Anche nei “Dipartimenti d’Oltremare” si è votato per l’Europa. Siamo così diventati complici dello spaventoso genocidio in atto

Come è noto, ma purtroppo come si dimentica volentieri, la Francia rimane l’ultima effettiva roccaforte del colonialismo europeo. Spietatamente accentratrice all’interno dell’esagono, essendo l’unico Stato dell’Europa occidentale che non abbia consentito alcuna forma di autonomia o/e di autogestione culturale alle minoranze etnico-linguistiche (vere “nazioni primarie”) comprese entro il proprio territorio, mantiene tuttora (con l’Olanda, che tuttavia ha formalmente promesso l’indipendenza ai suoi possedimenti nelle Antille) il dominio incondizionato (nei contenuti e nel tempo) su popolazioni extraeuropee. Persino la Gran Bretagna ha rinunciato alla politica coloniale d’antico stampo, “concedendo” via via l’indipendenza ai suoi possedimenti d’oltre mare.

La politica francese è dunque del tutto isolata, e rimane in aperto contrasto con i principi affermati dalle Nazioni Unite nella Carta (preambolo e statuto) e dai suoi organi normativi (assemblea) ed esecutivi specifici (Consiglio di Sicurezza, Consiglio Economico e Sociale, Consiglio per l’Amministrazione Fiduciaria), e cioè con l’autodeterminazione dei popoli e con il loro diritto ad accedere all’indipendenza reale ed effettiva. Il colonialismo francese sopravvive nelle sue due speciose categorie dei Territoires d’Outre-Mer (TOM: cioè colonie vere e proprie) e dei cosiddetti Départements d’Outre-Mer (DOM: cioè dipartimenti, ossia provincie, d’oltre mare), colonie come le prime, ma mascherate dalla condizione di appartenenza al “territorio metropolitano francese”, cioè “francesi” quanto lo è la Normandia o la regione parigina! Si tratta in realtà di un vecchio trucco del colonialismo morente (esplicato già dall’Olanda e dal Portogallo) per sottrarre i territori coloniali alla competenza delle organizzazioni internazionali configurandoli come provincie metropolitane riservate all’ordinamento giuridico dello Stato come ogni altro “affare di politica interna”.

I T.O.M. attuali sono la Nuova Caledonia (pressoché un affare privato della società “Le Nickel”

del barone G. de Rothschild), la Polinesia (un arcipelago vittima delle esperienze atomiche francesi), l’isola di Mayotte (l’unica delle Comore rimasta alla Francia grazie a un grottesco plebiscito organizzato dalla famiglia Henry, i padroni del posto), St. Pierre e Miquelon, Wallis et Futura.

I D.O.M. sono: la Martinica e la Guadalupa nelle Antille (con le relative dipendenze di St. Martin, per metà dell’isola, l’altra essendo possedimento olandese; St. Barthélémy; Marie Galante et

Les Saintes), la Guyane e la Réunion. La partecipazione della Francia all’Europa dei Nove, comporta la grave conseguenza che i partners nel Mercato Comune si trovano nella poco onorevole situazione di correità nello sfruttamento delle vittime del colonialismo francese, e del genocidio etnico-culturale di interi popoli.

Se esaminiamo, per ora, in particolare il caso della Martinica, vediamo come l’economia delle Antille presenti tutti i tratti tipici di un’economia coloniale. L’agricoltura è dominata da un paio di prodotti di esportazione destinati alla metropoli: canna da zucchero e banane, cui si può aggiungere l’ananas. La “madre-patria” invia in cambio la maggior parte dei prodotti di consumo corrente. Mentre sino al 1946 la Martinica era autosufficiente, la dipendenza economica dalla Francia è adesso divenuta strutturale, nel senso che se una settimana non arrivasse il cargo, ne conseguirebbe il panico generale. L’agricoltura è praticamente inesistente per le altre colture; l’industrializzazione è da area depressa ed il terziario è invece gonfiato a dismisura. La bilancia dei pagamenti dimostra implicitamente che si tratta di una colonia non esistendo per gli altri dipartimenti francesi (ad esempio, l’alta Savoia o le Bouches du Rhône non ne hanno!).

Poiché l’agricoltura tradizionale è votata all’esportazione a senso unico, non si sono avuti trasformazioni e ammodernamenti tali da renderla competitiva. L’entrata della Martinica nel Mercato Comune non ha fatto che aggravare il problema. Il prezzo di vendita estremamente basso di questi prodotti tradizionali, fissato senza tener conto dei costi in continuo aumento, scoraggia i piccoli produttori indigeni spingendoli all’abbandono della terra, mentre per rendere i grossi produttori “competitivi” li costringe a meccanizzarsi licenziando personale agricolo. Le produzioni di culture diverse da quelli che interessano la metropoli sono ostacolate: perchè mai, infatti, si dovrebbero sviluppare culture che rischierebbero di mettersi in concorrenza con i prodotti francesi?

Del resto, recentemente si è notata anche una disincentivazione della canna per facilitare i produttori francesi di barbabietole da zucchero, con la conseguenza di mettere in crisi alla Martinica zuccherifici e distillerie di rhum: delle centinaia di fabbriche interessate nella lavorazione dello zucchero, ora ne sono rimasti praticamente soltanto due: quella di Galion (alla Trinité) e di Lareinty (a Lamentin).

Si importano dunque i legumi, la frutta, la carne… beni che si producevano ottimamente sul posto. Una politica agricola coerente dovrebbe invece dare la priorità alle produzioni di consumo locale, e non a quelle di esportazione. Ma tant’è: si preferisce lasciare il primario per puntare sul terziario: per i beké (in lingua creola, discendenti ed eredi dello schiavismo francese), il commercio comporta molto meno rischio ed offre una rendita molto più rapida. Si migliorano allora le strutture portuali, per immagazzinare i prodotti francesi e diffonderli nei Caraibi. La Martinica è divenuta una sorta di vetrina della Francia nelle Antille, anche per attirare i ricconi in vacanza. Immediata conseguenza è la speculazione edilizia sfrenata. La “facciata” è certamente appariscente: commercio, turismo, palazzi, alberghi, ville lussuose.

Dieci grandi famiglie, strettamente alleate al capitale francese, fanno in Martinica il bello e il cattivo tempo, in economia come in politica. Ma nel retro c’è una colonia servile, dove non ci si cura affatto degli sbocchi utili per medie industrie di trasformazione, interessanti non il Mercato Comune, ma la regione dei Caraibi e dell’America Centrale o latina. Nessun contatto è sviluppato con le isole finitime di Santa Lucia e della Dominica, ex-colonie inglesi che hanno ottenuto l’anno scorso l’ndipendenza; affini sotto tutti i profili (linguisticamente parlano lo stesso Creolo delle Antille francesi), sono vicinissime eppur quasi irraggiungibili per la popolazione locale (non esistono traghetti, ma solo voli aerei costosi; non vi sono uffici di alcuna rappresentanza, neppure turistici, che facilitino il collegamento tra le Antille francesi e le ex colonie inglesi). Si sa, l’indipendenza è contagiosa…

Dopo esser servita per lungo tempo come riserva di zucchero, l’isola diventa riserva di mano d’opera poco costosa e di scarse pretese, utilizzata nella metropoli come manovalanza negli ospedali, nelle cantine, nelle poste. In cambio, i dirigenti politici, l’esercito, la polizia, l’amministrazione della giustizia, gli uffici finanziari e le banche, il personale sanitario, i quadri di tutta la burocrazia e dell’economia, sono nella Martinica in salda mano dei beké o di immigrati francesi. È quello che i progressisti e gli indipendenti nella Martinica chiamano “genocidio per sostituzione”. I locali fanno i bagagli, si trasferiscono in Francia, e al loro posto arrivano coloro che sono attirati dai privilegi finanziari (i funzionari francesi disponibili a trasferirsi nei DOM e TOM hanno forti indennità) nell’isola dei fiori, unitamente agli speculatori e al turismo.

Nel settore secondario, la Francia pubblicizza alcune leggi tendenti a favorire il sorgere di nuove industrie: chi vuole investire in Martinica ha particolari facilitazioni fiscali, gode di mutui a basso tasso d’interesse edanche di contributi a fondo perduto. Sovente accade però che gli “imprenditori” si limitino a creare effimere società per prendere i contributi e poi dichiarare fallimento. La sola reale politica francese in atto, dunque, è quella dell’emigrazione. Anche nel secondario il MEC comunque non è d’aiuto. Le nuove industrie rimangono senza protezione nei confronti dei prodotti europei concorrenti. Così, l’integrazione nel Mercato Comune, mentre vieta i rifornimenti e l’acquisto di impianti e di materie prime alle fonti extraeuropee più convenienti, intralcia e scoraggia i nuovi insediamenti industriati e permette di fatto la concorrenza dei prodotti metropolitani od europei che può giungere sino a pratiche di dumping sui prezzi. I regolamenti comunitari sono sovente contrari agli interessi dei D.O.M. e costituiscono allora un handicap supplementare.

Le tariffe doganali comunitarie sono state infatti concepite per paesi a livello elevato di industrializzazione. Così, i prodotti industriali provenienti dai paesi terzi sono tassati all’entrata nel Mercato Comune e, di conseguenza, anche nei D.O.M. costretti in tal modo a proteggere prodotti del tutto estranei alla loro produzione. In cambio… prodotti tropicali di cui hanno bisogno i paesi del MEC, entrano invece liberamente nel mercato europeo e si pongono in concorrenza con quelli prodotti nella Martinica! Naturalmente, anche la Martinica, il 15 giugno, ha votato “per l’Europa”, così come io stesso ho visto nei municipi manifesti giunti da Parigi con l’ammonimento “gardons la France propre!” (“conserviamo la Francia pulita”); d’altra parte, i discendenti degli schiavi africani o degli indomiti Caraibi (oggi estinti per i massacri e le deportazioni in massa) studiano sui libri di testo la storia “de nos ancêtres, les Gaulois, blonds aux yeux bleus”, dei Celti, i “loro” antenati con i capelli biondi e gli occhi azzurri.

Contro questo genocidio di sostituzione etnica e culturale, si sta radicalizzando ogni giorno di più la resistenza popolare in Martinica. Una resistenza di cui sui giornali europei si parla poco e della quale tratteremo noi nel prossimo numero. Per ora, ci basta richiamare l’attenzione su questo sventurato paese, dove la Francia somma tutte le proprie esperienze coloniali, da quelle più spietate a quelle più sottili e sornione; e pubblicamente dispiacerci che, a nostra conoscenza, nessuna voce si sia levata al Parlamento europeo per denunciare il colonialismo francese di cui siamo ormai tutti complici essendosi fatto europeo e quindi anche italiano. Siamo convinti che la fame nel mondo si combatta non soltanto chiedendo che i Governi inviino contributi ai paesi poveri, ma soprattutto lottando a viso aperto contro ogni forma di colonialismo, e cioè di quel tipico fenomeno di sfruttamento che è causa prima dell’aumento degli squilibri tra paesi a differenti livelli di sviluppo e, quindi, della miseria.