La Francia non è solo quel Paese esagonale dall’altra parte delle Alpi, ma comprende isole sparse ovunque nei mari di ogni emisfero, soprattutto in quello più lontano: il sole non tramonta mai sui suoi territori. Ma facciamo un salto indietro.
Siamo nel 1842, allorché la Francia stabilisce il proprio protettorato sul regno di Tahiti, per farlo diventare colonia nel 1880; nel 1897 vince, grazie al rombare dei suoi cannoni, le Isole Sottovento che le resistevano (le principali sono: Huahine, Raiatea e Taha, Bora Bora, Tupai e Maupiti). L’estesa area coperta dai cinque arcipelaghi polinesiani – 4200 kmq – diventerà negli anni interamente colonia francese.
Dal 2004 la Polinesia Francese è Pays d’outre-mer au sein de la République, Paese d’oltremare in seno alla Repubblica, ossia POM, lasciando lo statuto di TOM, territorio d’oltremare, che aveva avuto dal 1996: questo cambiamento le consente di adottare le “leggi del Paese” con valore di sola regolamentazione. Una legge del Paese è un tipo d’atto amministrativo adottato dall’Assemblea – chiamata in polinesiano Te âpooraa rahi o te fenua Māòhi – organo legislativo della Polinesia Francese esistente dal 1946, che opera grazie allo Statuto di Autonomia e gestisce liberamente i fondi che arrivano dalla Francia, sotto il controllo del suo rappresentante, l’Alto Commissario.
La Polinesia Francese ha un presidente, eletto dalla maggioranza dell’Assemblea, che rappresenta e dirige la politica del Paese. Quanto ai partiti, i principali sono due: Tavini Huiraatira, “servire il
popolo”, partito indipendentista fondato nel 1977 da Oscar Temaru, che si identifica con il colore azzurro; Tahoeraa Huiraatira, partito della destra anti-indipendentista fondato nello stesso anno  da Gaston Flosse, colore arancione, anche se ultimamente sta facendo capolino A Ti’a Porinetia, “l’unione dei polinesiani”, di Teva Rohfritsch, fondato nel 2013, che ha adottato il colore giallo.

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Oscar Temaru, nato a Faa’a nel 1941, è stato per cinque volte presidente della Polinesia Francese. Ha fatto scalpore la sua recente decisione (definita “paradossale” dalla stampa d’oltralpe) di candidarsi alle elezioni presidenziali francesi.

Oscar Temaru: candidatura “paradossale” o coup pubblicitario?

Incontro il leader storico degli indipendentisti, Oscar Temaru, nel suo simpatico ufficio nel comune di Faa’a, un ambiente che rispecchia il suo credo politico: un tetto di foglie di pandanus intrecciate, con  tapa, il tessuto vegetale ottenuto battendo la corteccia di vari alberi; a mo’ di pavimento, il tradizionale ghiaietto fine, uguale a quello delle spiagge isolane. Oscar Temaru, l’indipendentista, ha deciso di candidarsi per la presidenza della repubblica francese e sta raccogliendo le 500 firme di politici eletti (sindaci, consiglieri, parlamentari, senatori, eccetera) che la legislazione richiede per iniziare una simile avventura.
Gli chiedo: “Visto che la Polinesia è il Paese del sogno, chiuda gli occhi e immagini quali sarebbero le sue azioni se diventasse presidente”.
Ma Temaru non cade nella provocazione e risponde sicuro: “Non voglio diventare presidente della Francia: è qui che voglio essere eletto, in Polinesia!”
Per Oscar Temaru, dal 1983 ininterrottamente sindaco del comune di Faa’a, il più popoloso dell’isola di Tahiti con i suoi 30.094 abitanti (censimento 2012), capo fondatore del partito indipendentista, la candidatura alla presidenza francese non ha altro scopo che farlo eleggere nel suo Paese per accompagnare quest’ultimo verso l’indipendenza. Perché, lamenta, “ai nostri giorni soltanto la Francia possiede ancora delle colonie”.
Ed è vero… La situazione grottesca che si vive qui a Tahiti – più sull’isola principale che nelle altre 117 dei 5 arcipelaghi che compongono il territorio – è l’esistenza di due mondi paralleli che possono convivere senza mai incontrarsi. Sono tanti i francesi che affermano: “Quaggiù vivo esattamente come in Francia”, senza minimamente interessarsi alla cultura polinesiana, malgrado il suo eccezionale fascino.
Giustizia, sanità e istruzione sono gestite direttamente da Parigi; gli insegnanti, al loro arrivo in Polinesia, ricevono un bonus di 20 mensilità e il loro stipendio viene moltiplicato per un  coefficiente pari a 1,8; nel caso di coniuge al seguito, questi conserva l’80 % dello stipendio che percepiva in Francia. Condizioni ghiotte, che permettono di racimolare un discreto gruzzolo una volta finito il mandato, e magari comprarsi una bella casa al rientro in Europa. La maggior parte di questi forestieri non cerca di integrarsi e vive la parentesi sfruttando al massimo la situazione per goderne al rientro in patria.
Durante la sua ultima presidenza della Polinesia, Oscar Temaru aveva chiuso ogni rapporto con la Francia e i suoi rappresentanti. “Ogni dialogo con lui è impossibile”, mi aveva detto un giorno  Sua Eccellenza Francis Etienne, ambasciatore francese in Nuova Zelanda dal 2010 al 2013. “Il suo obiettivo per la Polinesia è semplice: essere indipendenti e vivere di un’economia propria”. E in effetti il primo punto della battaglia di Temaru mira e ritrovare i valori e lo stile di vita tradizionali, in un Paese dove il costo della vita è stato gonfiato dai megasalari distribuiti dal CEP, il Centre  d’Expérimentation du Pacifique, che ha fatto esplodere 193 bombe atomiche in 30 lunghi anni di esperimenti, ignorando volutamente la ripercussione che tutto ciò poteva avere su ambiente, economia e popolazione.
Temaru mi spiega la sua strategia: “Possiamo ricavare il denaro direttamente da qui, dalla Polinesia, sviluppando il settore primario, l’agricoltura, che permette di produrre l’olio di cocco tanto ambito dall’industria cosmetica; e potenziare la cultura dell’albero del pane… non è incredibile avere un albero che produce il pane, per di più ricchissimo di vitamine? Quanto al turismo, deve  appoggiarsi alle pensioni gestite dalle famiglie locali, e non dobbiamo più chiedere il visto a chi non arriva dall’Europa: l’accesso al Paese deve essere semplice”.
Quella del turismo è infatti una nota dolente: dalle 252.200 presenze dell’anno 2000, la Polinesia francese è scesa alle 180.600 del 2014, con un decremento superiore al 28% (contro le 692.630 presenze delle non lontane Isole Fiji nello stesso anno).
Un buon utilizzo delle risorse economiche disponibili, quindi, ma a patto di poter legiferare in questo senso. “Perché qui non si votano leggi, ma semplici atti amministrativi”, lamenta Tamaru. Spesso – per non dire sempre – le leggi francesi non sono adatte per questo Paese dall’altra parte del mondo, composto da una moltitudine di isole sparse nell’oceano, su una superficie vasta quanto se non più dell’Europa.
“Insomma, non siamo padroni del nostro destino”. Con questa triste affermazione, Oscar Temaru – che mi ha accolta con estrema gentilezza, abbracciandomi e baciandomi sulle guance, alla polinesiana – conclude il nostro incontro, lasciando un senso di incertezza sul futuro politico della Polinesia, e su quanto potrà cambiare con le presidenziali francesi dell’anno prossimo e le presidenziali locali del 2018.
Resta la risoluzione presentata il 17 maggio 2013 da tre Stati del Pacifico – Isole Salomone, Nauru e Tuvalu – redatta dagli indipendentisti polinesiani, che dichiara il diritto inalienabile del popolo  della Polinesia Francese all’autodeterminazione e all’indipendenza, con riferimento diretto all’articolo 73 della Carta delle Nazioni Unite relativa ai territori non autonomi. Dopo averla ricevuta, l’Assemblea generale dell’ONU ha inserito la Polinesia Francese nella lista dei territori da decolonizzare. Questa risoluzione apre la strada a un referendum per l’autodeterminazione. Saranno  allora possibili tre soluzioni: un avvicinamento alla Francia tramite la trasformazione in dipartimento; un allontanamento con l’indipendenza; uno statuto intermedio di Stato associato.