani, l’estrema frantumazione che una esasperata sopravvalutazione del ruolo dell’economia ha prodotto dentro a tutti i sistemi – rituali, di comunicazione, di socializzazione, eccetera – che concorrono a formare la struttura d’una società.
La stessa organizzazione tecnico-politica pare oggi intenzionata ad abbandonare i disegni monumentali, le enormi dimensioni aziendali, prima esaltate nel nome delle “economie di scala”, per attivare invece progetti puntati su iniziative diffuse. Cosi, si fa ora più attenta la considerazione microeconomica, si soppesa la necessità di riattivare certi vecchi mestieri che l’affanno grandindustriale voleva sepolti con tutta la cultura artigianale.
Quando, sette anni fa, scrissi alcune considerazioni sotto il titolo Il futuro è del piccolo gruppo, questi processi, nelle loro componenti, erano appena agli inizi: le metropoli davano i primi cenni di uno sgonfiamento che si è susseguito con un ritorno alle città medie e ai paesi; l’economia non faceva ancora gran uso del decentramento produttivo; le richieste di riconoscimento per le etnie dimenticate rimanevano per lo più affidate a pochi soggetti. Quanto tutto questo si sia irrobustito è sotto gli occhi di tutti.

Il terzo mondo

Ma veniamo ai Paesi del terzo mondo: attraverso sforzi immani e spesso con esiti sanguinosi, ci si viene svincolando dalla teoria unilineare dello sviluppo secondo la quale era necessario seguire i modelli forniti dalle società europee e nordamericane per raggiungere il sospirato benessere, accettando di fatto l’incompatibilità fra: tradizione – e dunque diversità nelle basi di partenza fra le diverse culture, relativamente al loro ambiente, alla loro storia – e progresso, inteso come un traguardo con gli stessi premi per tutti (a prescindere, o meglio escludendo, una diversità di motivazioni e di aspettative).
Nell’agire dei gruppi e dei singoli critici della società altoindustriali dentro alle società sviluppate d’Occidente e d’Oriente, e nei tentativi – spesso confusi e privi di una alternatività progettuale immediata – delle “periferie” asiatiche, africane e dell’America latina, c’è un esplicito rifiuto ma anche un’unità di intenti che spinge verso l’obiettivo di raggiungere e conservare i vantaggi della modernizzazione (industrializzazione, scolarizzazione, mobilità sociale, democrazia) senza un parallelo accumulo di squilibri e di asincronie geografiche, istituzionali, culturali, sociali, come tanti addendi di un enorme conto complessivo di disgregazione comunitaria.

Il mito eurocentrico

È dunque implicito in questo una volontà comunitaria, un bisogno di identità – culturale e sociale – che la teoria unilineare dello sviluppo e la collocazione privilegiata dell’economia mortificavano.
Entrambe le situazioni sono figlie dell’eurocentrismo, cioè dell’idea che gli interessi e i bisogni delle classi agiate europee – un tempo l’aristocrazia, poi la gran borghesia “compradora”, poi il management del capitalismo privato e di stato – rappresentino l’unico modello di cultura per cui sia degno vivere.
Dopo i tentativi di omologazione del recente passato, si riscoprono ora le diversità e il valore che queste hanno per il patrimonio collettivo dell’umanità. Il diverso, non il superiore e l’interiore.
Le culture e i popoli considerati nell’articolazione degli elementi culturali che hanno saputo accumulare, più o meno complessi. Non piccolo merito dell’antropologia culturale, che nell’ambito delle scienze umane ha dato sostanza e rilievo scientifico alle singole culture. Le conseguenze valgono in relazione al crescere di un concetto sempre meno approssimato di sviluppo multilineare, calibrato cioè sulle diversità culturali – e dunque sulla gerarchia dei valori e sul corrispondente sistema di bisogni, propri di ogni comunità – e non solo sulle differenze economico-sociali.
Si rifletta un poco più a lungo di quanto questa modesta traccia offra, sulla ripresa dell’islamismo. Non c’è solo un’istanza religiosa, che certo c’è, ma anche bisogno di restaurare e reinventare il complesso di valori (e susseguenti bisogni, che li materializzano) che rende specifica una cultura, da realizzare nella storia (ma anche di là della storia, per chi crede) mediante il riconoscimento della propria identità culturale, in equilibrio con le esigenze della identità sociale, conquistata nel lavoro, nella famiglia, nei rapporti con le istituzioni.

Identità e comunità

Diverse motivazioni si combinano in questa forte ripresa religiosa. Talvolta il linguaggio della religione è l’unico praticabile in una società dove l’espressione politica è impedita dalla tirannia – ed è stato così anche per l’Iran – ma assai più spesso la libertà del rapporto con l’invisibile è la via aperta per ricongiungersi con la propria cultura tradizionale, un modo per non rinnegare i propri morti, per riappropriarsi dell’eredità sociale che le generazioni hanno accumulato in modo da rovesciare attivamente la sofferenza esistenziale causata dall’imposizione di valori e bisogni indotti da un neo-imperialismo culturale che si serve del know-how, della tecnologia, piuttosto che delle cannoniere (anche se spesso tornano buone anche quelle). Lungi dall’essere un movimento volto a ritardare la dinamica storica – anche se, non si può negare, talora interessatamente qualche gruppo sociale tenta una strumentalizzazione a suo vantaggio – il processo di riappropriazione dell’identità, culturale e sociale, rappresenta il modo concreto per rientrare nella storia, come comunità e come persone. È la comunità, nel suo complesso culturale che comprende i diversi gruppi sociali, a diventare l’attore collettivo nello scenario storico. Di questo è necessario tener conto, e non immiserire le preoccupazioni alla temuta irruzione di liste elettorali matrici di un bilioso campanilismo, di un etnocentrismo rovesciato, piccolo ma ugualmente sopraffattore.
L’identità come valore archetipo proprio di ogni comunità – che è l’ambito determinato da una comune cultura, antropologicamente intesa – trova espressione oggi in un bisogno reale, concreto, che le nostre società industriali e moderne, segnate dalla secolarizzazione, faticano a capire.
Ma non per questo ne risulta meno chiara la sostanza.

 

Ulderico Bernardi, docente di sociologia a Ca’ Foscari e all’Istituto Universitario di Bergamo, ha pubblicato Una cultura in estinzione (Marsilio, 1975) e Le mille culture (Coines, 1976). È considerato il massimo rappresentante della sociologia delle minoranze.