Passati sette anni dalla presa del potere, Mussolini si convinse che, dopo aver sconfitto gli avversari politici, il più grande ostacolo alla conquista del totale consenso nel mondo contadino fosse un robusto sentimento localistico che frenava il processo di omologazione degli italiani all’interno dello Stato verticistico, arroccandosi nella difesa dei dialetti e rifugiandosi nella cultura folkloristica.
Diede perciò il proprio consenso al più importante tentativo di omologazione nazionalista che, per evidenti motivi, riguardava la scuola: nel 1923, in un Paese dove gli italofoni erano una minoranza, per forzare le tappe verso l’unificazione linguistica venne varata la riforma “dal dialetto alla lingua” ideata dal pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, direttore generale dell’istruzione elementare. Il nuovo ordinamento rispettava e accettava il dialetto nelle classi, ma lo faceva per togliergli ogni autonomia, dimostrarne l’inadeguatezza nella vita sociale e utilizzarlo come “punto di partenza per arrivare consapevolmente alla lingua nazionale” 1) allo scopo di far accettare un “italiano medio, il più possibile privo di regionalismi” o, per meglio dire, “un italiano di tipo urbano sovraregionale” distinto da quello “rurale locale”. 2)
Ma l’esperimento di morbido indottrinamento doveva aver termine nell’anno scolastico 1930-1931 con l’introduzione del Testo unico per le scuole elementari; finché, nel 1934, ogni pur blanda utilizzazione del dialetto venne esclusa dai programmi scolastici dal ministro dell’Educazione Nazionale, lo spezzino Francesco Ercole.
Ormai l’obiettivo di uniformazione linguistica, almeno nella scuola (ma solo nel contesto delle lezioni dove l’insegnante obbligava alla disciplina), era stato raggiunto. Sterilizzato nell’àmbito scolastico, il dialetto che, nelle sue differenti espressioni, era strumento principe di comunicazione della stragrande maggioranza della popolazione, aveva però un’agguerrita schiera di estimatori, e il Regime doveva tenerne conto.

Le Piccole Patrie e i congressi dialettali

Già nel 1924 la Famiglia Meneghina aveva organizzato un primo, modesto convegno “polidialettale” a Milano,3) ma l’iniziativa aveva assunto rilievo soltanto nella primavera dell’anno successivo quando un incontro analogo si svolse nel capoluogo piemontese, per iniziativa della Pro Torino. La sua importanza veniva sottolineata sul quotidiano liberale della città dal poeta Nino Costa, il quale indicava il dialetto e il folklore come gli elementi che caratterizzavano quelle che definiva “Piccole Patrie”; considerando il dialetto “suono di una nota primitiva, originaria, che è segno della stirpe”, che si conservava vivo “sul mare magno della moderna esistenza cosmopolita”. Secondo lo scrittore, esso aveva “il dovere e il diritto di vivere poiché rispecchia le sensazioni e i sentimenti di un popolo e in fondo non è altro se non l’humus informe donde germoglia e sboccia il fiore della lingua”. 4)
Nel primo giorno del congresso torinese, gli oratori si trovarono d’accordo soprattutto nel ribadire il legame inscindibile tra cultura locale e sentimento nazionalistico, poiché

la nostra Italia, in questo meraviglioso rifiorire di energie, pure nel fremito di avanzare con ritmo veloce verso il progresso, vuole rimanere saldamente attaccata alle sue tradizioni, vuole essere solamente italiana. Il suo popolo inscindibile nella stirpe, e però così vario nelle manifestazioni e tendenze locali, vuole mantenersi ad esse fedele. 5)

Soltanto durante la seconda giornata l’ambiente sonnecchioso venne inaspettatamete vivacizzato dal rappresentante del Groupe d’Action Régionaliste Jeune Vallée d’Aoste, con un discorso che persino le stringate e riassuntive cronache giornalistiche presentavano in tutta la sua efficace determinazione: 6)

Se noi vogliamo che il folklore dia veramente risultati fecondi, dobbiamo prima di tutto cominciare dal rispettare i dialetti. E per il suo dialetto, e per il francese, che come lingua letteraria è, insieme con l’italiano, parlato e scritto nelle sue vallate, ha alzato la voce il prof. Chanoux, aostano. I valdostani sono attaccati al loro passato, che è un passato di fedeltà a Casa Savoia e del quale non si può avere ombra. “Nous sommes à vous”, essi dicono, ma voi non vogliate privarci della nostra lingua materna “che hanno parlato i nostri antenati, i nostri principi, i nostri signori castellani, da 14 secoli, quando voi ancora divisi e soggetti non avevate l’onore di possedere una lingua nazionale”. E speriamo che il loro grido sia inteso, come lo ha inteso e accolto il Congresso. 7)

Un discorso fermo e chiaro; quasi un monito a rispettare la parlata popolare. Ma questo legittimo desiderio poteva anche suonare minaccioso. E per non correre rischi il Regime sarebbe corso ai ripari.
Nelle gerarchie fasciste non tutti condividevano l’amore per le parlate e le tradizioni locali, con tutta evidenza espressioni d’una frammentarietà difficilmente compatibile con la pretesa uniformità linguistica e culturale del regno. Tanto più che esse potevano, anche solo potenzialmente, rappresentare un polo d’aggregazione per individui di sentimenti regionalisti o trasformarsi in isole di “a-fascismo”, non ostili ma indifferenti nei confronti della demagogia militarizzante del Duce.

L’Opera Nazionale Dopolavoro

Per impedire che forme concorrenziali di aggregazione potessero muoversi in pericolosa autonomia, con decreto del 25 maggio, nell’estate del 1925 veniva fondata l’Opera Nazionale del Dopolavoro, presieduta dal duca d’Aosta.
Il nuovo ente veniva presentato dal ministro dell’Economia Nazionale come lo strumento per “la più efficace utilizzazione delle ore dopo il lavoro, per realizzare la elevazione sociale intellettuale e fisica delle masse lavoratrici”, favorendo “l’esercizio delle multiformi attività ricreative e culturali” e impedendo che gli operai “sciupino le ore di riposo nelle bettole e nel vizio”.
Più esplicito, nel discorso pronunciato alla presentazione del nuovo sodalizio, il duca d’Aosta dichiarava che il vero obiettivo non era ludico ma educativo, giacché “temprando il corpo, perfezionando la cultura dei lavoratori, noi prepariamo l’Italia del domani che riprenderà nel mondo le tradizioni gloriose di Roma”. 8)
In pochi mesi, l’ond poteva vantare la partecipazione di tre milioni di concorrenti alle proprie competizioni sportive, l’adesione di un milione e mezzo di tesserati a gite ed escursioni, la costituzione di centinaia di società filodrammatiche, corali, bande musicali. Sempre a cura dell’ond, venivano proiettati documentari anche in zone isolate e trasmesse alla radio rubriche di “cultura generale, propaganda nazionale, sport, folklore, arte, economia domestica e agraria, previdenza sociale”; nonché fondate 1300 biblioteche distribuendo gratuitamente 120mila volumi. Secondo il direttore Enrico Beretta, l’azione dell’ente aveva “collaborato con il Regime nel combattere l’esodo delle categorie rurali dai centri rurali e affezionandoli maggiormente alla terra”. 9)

Tutte le iniziative furono improntate a un sentimento di concordia e di consenso, riuscendo a coinvolgere strati della popolazione da sempre lontani dalla politica. Per esempio, quando nelle valli di Lanzo venne organizzata un’oceanica “escursione dopolavoristica” di dodicimila operai torinesi, i giornali scrissero che la gente del posto aveva “entusiasticamente aderito mettendo i tricolori alle finestre delle case”, mentre i lavoratori-gitanti avevano riaffermato “la propria tradizione di disciplina e di correttezza individuale e collettiva”. 10)
L’iniziativa suscitò l’entusiasmo di Curzio Malaparte, che sulla prima pagina della “Stampa” la giudicò un “esperimento di singolare importanza, da cui si può misurare quanto il consenso del popolo sia spontaneo e profondo per gli istituti del Regime più intimamente aderenti alla vita dei lavoratori. Consenso che va oltre gli istituti stessi, e mostra quanto sia seria e realistica l’adesione delle masse alla politica sociale di Mussolini”. 11)

La crociata contro l’urbanesimo

In stretto parallelo con la formazione d’una struttura ricreativo-pedagogica che inglobava nell’orbita fascista anche lavoratori scarsamente o per niente politicizzati – che erano poi la stragrande maggioranza – partì una martellante campagna di stampa avviata dalla Federazione Nazionale Fascista degli Agricoltori per denunciare l’esodo dei rurali verso le città, chiedendo a gran voce provvedimenti governativi e l’“azione di una politica la quale si ispiri a considerare in ogni atto ed in ogni pensiero la vita dei campi pensiero e vita della nazione”. 12)
Per il critico fiorentino Emilio Cecchi, poi Premio Mussolini per la letteratura nel 1936, l’obiettivo era quello di “ritrovare il senso della terra e riaprir la strada verso la campagna”, ponendo fine all’“attuazione tumultuosa originata dalle conquiste industriali” quando “la fedeltà etnica si restrinse alla nazione, cioè al minimo indispensabile”. 13)
Dopo qualche mese, era Mussolini in persona a lanciare “un chiaro monito ai transfughi della campagna” 14) con quella che i giornali esaltarono come “crociata contro l’urbanesimo”, considerato un pericolo “nella vita del popolo italiano, chiamato ad essere un popolo volitivo contro i mali di una civiltà, che non può essere abbandonata ad un fatalismo suicida”. 15)
Parlando alla Camera, il Duce aveva indicato l’aumento della popolazione dei grandi centri urbani come un grave pericolo “dal punto di vista della sanità fisica e morale della stirpe”, 16) cosicché si studiarono “le modalità per il rimpatrio dei disoccupati convenuti nelle città da pochi mesi; l’opportunità che nessun movimento di mano d’opera possa effettuarsi se non per tramite degli uffici di collocamento e contemporaneamente rendendo più agevole la vita delle popolazioni agricole”. 17)
In realtà, Mussolini non aveva alcuna intenzione di favorire la permanenza dei contadini nelle terre dove avevano vissuto e faticato i loro antenati: la polemica serviva unicamente a giustificare i massicci trasferimenti di mano d’opera nelle zone di “bonifica integrale” dove costoro sarebbero stati degli sradicati senza legami territoriali, se non quelli ideologici dell’“uomo nuovo fascista”. Lo dimostra il fatto che quando nell’inverno del 1928 era stato creato dal governo il “Comitato permanente per le migrazioni interne”, non gli era stato affidato il compito di arrestare l’esodo dalle periferie, bensì di “agevolare la colonizzazione delle zone incolte, malcoltivate e scarsamente popolate del Mezzogiorno e delle Isole, con apporto di masse di migranti da zone di alta densità demografica”. 18)

Allo stesso tipo di dichiarazioni ufficiali con lodevoli proclami intenzionali, che però nascondevano intenti molto meno nobili, apparteneva la contemporanea riscoperta fascista delle tradizioni popolari, fino ad allora ben lontane dagli orizzonti culturali delle camicie nere delle città, ma improvvisamente diventate parte del loro bagaglio identitario.
Tuttavia, anche se non lo si affermava pubblicamente, il vero scopo della valorizzazione delle manifestazioni folkloriche era di tenere sotto stretto controllo sistemi di vita per definizione incontrollabili dal potere politico, in quanto espressione di eredità etniche particolari; ma soprattutto, nella loro diversità, oggettivamente negatrici della pretesa unitarietà dello Stato.
Organizzando il folklore, lo si voleva amputare delle sue forme più arcaiche e soprattutto disarticolare le componenti più indipendenti dei suoi protagonisti, mettendoli tutti sotto la paterna, benevola ma ferrea tutela del Fascio.

Il folklore all’ombra del Fascio

In effetti, come hanno ben sottolineato Antonino Blando e Rosario Perricone, fu proprio dopo il primo lustro di governo che il fascismo s’impegnò apertamente nella “rivalutazione della folkloristica” esaltando i pregi del vasto patrimonio d’usi e costumi dei ceti popolari, che fino a quel momento era stato considerato il sottoprodotto dell’arretratezza, o peggio l’espressione oggettiva d’una pericolosa “cultura localistica e antimoderna”. Perciò un partito che aveva fatto del centralismo e del gerarchismo la sua essenza, affiancava la valorizzazione del particolarismo all’esaltazione della Patria forte, omogenea, uniforme e compatta, guidata con polso fermo da Mussolini “che era riuscito a unire tradizioni diverse”.
Ovviamente, nell’àmbito di un regime che voleva essere totalizzante, questa valorizzazione si realizzava “slegata però da rivendicazioni di autonomia o autodeterminazione politica e inserita in un quadro di subordinazione gerarchica al corpo della nazione”. 19)

Il primo congresso sulle tradizioni popolari

Per dimostrare di far davvero sul serio, venne organizzato in grande stile il “Primo congresso nazionale di tradizioni popolari” a Firenze l’8 maggio 1929, nella sfarzosa cornice dei Palazzo Vecchio, con la sovrana presenza di Vittorio Emanuele III. 20)
Come dichiarò il romagnolo Paolo Toschi, vera anima dell’incontro, le tradizioni popolari costituivano “un complesso importante di forme di arte e di vita che il genio del nostro popolo, nella varietà delle sue razze e nella unità del suo spirito fecondo ha saputo creare e conservare attraverso i secoli” ed in questo senso andavano conservate e studiate. 21)
Facendo presiedere le sedute dal senatore Vittorio Cian, presidente dell’Istituto Fascista di Cultura, l’assise venne subito messa sotto stretta tutela politica, e i congressisti non crearono polemiche di sorta benché il tema del dibattito, Concetti e limiti della letteratura popolare, toccasse il nervo scoperto della catechizzazione intellettuale dei ceti subalterni.
L’interesse degli studiosi era piuttosto rivolto alla promessa governativa di realizzare presto con fondi statali “una ricca fonoteca” del folklore. 22) E praticamente tutti concordarono con il ministro Alessandro Martelli, inviato da Mussolini “per incoraggiare gli studi su quelle manifestazioni dello spirito e sulle particolari costumanze, che pur esplicandosi nelle singole regioni italiane, rivelano i segni della nostra civiltà millenaria, e valgono ad imprimere ad una moltitudine il carattere unitario di popolo”. 23)
Analoghi concetti espresse il segretario del congresso, il siciliano Giuseppe Cucchiara, il quale più di altri sapeva comprendere lo scopo dell’iniziativa, sostenendo che “l’Italia fascista” doveva valorizzare le diverse tradizioni popolari “dalle Alpi all’Etna” perché, ben lungi da essere espressioni di culture tra loro differenti, facevano invece “apparire affini” tutti gli italiani, superando pregiudizi e contrapposizioni e contribuendo così alla formazione di “una forte coscienza nazionale”. 24)
Tra gli studiosi intervenuti, l’unico fuori dal coro delle minuzie accademiche era il professore marchigiano Giovanni Crocioni, il quale fin dal 1914 s’era detto regionalista convinto, in un’Italia sul piede di guerra e dunque soggetta a forti spinte centraliste, mettendo nero su bianco nel volumetto Le Regioni e la cultura nazionale 25) originali e profonde riflessioni anche sul rapporto tra istituzioni locali e cultura popolare. Egli sosteneva, in qualche misura per primo, che solo basandosi sui valori identitari profondi espressi nel folklore si poteva far nascere un’Italia unita sì, ma nel pieno rispetto delle sue differenti realtà territoriali; ben convinto della “necessità del decentramento regionale, l’opportunità di rinsanguare la cultura nazionale per mezzo di quella regionale, l’utilità di strutturare una scuola più attenta agli aspetti regionali, ai dialetti, al folklore”. 26)

Giovanni Crocioni.

Esponendo simili idee al congresso, egli si distinse nettamente da una folla di personaggi i quali, in fondo, guardavano da fuori e con distacco il mondo delle classi subalterne e marginali, senza comprendere l’essenza della loro concezione del mondo e della vita che li portava a elaborare una cultura alternativa. Cultura che Crocioni non voleva solo studiare, ma fare del suo complesso valoriale la base ideale per un rinnovamento politico. Idee ardite nell’Italia fascista, nella quale cresceva l’insofferenza per il conservatorismo che minacciava d’intralciare il passo evolutivo della nuova società plasmata da Mussolini.
Iniziarono le critiche, e già pochi mesi dopo l’assise che aveva celebrato le tradizioni popolari vennero pubblicamente espresse le prime critiche alla loro conservazione:

I costumi mal s’adattano all’urgenza della vita moderna; e infine, un popolo non può adattarsi ai più umilianti confronti, per il bel gusto di tener fede ad una tradizione impacciata, irretita da costumanze tramandate dai tempi in cui non esistevano le macchine. Improntarsi a salvare fin nei minimi particolari tale tradizione, è cocciutaggine che porta dritto alla rettorica, alla maniera e al decandentismo, se non addirittura al peggiore degli estetismi, cioè l’estetismo regionale e paesano”. 27)

La reprimenda anti-misoneista non partiva da uno qualunque ma da Giovanni Battista Angioletti, che dirigeva la prestigiosa “Italia letteraria”. La sua era una critica radicale che tuttavia non raccolse reali entusiasmi in un Paese sostanzialmente conservatore. Almeno per il momento.

Bernardy e la “rinascita regionale”

Nel 1930 l’indubbio successo degli studi folkloristici e la valorizzazione delle feste e manifestazioni popolari da parte delle organizzazioni del Regime, autorizzarono l’Istituto Nazionale Fascista di Cultura a pubblicare dalla “Libreria del Littorio” – e dunque con una veste semi-ufficiale – un opuscolo d’una attivissima e molto nota folkorista toscana, Amy Allemand Bernardy, dal titolo tutto ottimista di Rinascita regionale, dove si registrava che ormai “la rinnovata Italia cerc[ava] con occhi curiosi e freschi e con animo vigile e intenso, nello spirito e nell’aspetto di ciascuna nostra regione il segreto della magia per cui l’Italia incatena gli spiriti del mondo”.

Amy Allemand Bernardy.

Perciò gli alti valori nazionalistici e patriottici venivano ritenuti più che compatibili con la “messa in valore del nostro patrimonio particolare di tradizioni”, superando le ritrosie del passato, quando “si temeva che lo spirito di regionalità potesse deformarsi in campanilismo o degenerare in separatismo da una parte, sia perché si aveva paura di sembrare provinciali e antiquati dall’altra”.
Adesso che grazie a Mussolini lo Stato era solido e forte, e la coscienza nazionale era radicata e ben salda, e le organizzazioni di Regime monopolizzavano ogni iniziativa, si poteva tranquillamente far ancora sopravvivere “un’Italia inaspettata e sorprendente” dove “le piccole patrie integrano e intensificano colla dolcezza familiare dei ricordi e colla cara persuasione del sentimento l’amore altèro e complesso della Patria una e grande, nel cui volto le piccole patrie sono tutte riflesse”. 28)
Ma questo della Bernardy era un canto del cigno.
Nell’Italia che sognava orizzonti imperiali e un popolo di guerrieri fanatizzati dall’ipernazionalismo, non c’era posto per questo illusorio federalismo in camicia nera.

Strumentalizzazione fallita

Trascorso quasi un decennio dalla presa del potere, per il fascismo era tempo di bilanci anche in tema di cultura popolare, linguaggio e tradizione.
Dialetto e folklore resistevano nella scuola che tollerava e comunque manteneva viva la parlata vernacolare, con gli studi etnologici che raccoglievano e valorizzavano le tradizioni e con la conservazione e riproposizione delle feste paesane o religiose da parte di gruppi spontanei di appassionati.
Fino a quel momento i seguaci di Mussolini si erano mostrati convinti che, come tante tessere d’un mosaico armonico, le manifestazioni localistiche fossero compatibili con un unico disegno di “valori nazionali”; e che, tenute assieme dalla benevola accondiscendenza del Duce, esse offrissero “all’Italia e al mondo una testimonianza stupenda della genialità e della ricchezza spirituale della nostra stirpe”. 29)
Ma era il momento di voltare pagina.
Cominciava a dar fastidio che nelle “scuole complementari” previste per i ceti rurali e popolari dalla riforma Gentile, la lingua ufficiale dello Stato restasse a galleggiare sulla superficie d’una marea dialettofona in ogni occasione in cui il controllo gerarchico si allentava. Preoccupava che gli studi della mentalità popolare espressa nel folklore rivelassero la persistenza di un’universo valoriale incompatibile con la retorica guerrafondaia del Regime. Cosa più grave di tutte, diversi gruppi spontanei creati per organizzare il tempo libero in autonomia e sul solco delle consuetudini, anziché “fascistizzarsi” nell’ond resistevano a ogni omologazione.
Ce n’era abbastanza per convincere Mussolini che l’uso strumentale del folklore era fallito.
Se con il manganello e l’olio di ricino, facendo leva sul trasformismo e il carrierismo, aveva estirpato il cancro tutto ideologico del “sovversivismo”, adesso il Duce si convinceva dell’impossibilità di far coesistere, in un parallelismo pericoso, le oceaniche adunate disciplinate e instivalate con i riti ludici ereditati da una tradizione spesso millenaria e, oltretutto, territorialmente circoscritta.
Ecco allora che la musica doveva cambiare.
Tanto più che il demagogo aizzapopoli d’una volta, ancorché impettito in posa marziale, in fondo in fondo non amava né aveva mai amato campanilismi e localismi, sognando da megalomane il “fascismo universale”.

Mussolini vuole un’Italia monolingue

Come sempre, Mussolini aveva (almeno) due volti, e anche nei confronti dei problemi linguistici e regionalisti era una sorta d’inaffidabile Giano bifronte.
Pubblicamente si mostrava favorevole alla valorizzazione delle tradizioni della propria regione, sostenendo la Famiglia Romagnola del capoluogo lombardo dove il fratello Arnaldo era di casa e intervenendo di persona nella primavera del 1927, malgrado tutti gli impegni di governo, all’inaugurazione della nuova sede. 30)
In quell’occasione il Duce era stato nominato presidente onorario e si mostrava compiaciuto di conversare coi conterranei “nel loro caldo dialetto”, apprezzando l’attività dell’associazione regionalista per “cementare i rapporti di affettuosa cordialità tra i romagnoli residenti a Milano”. 31) Sembrava proprio un autorevole avallo alle attività culturali che valorizzavano le identità locali, promuovevano l’uso dei dialetti e favorivano un dialogo speciale tra conterranei.
Ma non era così.
Se sotto i riflettori Mussolini ostentava la propria romagnolità, in un contesto più riservato il suo pensiero era di assoluta contrarietà alle manifestazioni di appartenenza regionale. Le parole pronunciate dal Duce di fronte ai segretari federali del pnf del Piemonte chiamati a rapporto il 15 gennaio 1930 sono, a tal proposito, estremamente chiare e nette sul suo programma in campo linguistico.
Dopo aver precisato che nei confronti della francofonia nella Provincia di Aosta il “criterio seguito dal Governo è di eliminare gradatamente l’uso del francese, non per timore di allogenismo ma per l’unità di lingua della Nazione”, il Capo del Fascismo rivelava che il suo vero obiettivo era di fare dell’Italia

uno Stato assolutamente unilingue. Capisco poco i dialetti, i poeti dialettali ecc. sopratutto mi preoccuppo che una sola lingua sia parlata in tutta Italia. A questo bisogna arrivare con gradi di azione diversi; diversi cogli Jugoslavi che ci sono ostili, diversi coi Tedeschi dell’Alto Adige; diversi coi Valdostani che ci sono fedelissimi, altrimenti finiremmo per farli anche pensare in francese. Da questo lato sopratutto gli Enti pubblici, le istituzioni che devono agire.
Non bisogna, d’altra parte, meravigliarsi di ciò; abbiamo casi in Prov. di Campobasso dove si parla in croato, casi di albanese in Calabria e in Sicilia.
In conclusione, tollerare con opportunità ma mirare all’unitarietà; senza urtare, però; e non curarsi dei Preti che parlano in francese perché ciò dipende da questioni di borsa. 32)

Non poteva essere più chiaro.
Trattandosi di conversazioni riservate, Mussolini poteva esprimere senza reticenze le ragioni profonde che motivavano la sua ostilità nei confronti delle parlate locali: rivelatrici delle sue effettive volontà di estirpare, sulla scia delle violenze risorgimentali, tutte le espressioni culturali legate all’identità delle tante etnie costrette a diventare esclusivamente “italiane”.
Le parole pronunciate dal dittatore non potevano restare senza conseguenze, e infatti, guarda caso, furono seguite quasi subito da una intensa e feroce campagna antidialettale.
A dar fuoco alle polveri della polemica provvide il giornalista e deputato Paolo Orano intervenendo alla Camera, pochi giorni dopo la sparata liberatoria antipassatista del Duce ai gerarchi subalpini, nel corso di una discussione sul bilancio del ministero dell’Educazione Nazionale.
Sono parole che stupiscono sulla bocca di un uomo che prima di aderire al fascismo era stato un militante del Partito Sardo d’Azione, e adesso si scagliava contro uno degli elementi distintivi dell’identità isolana. Ma la filippica non ammetteva repliche:

Il dialetto ritarda il progresso di italianizzazione della lingua e conserva le diverse anime, e a questo si deve se il mercato librario è così ristretto per il libro italiano in Italia. La dialettalità costringe ad una certa età il fanciullo a tradurre. È una fatica assai simile a quella dello straniero. Vi sono almeno 10 dialetti in Italia che costituiscono altrettanti mondi chiusi. La lingua italiana deve invece, nel più breve tempo possibile, diventare l’unica voce del popolo italiano. 33)

Era farina del sacco di Orano? O gli era stato chiesto di fare da battistrada a una lotta politica ritenuta ormai necessaria? Non lo sappiamo. Anche se è certo che per i “regionalisti”, per i “dialettofili” e un po’ anche per i “folkloristi” cominciavano i tempi bui.

Anacronistici per il Duce i sodalizi regionali

Il 21 luglio 1932 appariva sul quotidiano dei Mussolini la notizia, apparentemente minore, che i dirigenti della “Associazione tra Emiliani e Romagnoli residenti in Roma” avevano sciolto il loro sodalizio, considerandolo ormai superato da uno “spirito rinnovato e saldo di unità nazionale” dove nostalgie campaniliste non avevano più senso. Il piccolo evento assunse subito grande importanza per chi voleva capire e subito adeguarsi allorché “Il Popolo d’Italia” pubblicò integralmente una lettera inviata da Mussolini al presidente del sodalizio:

Egregio comm. Orlandi,
avete fatto molto bene con lo sciogliere la vostra associazione e tale vostro esempio io addito alle altre associazioni, alcune delle quali, componendosi di gente nata ai confini del Lazio, sono veramente e più di altre, assurde.
Associazioni a tipo regionale a Roma, Communis Patria, non hanno ragione di essere, specialmente dopo la guerra e la rivoluzione fascista. Contro questo residuo anacronistico e melanconico, si schierarono in altri tempi uomini di forte tempra e di alto intelletto. Non sarà, forse inopportuno ricordare quanto disse Matteo Renato Imbriani il 13 giugno del 1891 alla Camera italiana: “Signori, l’idea del regionalismo risorge; pare strano ma, a mano a mano che tramontano tutti coloro che hanno realmente contribuito ad edificare questa Italia, pare che vi sia come una gara di passioni, le quali trascinano a far risorgere qua lombardi, là piemontesi, toscani, napoletani, siciliani.
Un esempio ne avete in questa Roma che dovrebbe essere il simbolo dell’unità di tutte le forze nazionali e dove, invece, vedete sorgere, grettamente tante associazioni ed associazionelle: E gli umbri sabini, e i romagnoli, i veneti, i siciliani e abbruzzesi e via dicendo. Perfino a me hanno mandato tre o quattro inviti per partecipare ad una associazione dei meridionali del continente, ma questi inviti io gli stracciai!
Io mi sento italiano, nient’altro che questo.
Voci: Ha ragione.
Una voce all’estrema sinistra: “Siete ingiusto, Imbriani” “No, non è ingiustizia. Queste stesse parole io pronunciai l’anno scorso, quando fui invitato ad assistere ad un banchetto dell’Associazione romagnola ed in seno all’Associazione stessa. E quei nobili popolani compresero il significato delle mie parole le quali non potevano suonare nè insulto nè ingiustizia”.
Subito dopo, Giosuè Carducci andava a rincalzo di queste fiere parole, con una lettera a M. R. Imbriani (Lettere di G. Carducci pag. 302 1852-1911) così: “Come avete detto bene contro le associazioni regionali in Roma! In Roma specialmente siamo tutti italiani sempre e solo italiani. In Roma e dappertutto!”.
Dopo 40 anni, la questione ha perduto ogni qualsiasi significazione politica. Il regionalismo, come tendenza e fatto, è tramontato definitivamente, salvo in queste associazioni, che possono anche esse tramontare.
MUSSOLINI. 34)

Non si trattava di parole di circostanza, perché i “moniti del Duce” erano veri e propri ordini: liquidare le associazioni regionaliste, con il cameratesco consenso autolesionista dei loro soci.

Lo scioglimento della Famija Turinèisa

Ci fu una svolta, e la pagarono subito cara proprio i gruppi che per anni avevano campato allegramente col pretesto del folklore e della tradizione. Costretti in un quattro e quattr’otto a chiudere bottega.
La vicenda più eclatante di smantellamento di cenacoli per la valorizzazione delle identità regionali, purtroppo poco conosciuta nei suoi sconcertanti particolari, 35) può essere considerata la liquidazione nel 1932 della Famija Turinèisa, un’associazione molto radicata nel tessuto civile e culturale di una città fiera del proprio passato, convinta a tener vive le proprie tradizioni, ancora largamente piemontofona in tutti gli strati sociali e che proprio in quel frangente vedeva una forte ripresa di interesse dialettale, la nascita di nuove riviste in piemontese 36) e una produzione di opere vernacolari di tutto rispetto, e dopo che nel 1930 l’editore Andrea Viglongo aveva pubblicato un primo libro in piemontese con la grafia normalizzata stabilita assieme a Giuseppe Pacotto. 37)
In questo contesto di fervore dialettale, la fine del sodalizio familiarista dava una battuta d’arresto alla valorizzazione delle specificità locali, poiché privava poeti e scrittori di un luogo sicuro di confronto e d’incontro, costringendoli a mettersi sotto l’ala protettiva ma occhiuta dei sodalizi ufficiali del regime.


Per la verità l’associazione era tutt’altro che un covo di pericolosi oppositori, anzi.
Lo si era ben capito in occasione delle elezioni farsa del 24 marzo 1929, quando Mussolini voleva un voto di consenso alle liste plebiscitarie per una Camera dei Deputati ormai priva di ogni potere.
Poco prima dell’apertura dei seggi elettorali, in palese violazione del proprio statuto che ne proclamava l’assoluta apoliticità, la Famija Turinèisa invitava con un appello in lingua piemontese a recarsi al voto per esprimere consenso al simbolo “cha porta la bandiera tricòlòr, cola dël 21 e dël 48, cola che, a lë stemma d’ij Savoia a l’ha unì ‘l Fascio Littorio” capeggiata da Mussolini, “l pì grand patriota ch’a l’abia ancheui l’Italia”. 38)
Anche alla fine del 1931, allorché venne costituita a Milano la Famija Piemonteisa degli originari d’oltre Ticino residenti nel capoluogo lombardo, la delegazione torinese pur parlando “nella più pura favella di Gianduja” ricordava che la nuova associazione gemella nasceva nella “giornata dell’11 novembre, genetliaco del Sovrano, nella cui Maestà gloriosa si perpetuano le tradizioni più fulgide del Piemonte e si esprime, insieme, l’intangibile unità della grande Italia fascista”. 39)
La fedeltà alla Corona e al Duce era assicurata. Ma a Mussolini non bastava.

Suicidio in “stile fascista”

La sera del 26 luglio 1932 il presidente della Famija Turinèisa Scipione Vaschetti riuniva il consiglio direttivo e, ricordando che l’associazione si vantava d’aver sempre operato “tenendosi metodicamente lontana da ogni forma di regionalismo”, dopo aver “riaffermato lo schietto spirito fascista della Famija”, faceva deliberare lo scioglimento del sodalizio che veniva assorbito nelle attività culturali dell’Istituto Fascista di Cultura e in quelle ricreativo-sportive dell’Opera Nazionale Dopolavoro.
La cerimonia durò un’oretta scarsa e la scelta liquidatoria venne salutata sulla stampa cittadina come una scelta “nobile e significativa”, presa, come viene sottolineato, “con stile fascista”, compiendo spontaneamente “un atto di coraggio e di consapevole disciplina”, rispondendo sollecitamente ai “desiderata” del Duce. 40)
Con il consenso del segretario federale del pnf Andrea Gastaldi, il gonfalone sociale venne solennemente consegnato alla Casa Littoria. 41)
A onor del vero, il servile naufragio dell’autonomia della benemerita associazione sotto la Mole era stato preceduto dallo scioglimento della Associazione dei Pugliesi, e il suo presidente Rango D’Aragona lo motivava “inneggiando al Fascismo che affratella tutti gli Italiani nel segno del Littorio”. 42)
In piena estate, la Famiglia Romagnola si fascistizzò per intero, mutando nome e diventando Circolo Culturale 23 Marzo. 43)
Non aveva e non creava problemi di sorta la Famiglia Meneghina, che continuò a operare tranquillamente pur inglobata, come quella subalpina e tutte le altre, nell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista. 44)

Declino dei congressi sul folklore

Non avranno più storia né il secondo Congresso sulle tradizioni popolari svoltosi a Udine dal 5 all’8 settembre 1931, praticamente ignorato anche perché soverchiato per importanza da un concomitante incontro romano di studi demografici; 45) né l’ultimo, tenutosi a Cagliari pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e imperniato solo sul tema Unicità delle arti e tradizioni popolari sui mari d’Italia, politicamente strumentale alle rivendicazioni territoriali che si sperava di avanzare dopo un conflitto creduto vittorioso. 46)
Tra i due consessi, quello grigio e stanco di Trento dell’autunno 1934, caratterizzato dall’invettiva ammonitrice del senatore Bodrero che insisteva sulla “necessità di cancellare qualunque forma di regionalismo”, calorosamente applaudito da una platea di studiosi convocati per documentare “nella multiforme anima italiana, il fondo comune, nazionale e storico, da cui tutte le tradizioni derivano per accostarsi così sempre più allo spirito unitario della Patria”. 47)

Fine ingloriosa del “fascismo regionalista”

L’epoca della valorizzazione delle identità etniche da parte del fascismo terminava nel momento in cui un regime che aveva al centro della propria dottrina l’esaltazione dello Stato monolitico ed onnicomprensivo, decideva di liquidare nostalgismi passatisti, quali che fossero.
All’inizio degli anni Trenta, Mussolini si era convinto, non a torto, di essersi liberato della zavorra delle nostalgie del buon tempo passato, delle parlate paesane, delle feste d’origine antica, dei contrasti campanilistici che rappresentavano un ostacolo da rimuovere sulla via della creazione dell’uomo nuovo in camicia nera.
Anche l’anonimo piccolo fascista di provincia, se guardava al passato, non lo faceva più per rimpiangere il “mondo piccolo” delle patriarcali famiglie perdute nelle campagne o sui monti; ma, indottrinato con massicce dosi di retorica, uscito dall’isolamento, rivendicava la nobiltà della propria stirpe nelle glorie imperiali della superiore civiltà guerriera dell’Urbe eterna, trovando nelle organizzazioni di massa dopolavoristiche i buoni maestri pronti a spiegargli che “con l’affermarsi del Fascismo e con la sua volontà precisa di porre gli italiani di fronte a se stessi, cioè di fronte alla propria natura e alla propria storia, alla propria origine e ai propri fini, è venuto di conseguenza esaurendosi il carattere o sentimento regionalistico che coincide col decadere di quei valori ai quali si deve la supremazia eroica dei nostri tempi più gloriosi”.
E l’approdo ideale finiva nella lusinghiera scoperta di non essere un povero discendente dei “servi della gleba”, bensì l’erede dell’“energia vivificatrice e unificatrice di Roma”.
Ed era già una soddisfazione per gli sradicati che costruivano le città del Duce impantanati nelle bonifiche, per i disoccupati mandati a creare un impero in Africa, ma anche per il contadino che per la prima volta ascoltava la radio, così come per il misero maestro di scuola che indossando gli stivali al “Sabato fascista” si sentiva un condottiero nel comandare dei ragazzotti quasi sempre muti, ché ormai era proibito ai giovani di parlare dialetto in pubblico.
Il piccolo borghese che cercava di salire la scala sociale buttava volentieri via l’individualismo del passato, infilava una divisa e si sentiva protagonista della “rivoluzione fascista” che si andava compiendo – scrivevano i menestrelli d’una stampa servile – “debellando i propri interessi particolaristici, i propri egoismi, le proprie miserande aspirazioni, sostituendo a una veduta gretta e a una morale dubbia un sentimento largo di generosità e di giustizia, superando le questioni individuali e fondendole nel bene di tutti e nella fortuna della Nazione”. 48)
Il caldo della battaglia della Patria armata sostituì il tepore del focolare.
Fino al brusco risveglio della guerra.

N O T E

1) Silvia Demartini, Dal dialetto alla lingua negli anni Venti del Novecento. Una collana scolastica da riscoprire, in Letteratura e dialetti, 2010.
Con approvazione della Commissione Ministeriale per i libri di testo vennero diffusi nelle scuole manuali di Esercizi di traduzione per i dialetti della Calabria, Liguria, Lombardia, Venezie, Palermitano, Campania, Milanese, Sardegna, Toscana, Abruzzi, Puglie, Emilia e Piemonte; quest’ultimo curato da Benvenuto Terracini che propose un piemontese di koinè a base torinese.
2) Gabriella Klein, La politica linguistica del Fascismo, Il Mulino, 1986.
3) Umberto Cosmo, I dialetti d’Italia, “La Stampa”, 19 aprile 1925.
4) Nino Costa, Alla vigilia del Congresso dialettale – La piccola patria, “La Stampa”, 18 maggio 1926.
5) L’Italia folkloristica a Congresso, “La Stampa”, 22 maggio 1926.
6) Roberto Gremmo, Alle spalle di Chanoux. Separatisti e autonomisti nella Resistenza valdostana, Storia Ribelle, 2010.
In val d’Aosta un forte legame alla propria specificità culturale e linguistica si era manifestato in modo organizzato fin dal 1912 quando era stata fondata la Ligue valdôtaine pour la protection de la Langue française animata dal Vincenzo Réan che doveva morire nella grande guerra.
Anselmo Réan, Le condizioni linguistiche francesi della Valle d’Aosta, “Il Piemonte”, 14-15 novembre 1925.
Diretta poi da Anselmo Réan, la Ligue nel 1919 aveva chiesto al presidente Orlando di tutelare la specificità linguistica valdostana e successivamente non aveva nascosto le proprie simpatie per Mussolini, facendo appello pubblicamente “all’alto senso politico ed alla magnanimità personale” del capo dei fascisti affinché venisse “mantenuto intatto il nostro patrimonio linguistico”.
Anselmo Réan, Aira Gallo, Savino Lavanche, Corrado Binel, Leopoldo Marcoz, Federico Chabod, Le condizioni linguistiche francesi nella Valle d’Aosta, “Il Piemonte”, 12-13 dicembre 1923.
Nel 1923 il fiduciario del Partito Nazionale Fascista per il Piemonte, Piero Mongini, pensò addirittura di pubblicare un giornale dal titolo “Chemise Noire Valdôtaine” per la propaganda in una vallata dove “i montanari valdostani, pur usando dialetto e lingua francesi sono profondamente ed intimamente italiani e prova ne sia il contributo ingente di sacrificio dato per la guerra e per le battaglie fasciste”.
Archivio Centrale dello Stato. Mostra della Rivoluzione Fascista (busta 48). Partito Nazionale Fascista, Federazione Provinciale Piemontese, “Al Comm. Nicola SANSANELLI Vice-Segretario Generale del pnf, ROMA”, 1 agosto 1923.
Il progetto venne accantonato pur avendo ricevuto l’approvazione dei vertici fascisti,
Roberto Gremmo, Chemise Noire Valdôtaine e il fascismo in lingua francese, “Storia Ribelle” n. 26, Inverno 2009-2010.
Réan ebbe ancora nel 1926 l’autorizzazione a pubblicare in francese il “Bulletin de la Ligue Valdôtaine” e l’attività del suo sodalizio non trovò ostacoli se non nel disinteresse popolare che ne decretò l’estinzione.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (Pubblica Sicurezza – Categoria F1, busta 39). Procura Generale di Torino, “Bulletin de la Ligue Valdôtaine”, 5 febbraio 1926.
Negli stessi anni la difesa delle tradizioni locali trovò un punto di riferimento nell’associazione “Pro Valle d’Aosta” diretta dall’onorevole fascista Gino Olivetti e dal grand’ufficiale De Albertis.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (Pubblica Sicurezza, Categoria G1 – anni 1912-1945, busta 191). Regia Prefettura di Torino, “Associazione Pro Valle d’Aosta”, 21 ottobre 1926.
Ebbe invece poca fortuna la Jeune Vallée d’Aoste d’ispirazione cattolica fondata in quel frangente dal canonico Joseph Trèves. L’associazione si definiva “Groupe d’Action Régionaliste” ma inalberava un emblema dove lo stemma dell’antico Ducato d’Aosta e due stelle alpine erano inserite in uno scudetto con la bandiera tricolore italiana, e i suoi promotori s’erano comunque premurati di chiarire pubblicamente che “le culte de la petite patrie constitua la meilleure garantie de l’attachement envers la Grande”, cioè l’Italia.
La Jeune Vallée d’Aoste (Groupe d’Action Régionaliste) – Statuts, 1926; Un essai nel “Duché d’Aoste”, 15 aprile 1925.
Rinchiusa in uno spazio politico e culturale angusto, la “Jeune Vallée d’Aoste” svolse un’attività piuttosto modesta e “venne dopo qualche anno di vita grama ad estinguersi per consunzione”.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (Pubblica Sicurezza – Categoria G1, busta 39). Regia Prefettura di Aosta, “Jeune Vallée d’Aoste, pretesa società clandestina”, 4 dicembre 1932.
Studente universitario a Torino, Emile Chanoux aderì a questo movimento e dal 1923 collaborò firmando prudentemente con l’abbreviazione Chan. E. Anche al periodico “La Vallée d’Aoste”, pubblicato a Parigi dal suo compaesano di Villeneuve, abate Augusto Cesare Emanuele Pétigat.
Questo sacerdote determinato, brillante e volitivo era anche un abile organizzatore e da anni rappresentava un sicuro punto di riferimento per tutti gli emigrati valligiani in Francia cui forniva la necessaria assistenza nelle pratiche burocratiche, per le rimesse di fondi in Italia, nella ricerca di posti di lavoro, aiutandoli anche a mantenere uno stretto legame culturale e spirituale con la regione d’origine.
Pétigat era però malvisto dalle autorità fasciste che nel 1930 gli rimproveravano di pubblicare il suo giornale solo in lingua francese “compiendo opera contraria agli interessi italiani” e l’accusavano di fare “spesso trasparire la sua disapprovazione alla politica del Governo Nazionale […] pur facendo saltuariamente atto di omaggio alla Casa Sabauda”.
Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale (busta 3898). Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza – Divisione Affari Generali e Riservati “COPIA del telespresso N. 306630/1856 in data 4 aprile 1930 (anno VIII°) pervenuto dall’On. Ministero degli Affari Esteri – Affari Riservati”, 13 aprile 1930.
Tra il 1925 e il 1930 venne proibita la diffusione in Italia del suo periodico proprio mentre lo spregiudicato sacerdote aveva mutato “il suo subdolo atteggiamento politico in modo da essere ritenuto se non fascista, neppure però […] torbido elemento antinazionale”.
Il periodico di Pétigat venne sequestrato in Italia la prima volta per l’articolo La guerre honteuse déclarée au français depuis 1860, pubblicato il 6 giugno 1925, perché avrebbe contenuto “notizie false e tendenziose improntate ad ingiuriosa diffamazione del Governo e con intenzione scandalistica, atte a danneggiare il credito nazionale all’estero”.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (Pubblica Sicurezza – Categoria F4, busta 94). Prefettura di Torino “Sequestro del giornale LA VALLEE D’AOSTE”, 10 giugno 1925.
Il numero del 13 giugno 1925 venne sequestrato per l’articolo Le français en Vallée d’Aoste a firma Emeric Frassy dove la difesa della lingua locale diventava pretesto per contrastare la presenza degli immigrati delle altre regioni italiane, poiché l’autore denunciava l’intollerabile situazione in cui in valle “l’Etranger vient, s’implante, parle sa langue, s’impose (en Amérique on le déclarerait indésirable) et le Valdôtain s’incline, accepte de changer de langage, et de là des lacunes regrettables. L’un déclame en français, l’autre catechise en italien…”.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (Pubblica Sicurezza – Categoria F4, busta 94). Prefettura di Torino “Sequestro del giornale LA VALLEE D’AOSTE”, 18 giugno 1925.
La diffusione della “Vallée d’Aoste” venne definitivamente vietata in Italia dopo la pubblicazione di una “velenosa nota” che criticava la rimozione della scritta in francese Palais de Justice dalla facciata del tribunale di Aosta. A quel punto, lo spregiudicato sacerdote aveva mutato “il suo subdolo atteggiamento politico in modo da essere ritenuto se non fascista, neppure però […] torbido elemento antinazionale”.
Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, busta 3898). Regia Prefettura di Aosta “Petigat Augusto Cesare Emanuele…”, 16 maggio 1930; Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale (busta 3898). Direzione Generale della Pubblica Sicurezza – Divisione Affari Generali e Riservati “COPIA del telespresso N. 306630/1856 in data 4 aprile 1930 (anno VIII) pervenuto dall’On. Ministero degli Affari Esteri – Affari Riservati”, 13 aprile 1930.
Dopo la laurea in legge, Chanoux s’era distinto come disciplinato ed efficiente segretario comunale in alcuni comuni valligiani iscrivendosi regolarmente al Partito Nazionale Fascista il 21 aprile del 1928.
Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Torino, “Informazioni sul conto del Dott. CHANOUX Emilio di Pietro”, 1 settembre 1937. Pubblicato da Louis Roger Dempsey, La vie et l’oeuvre d’Emile Chanoux, Arti Grafiche Duc, 1987, con l’indicazione che l’originale si trova “aux Archives du Gouvernement régional de la Vallée d’Aoste (Aoste)”.
7) Folklore e Atlante linguistico al Congresso dei dialetti, “La Stampa”, 23 maggio 1929.
8) L’opera nazionale del “Dopo Lavoro” – La cerimonia presieduta dal duca d’Aosta, “La Stampa”, 29 luglio 1925.
9) La vasta attività del Dopolavoro e il suo crescente sviluppo, “La Stampa”, 13 agosto 1929.
10) Coassolo – La prima grande manifestazione escursionistica veramente operaia, “La Stampa”, 8 settembre 1929.
11) Curzio Malaparte, Un’altra lezione, “La Stampa”, 10 settembre 1929.
12) Giovanni Raineri, Esodo dalle campagne e natalità, “La Stampa”, 9 aprile 1927.
13) Emilio Cecchi, Urbanesimo e campanilismo, “La Stampa”, 18 maggio 1928.
14) Dalla metropoli al borgo, “La Stampa”, 23 novembre 1928.
15) La crociata contro l’urbanesimo, “La Stampa”, 27 novembre 1928.
16) Il problema dell’urbanesimo posto da Mussolini all’ordine del giorno della Nazione, “La Stampa”, 5 dicembre 1928.
17) La ripercussione in Italia della parola d’ordine contro l’urbanesimo, “La Stampa”, 25 novembre 1928.
18) Relazioni e progetti di legge per la ripresa parlamentare, “La Stampa”, 13 novembre 1928.
19) Antonino Blando – Rosario Perricone, Giuseppe Cocchiara, il fascismo e il razzismo, in Folklore, razza, fascismo, a cura di Fabiana Dimpflmeier, Leo S. Olschki editore, 2023.
20) Folklore d’Italia – I lavori del Congresso fiorentino, “La Stampa”, 10 maggio 1929.
21) Paolo Toschi, Una proposta. Per una raccolta nazionale delle tradizioni popolari italiane, “Il Resto del Carlino”, 1 dicembre 1926.
22) Il Congresso del folklore – Letteratura e tradizioni, “La Stampa”, 11 maggio 1929.
23) Il Congresso delle tradizioni popolari, “La Stampa”, 9 maggio 1929.
24) Giuseppe Cocchiara, Il convegno folkloristico di Firenze e il suo significato nazionale, “Giornale di politica e letteratura”, luglio 1928.
25) Pubblicato nella collana “Scuola e Vita” diretta da Giuseppe Lombardo-Radice, il volumetto esponeva tesi che andavano oltre la semplice difesa delle parlate dialettali ma, pur senza mettere in discussione l’unicità dello Stato, ne auspicavano una diversa articolazione istituzionale basata sul riconoscimento che “le diversità territoriali, etniche e storiche, hanno creati e accentuati nelle singole regioni bisogni speciali, che uno stato moderno e provvido non trascura, convinto che l’averli negletti potrebbe, a lungo andare, riuscir disastroso”. Le Regioni italiane “non sono aggruppamenti casuali e avventizi di città e di province, prodottisi in momenti di trambusto, soggetti, pertanto, a parziali e generali trasformazioni”, invece “godono di una lor vita propria, prodotta, in parte, e conservata in grazia delle condizioni geografiche, commerciali, industriali, e, sopra tutto, culturali, trasmessa dalle origini etniche, e consolidata dalla tradizione tenace, generatrice di tendenze omogenee e concordi”. Secondo l’autore la formazione di solide e specifiche realtà regionali derivava da condizioni geografiche e dall’avvicendarsi di eventi militari ma anche “l’opera dei governi, le vicende della letteratura e dell’arte, la religione che vi dominò, l’opera di qualche genio o di qualche agitatore di nuove idee ed anche certi momenti financo naturali che turbarono profondamente la popolazione e il paese. Vi contribuirono sopra tutto, l’origine delle razze, le successive mescolanze di popolazioni, le trasmigrazioni, e certe vicende politiche come l’asservimento agli stranieri, che impressero un’impronta duratura sopra la razza”. Messa nero su bianco la parola “cadutaci qua e là dalla penna, e non proprio involontariamente”, Crocioni ne giustificava l’uso anche perché “il concetto di razza non esclude quello di fratellanza, come il concetto di individuo non esclude quello di famiglia, né il concetto di famiglia quello di tribù, o di gente, o di stato e via dicendo”, e appariva opportuno tenerne conto proprio nel caso italiano, dove “le statistiche che il nostro governo suole appunto, con provvedimento sagace, compilare per regioni, son lì ad attestare che, come variano da una regione all’altra i comportamenti personali, i caratteri, le tendenze, le attitudini, le costituzioni somatiche, la forza, l’intelligenza, la volontà, così variano la cultura, la laboriosità, la criminalità, le iniziative, le manifestazioni industriali, commerciali, artistiche, in poche parole tutte le qualità del corpo e dello spirito, tutte le opere che ne derivano”.
Erano concetti inaccettabili per un Regime che al contrario esaltava l’unicità delle genti governate dal littorio e certamente preferiva le elucubrazioni propinate da Giuseppe Sergi sul presunto progenitore unico, Notanthropus eurafricanus mediterraneus (Le prime e più antiche civiltà, Bocca, 1926), che teorizzando le comuni origini dei popoli mediterranei forniva un ulteriore alibi per le piratesche rivendicazioni territoriali di Mussolini sul Mar nostrum.
Perciò non ebbe ascolto la proposta di Crocioni di basare la pedagogia, la scuola, la cultura e le forme del governo regionale sul riconoscimento di queste specificità; malgrado l’autore sostenesse che prendendo lucidamente atto delle “diversità territoriali, etniche e storiche”, coordinandole e non soffocandole, si sarebbe giunti “col soddisfacimento di tutti e di ciascuno, al vantaggio complessivo della intera nazione, di cui le regioni sono le parti vitali”.
Giovanni Crocioni, Le regioni e la cultura nazionale, Francesco Battiato editore, 1914.
26) Giuseppe Anceschi, Giovanni Crocioni nella cultura italiana tra posiitivismo e idealismo, in Luigi Ambrosoli – Giuseppe Anceschi – Carlo Dionisotti – Enzo Santarelli, Il regionalismo di Giovanni Crocioni, Leo S. Olschki, 1972.
27) G. B. Angioletti, Viaggio in Sardegna – Folklore e antifolklore, “La Stampa”, 24 luglio 1929.
28) Amy Allemand Bernardy, Rinascita Regionale, Libreria del Littorio, 1930.
29) Paolo Toschi, Una proposta. Per una raccolta nazionale delle tradizioni popolari italiane, “Il Resto del Carlino”, 1 dicembre 1926.
30) Romagna solatia…, “La Stampa”, 16 marzo 1928.
31) Mussolini alla sede della “Famiglia romagnola”, “La Stampa”, 10 aprile 1928.
32) Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista (busta 53). Rapporto presso s.e. il capo del governo dei segretari generali del Piemonte, 15 gennaio 1930.
33) I problemi dell’Educazione Nazionale alla Camera, “La Stampa”, 30 marzo 1930.
34) Lo scioglimento dell’Associazione tra Emiliani e Romagnoli residenti a Roma – Una lettera del Duce al comm. Orlandi, “Il Popolo d’Italia”, 21 luglio 1932.
35) Debbo fare ammenda per avere, anni addietro, quand’ero un giovane inesperto alle prime timide ricerche, addebitato la liquidazione della Famija Turinèisa a una violenta soppressione ordinata dal Regime; mentre mi appare ora ben chiaro che ad anticipare in zelo servile e gregario i “desiderata” antiregionalisti del Duce furono i pavidi bogianen, i quali di propria iniziativa e solo per innata vocazione cortigiana vollero ancora una volta mostrarsi i più italianisti di tutti.
Antonio Bodrero – Roberto Gremmo, L’oppressione culturale italiana in Piemonte, Editrice BS, 1978.
36) Nel 1927 nel capoluogo piemontese accanto al settimanale bilingue “l Caval d brôns” della Famija Turinèisa vennero pubblicati dai poeti Alfredo Formica, Oreste Gallina e Giuseppe Pacotto cinque numeri di un giornale interamente scritto in piemontese e con un titolo evocatore, dove con il richiamo agli alari del camino (i brandé) che tengono alta la fiamma si intendeva metaforicamente dichiarare di voler far vivere l’idioma regionale, nella convinzione che “d cò nost diàlet piemonteis a peul aossese a lingua, basta ch’a sia sincera ant chi ch’a scriv la cossiensa d la dignità del linguagi ch’a dòvra”. Pinin Pacòt, alias Giuseppe Pacotto, Dialèt o lingua, “I brandé”, 5 marzo 1927.
37) Edoardo Ignazio Calvo, Poesie complete, S.E.L.P., 1930.
38) L’appello della”Famija Turineisa”, “La Stampa”, 21 marzo 1929.
39) I piemontesi della Madonnina, “La Stampa”, 12 novembre 1931.
40) La “Famija Turineisa” si è sciolta, “La Stampa”, 27 luglio 1932.
Senza accorgersi dell’errore di evidenziare una caratteristica morale regionalistica, nell’edizione pomeridiana dello stesso quotidiano si lodava una decisione con cui i dirigenti dell’associazione avevano “voluto celebrare nella città iniziatrice l’intangibile unità della Patria e salutare con piemontese fedeltà in Benito Mussolini il Duce provvidenziale della Nazione”.
Lo scioglimento della “Famija Turineisa”
, “La Stampa della sera”, 27 luglio 1932.
41) Lo scioglimento della “Famija Turineisa”, “Il Popolo d’Italia”, 27 luglio 1932.
Dopo qualche giorno un intellettuale di peso nel mondo culturale cittadino si compiaceva che con il consolidarsi della dittatura si fosse “sfatata l’antica leggenda della diffidenza piemontese per il resto d’Italia” e che “a passi rapidissimi Torino fascista, pacificata nel concorde lavoro, stretta da un’unica volontà che va dai capi della sua amministrazione e dai gerarchi della sua Federazione fino al più umile dei suoi operai sindacati ed alla sua più umile Camicia nera si inseri[sse] nel grandioso sforzo mussoliniano”.
Marziano Bernardi, Torino di ieri e di oggi, “La Stampa”, 4 settembre 1932.
42) L’Associazione dei Pugliesi si è sciolta, “La Stampa”, 22 luglio 1932.
43) La “Famiglia Romagnola” si trasforma in “Circolo culturale 23 Marzo”, “Corriere della Sera”, 1 agosto 1932.
44) “Almanacco della famiglia meneghina (dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista) per l’anno 1938 – XVI”, 1938.
45) Il Congresso di Udine per una foto-filmoteca internazionale, “Corriere della Sera”, 8 settembre 1931.
46) Foglio di disposizioni” – Il quarto congresso di arti e tradizioni popolari, “La Stampa”, 1 maggio 1940.
47) Il congresso di arti e tradizioni inaugurato a Trento da S. E. Ercole, “La Stampa”, 9 settembre 1934.
48) Luigi M. Personè, L’Italia di Mussolini – Fine del regionalismo, “La Stampa”, 16 marzo 1935.