Tra la miriade di Stati che popolano l’Africa Occidentale, affacciata sull’Oceano Atlantico, nel Senegal meridionale, incastonata fra Gambia e Guinea-Bissau, si trova la rigogliosa e fertile Casamance, patria del fiero e vivace popolo jola.
I jola sono un gruppo etnico autoctono del continente nero che raggiunse i territori dell’ovest intorno al XII-XIV secolo, stabilendosi principalmente nella Casamance e, in misura minore, negli odierni Gambia e Guinea-Bissau.
Popolo dalla spiccata tradizione animista e dedito in particolare alla coltivazione di riso, rappresenta l’etnia maggioritaria della regione casamancese, mentre costituisce solamente il 4% della popolazione senegalese attuale dopo wolof, fula e serer. Questi numeri identificano al meglio e permettono di capire la situazione jola che si configura un’etnia minoritaria all’interno dello Stato senegalese, ponendola in una condizione decisamente subalterna e di svantaggio rispetto ad altri gruppi etnici nel contesto di vita nazionale.
Le motivazioni sono da ricercare in fattori di carattere geografico, storico e culturale. La regione in cui i jola si sono insediati in epoca pre-moderna, la Casamance, presenta caratteristiche posizionali e geomorfologiche particolari. Sostanzialmente staccata dal resto del Senegal, è una sorta di cuscinetto tra il Gambia a nord e la Guinea-Bissau a sud, confinante con il resto del Paese esclusivamente nell’area orientale, essendone di fatto la provincia più remota e isolata. D’altro canto i territori fertili e l’ingente presenza di risorse naturali hanno da sempre contribuito a un notevole grado di sviluppo e di autonomia, garantendole quanto meno la sopravvivenza dei propri abitanti.
Le problematiche, come sempre in questi casi, sono emerse con il colonialismo in quanto le conquiste europee hanno minato l’equilibrio che regnava nell’area e sottomesso, non senza barbarie, la popolazione autoctona.
Le difficoltà della Casamance e dei jola non sono dovute esclusivamente all’invasione dei bianchi ma anche alla loro pessima gestione delle colonie: essendo un luogo abbastanza lontano dai nuclei centrali degli imperi d’oltremare europei, i portoghesi e i francesi si sono alternati al comando della zona, considerandola di scarso interesse, non integrandola organicamente all’interno dei loro domini, non prendendone mai completamente pieno possesso e non esercitando un ferreo comando. Ciò ha posto le basi per un radicamento e un attaccamento fortissimo tra i locali e il proprio territorio sul quale, in qualche modo, sono sempre riusciti ad avere un minimo controllo.
Esistono anche ragioni prettamente culturali: i jola hanno sempre parlato un idioma profondamente differente da quello degli altri gruppi ora dominanti in Senegal, e si differenziano dal resto della popolazione anche sotto l’aspetto religioso in quanto da una parte sono ancora diffusi i riti tradizionali animisti, dall’altra alcuni membri si sono convertiti al cristianesimo: in opposizione al resto del Paese, fortemente musulmano, tra gli jola vi è un bassissimo grado di islamizzazione.
La situazione – carica di tutte queste componenti geo-territoriali, etno-storiche, socio-economiche e culturali – si è definitivamente fossilizzata con la nascita dello Stato del Senegal con cui è coinciso l’inevitabile peggioramento della vita dei jola, dapprima emarginati e disprezzati in quanto minoranza, considerati come gli indesiderati abitanti dell’area più remota e isolata della nazione; e successivamente protagonisti di un’integrazione forzata e innaturale dovuta non a un reale interesse per le loro sorti ma piuttosto per una political correctness del governo centrale, volta esclusivamente ad accattivarsi le simpatie dell’opinione pubblica e dei governi occidentali. Queste due opposte posizioni hanno causato più danni che altro al popolo jola, vera vittima di tutta la situazione.
L’attaccamento alla propria terra e tradizioni e il relativo controllo della regione casamancese da sempre mantenuto, unito alle ingiustizie e persecuzioni subite dai coloni prima e all’interno dello stato nazionale dopo, hanno inevitabilmente contribuito alla nascita di un sentimento anticentralista e apertamente autonomista: questo ha dato l’avvio nel 1982 all’attività del Movimento delle Forze Democratiche della Casamance (MFDC, fondato già nel 1947) che da quasi 40 anni combatte con le armi per ottenere l’indipendenza.
Gli stessi ribelli tuttavia non sono esenti da colpe, avendo progressivamente abbandonato gli ideali originari di indipendenza – fondati principalmente su un sentimento diffuso di diversità culturale rispetto al resto del Paese – per proseguire un conflitto alimentato da motivazioni personali e interessi economici. Ancora una volta ne ha fatto le spese la popolazione civile jola che si è letteralmente trovata tra due fuochi: il numero delle vittime è elevato così come quello degli sfollati, il tutto in un contesto di costante paura e angoscia su un territorio ormai disseminato di mine antiuomo. Nonostante siano evidenti reali motivazioni come l’alterità geografica della regione e la diversità culturale rispetto al resto del Senegal che soggiacciono al giustificato desiderio autonomistico, anche il movimento di lotta jola per l’indipendenza della Casamance è naufragato prendendo direzioni quanto meno controverse e soprattutto dannose per il resto della popolazione locale che risulta sempre più penalizzata.
Cerchiamo di comprendere come si è arrivati a questa terribile situazione.

La Casamance e il suo territorio

Uno dei fattori che rendono estremamente peculiare la vicenda dei jola è la regione nella quale si sono insediati, la Casamance che, come dicevamo, presenta alcune caratteristiche particolari. Si tratta di un’area non molto estesa (28 mila kmq) attaccata al Senegal (di cui comunque costituisce 1/3 circa del territorio complessivo) per un breve tratto, letteralmente incuneata tra due differenti Stati esteri: a nord il Gambia, sottile lingua orizzontale di terra che la separa dal nucleo centrale della nazione senegalese, e a sud l’altrettanto piccola Guinea-Bissau. La collocazione geografica può dunque spiegare una parte dell’evoluzione storica regionale, essendo la Casamance un cuscinetto tra ex realtà coloniali differenti. mentre il suo isolamento fisico giustifica la peculiare composizione etno-culturale, profondamente separata dall’hearthland senegalese. Il piccolo territorio ha così assunto, nella dialettica nazionale e poi nei fatti, il titolo di provincia remota, isolata, degradata e generalmente malvista, insieme ai suoi abitanti, dal resto della popolazione.
Al di là degli stereotipi e delle convinzioni dell’opinione pubblica, a Dakar ormai ben radicate, la Casamance è un luogo adatto all’insediamento umano grazie alle favorevoli condizioni climatiche e alle terre fertili che garantiscono una notevole quantità e varietà di risorse: essa rappresenterebbe una potenziale miniera di prodotti, se gestita e sfruttata nella maniera giusta. La regione, estesa lungo il bacino idrografico del fiume omonimo, è suddivisa tra Bassa Casamance (o regione di Ziguinchor) corrispondente alla sezione occidentale, e Alta Casamance (o regione di Kolda) corrispondente alla porzione orientale. 1) L’area viene ritenuta il polmone verde dell’intero Stato in quanto, a differenza della zona settentrionale del Senegal dominata da suoli sabbiosi, si caratterizza per un’ampio nucleo di terra ricoperto da foreste (per lo più di palme) e mangrovie 2) (sud-ovest) unite a distese pianeggianti fertili (zona centrale) e alquanto produttive, perfette per la coltivazione agricola.

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Habitat di mangrovie.

L’attività primaria è inoltre avvantaggiata dal clima che, pur essendo classificato come tropicale, non si distingue per l’eccessiva presenza di eventi metereologici estremi e violenti rispetto ad altre parti dell’Africa inserite nella medesima fascia territoriale. Nel dettaglio è possibile notare una leggera distinzione tra le differenti sub-regioni della Casamance: il clima è infatti mediamente caldo soprattutto nella sezione centrale (Media Casamance), e oscilla dalle più alte temperature delle zone paludose e ricoperte di foreste affacciate sull’Atlantico (denominato clima guineiano) a quelle leggermente più fresche delle montagne e colline a sud-est (definito sudanese). Gli unici rilievi montuosi sono dei bassopiani argillosi caratterizzati dalla scarsa altitudine, anch’essi completamente ricoperti da vegetazione.
Relativamente all’intero Senegal, la Casamance resta comunque l’area con la media più elevata di precipitazioni superando i 1500 mm annui (in particolare nella Bassa Casamance), altro elemento che facilita l’agricoltura e spiega la folta presenza di foreste e vegetazione spontanea eccezionalmente rigogliosa. L’attività economica più sviluppata è la coltivazione di riso, oggi accompagnata, nonostante la precaria situazione locale, da un vivace turismo balneare grazie alle magnifiche spiagge lungo la costa oceanica, in particolare a Cap Skirring.

jola guerra in casamanceL’assoluto protagonista naturale della regione è il fiume Casamance sulle cui rive la vegetazione è abbondante e florida, formando, in particolare nei pressi del suo ampio estuario, un ecosistema unico e di pregio. 3) Il fiume scorre in direzione est-ovest dividendo letteralmente in due parti la Bassa Casamance: il corso d’acqua risulta navigabile (anche se con notevole difficoltà a causa della presenza di molti banchi sabbiosi) per circa un terzo del suo percorso, da barche di esigue dimensioni fino alla città di Sédhiou, situata a circa 130 km dalla foce. Il principale porto fluviale è Ziguinchor, il più grande centro urbano e capoluogo della Casamance.

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Il fiume Casamance.

Le possibili origini

I jola sono un’etnia africana che attualmente conta circa 500 mila individui stanziati per la maggior parte nella regione della Casamance in Senegal e, in misura minore, nei vicini Gambia e Guinea-Bissau. Per la precisione, jola è il nome in lingua mandingo che l’etnia mandingo o mandinka 4) ha da sempre utilizzato per indicarli: significa “vendetta” in quanto i jola sarebbero stati famosi per restituire ogni volta ciò che veniva loro fatto o dato, che si trattasse di una buona o di una cattiva azione. L’endonimo è però un altro: il gruppo che ora dimora nella Casamance chiama sé stesso in modo differente, adoperando i termini del loro idioma ajamat al singolare e ajamataw al plurale. Diola è la traslitterazione francese che si ritrova molto spesso anche nelle fonti inglesi.
Le notizie riguardanti le origini sono scarse se non pressoché inesistenti: la loro presunta provenienza viene menzionata esclusivamente quando si parla dell’insediamento in quella che è poi diventata, a tutti gli effetti, la loro patria, la Casamance. Le motivazioni di questa incertezza avvolta nel mistero è dovuta anche al fatto che questo popolo non possiede una memoria storica e di conseguenza non ha conservato fonti scritte, tranne alcune leggende tramandate oralmente di generazione in generazione. Le poche notizie sono ricavabili da documenti e racconti di altre popolazioni, unite ad alcune notizie ricorrenti nella mitologia locale che, come ovvio, vanno sempre prese con le pinze.

jola guerra in casamanceNon vi è certezza neppure sulla data in cui i jola raggiunsero i territori odierni. Esistono due ipotesi contrastanti. La prima, decisamente più accreditata in quanto vi è maggiore concordanza delle fonti esterne, suggerisce che i jola vivessero originariamente sulle rive del fiume Gambia e tra il XII e il XIII secolo siano stati scacciati con la forza da questi territori dal popolo mandinka, che si era organizzato costituendo diversi regni coesi nella zona: gli esuli raggiunsero così la Bassa Casamance rifugiandosi nelle aree paludose della costa che rendevano impervio l’accesso ai nemici. La migrazione di altre tribù dell’etnia jola sarebbe continuata fino al XVI secolo inoltrato e il raggio di occupazione del popolo si sarebbe ampliato verso nord e poi est andando a comprendere anche l’Alta Casamance. Nella regione della Casamance entrarono in contatto, e in alcuni casi in conflitto, con altri gruppi etnici autoctoni dell’Africa Occidentale come balanta, papel, fula e gli stessi mandinka.
Varianti di questa ipotesi che vede i jola originari di un’area relativamente vicina alla Casamance sono individuabili analizzando le leggende dell’etnia giunte sino ai nostri giorni: da alcuni miti emerge difatti una possibile origine in una non precisata area a oriente dell’attuale Casamance, dove in seguito sarebbero approdati, stanziandosi originariamente nella zona tra la sponda meridionale del fiume Casamance e il Rio Cacheu, fiume che scorre con direzione est-ovest quasi sorprendentemente speculare e parallelo al Casamance, nell’odierna Guinea-Bissau non lontano dal confine settentrionale con la regione della Casamance. Secondo questa diversificazione leggendaria, gli stessi jola affermano di essere stati i primi a occupare il territorio e di aver assorbito il popolo bagnun solo in un momento successivo, insegnando loro anche una serie di tecniche di coltivazione del riso.
Sempre elementi legati alla mitologia hanno portato diversi studiosi a ipotizzare nel corso del XX secolo una stretta parentela tra jola e serer, sostenendo che i primi fossero giunti in Casamance provenendo dal Regno di Saloum. In alcune leggende jola e serer si rimanda infatti a una primigenia ascendenza comune coadiuvata oggi dal ricco patrimonio culturale condiviso: un’antica leggenda comune a entrambe le etnie narra come due sorelle, Agaire e Jamboon, salirono a bordo di una piroga per navigare il fiume, ma l’imbarcazione nei pressi di Sangomar, a causa di una calamità naturale, si ruppe spezzandosi in due parti. Coloro i quali seguirono Agaire si diressero a sud diventando gli antenati dei jola, mentre quelli che seguirono Jamboon si diressero a nord diventando gli antenati del popolo serer. Nella località di Sangomar, uno dei siti sacri dei serer, si trovano alcuni megaliti che si pensa fossero stati costruiti dai comuni antenati delle due popolazioni.
Altri ricercatori contestano invece la parentela jola-serer asserendo che i primi siano giunti da una zona diversa, a sud della Casamance.
La seconda tesi riguardante la genesi jola li vedrebbe migrati da un’area completamente differente da quelle finora citate e in un periodo diverso: essi sarebbero arrivati in Casamance intorno al XIV-XV secolo addirittura dall’Egitto meridionale. Tuttavia questa ipotesi appare poco credibile poiché non trova riscontro in altre fonti, non vi sono tracce significative e tangibili che portino a immaginare una reale origine egiziana né tratti somatici e culturali assimilabili a popolazioni native di una zona così settentrionale. Le date stesse appaiono abbastanza tardive: già prima del XIV e XV secolo vi sono riscontri di relazioni, contatti e piccoli scontri con altri gruppi etnici locali dell’Africa Occidentale; inoltre all’arrivo degli europei, avvenuto non moltissimo tempo dopo, i jola sembrano essere insediati e radicati nel loro territorio da parecchio tempo, e non arrivati da poco.

La tragedia coloniale

A parte l’incertezza sull’arrivo dei jola, è praticamente assodato che altre comunità abitassero alcune parti della regione: le prime tracce archeologiche certe risalirebbero al 200 d.C., lasciate da gruppi che si sarebbero adattati a vivere nell’habitat fluviale del Casamance, in particolare nelle zone costiere e nelle isolette situate nei pressi del suo ampio estuario. Gli individui appartenenti a questi gruppi erano sostanzialmente cacciatori-raccoglitori e pescatori, nutrendosi dei frutti recuperabili nelle foreste, di pesci d’acqua dolce e marini, e di crostacei. Alcuni probabilmente avevano sviluppato anche un sistema elementare di sussistenza incentrato sull’allevamento del bestiame come bovini, e pochi membri avevano imparato a lavorare il metallo dal quale forgiavano lance e attrezzi agricoli.
Questi elementi vanno a comporre un preciso quadro d’insieme che descrive la Casamance come un’area, già secoli prima dell’avvento dei coloni, tutt’altro che arretrata, abitata da gruppi che, al pari di altre etnie in altre parti del mondo, stavano compiendo un processo evolutivo segnato da scoperte e invenzioni, un graduale progresso che aveva garantito un buon grado di sviluppo tecnologico in rapporto a quella determinata epoca storica.
Ritornando ai jola è invece fuori dubbio che abbiano vissuto nello stesso territorio dall’atto del loro insediamento fino all’arrivo degli europei, per giungere ai giorni nostri. I primi europei a raggiungere le coste dell’Africa Occidentale furono i portoghesi verso la metà del XV secolo. L’impero lusitano in quel periodo era il più attrezzato e fu il precursore dei grandi viaggi oceanici di fine medioevo: eccezionali marinai, essi sbarcarono sulle coste del Senegal nel 1444 circa, più o meno dieci anni dopo che Gil Eanes aveva superato il mitico Capo Bojador (nell’attuale territorio del Sahara Occidentale), primo europeo a compiere la grande impresa. In questo periodo iniziale i portoghesi non intrapresero una conquista territoriale vera e propria espandendosi nell’entroterra, ma si limitarono a impadronirsi di luoghi costieri strategici, che poi diventavano automaticamente piazzeforti commerciali e avamposti militari per fare da base alle tappe e ai viaggi successivi. Questo disegno spiega la presenza puntiforme portoghese nel continente nero a cavallo tra seconda metà del XV e prima metà del XVI secolo.
La via per la conquista dell’interno era però stata tracciata e non tardò a essere percorsa. Grazie alla loro straordinaria tecnica di navigazione e, in particolare, di cabotaggio, i portoghesi si addentrarono negli entroterra africani soprattutto risalendo il corso dei fiumi: con le loro barche di medie dimensioni riuscirono a navigare il corso sia del Casamance sia del Gambia (all’epoca non esistevano strade).
I rapporti degli europei con le tribù autoctone furono ovviamente di natura bellicosa: dapprima essi invasero le terre degli autoctoni conquistandone buona parte, e in seguito diedero vita all’orrenda pratica della caccia ai locali, i quali venivano catturati, rapiti e deportati per essere impiegati come schiavi prima in Europa e poi nelle piantagioni coloniali americane.
In sporadici casi i portoghesi intrapresero rapporti “pacifici”, esclusivamente di natura commerciale. A tal riguardo in questa zona è appurato che verso la fine del XV secolo i coloni stabilirono una base a Zinguichor e commerciarono con il mansa (re) di Kasa (da qui deriva l’espressione Kasa mansa e quindi il toponimo Casamance): questo regno, conosciuto anche come Kasanga, costituito principalmente da elementi di etnia banun e kasanke, dominava su tutta la Bassa Casamance e cadde sotto il controllo dell’impero Kaabu solamente tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. 5)
La caccia e la cattura dei nativi africani da parte dei portoghesi iniziò già alla fine del XV secolo, e la etnicamente variegata popolazione dell’area senegambiana dovette trovarsi a fronteggiare una violenta crisi delle proprie società depredate di uomini e risorse, vessazione che contribuirà a minare per la prima volta l’integrità delle ricche culture locali, disgregandone gran parte dei riti e tradizioni.
L’istituzione della schiavitù rappresentò fin da subito un crudele dramma umano e, in secondo piano, anche culturale, con migliaia di indigeni brutalmente uccisi, deportati e strappati alla loro terra natia provocando uno squarcio irreparabile nel tessuto sociale di questi gruppi: conseguenza fu quindi anche una parziale dispersione di abitudini e pratiche tradizionali autoctone. Durante la prima fase di questa tragedia i jola riuscirono a resistere fieramente alla schiavitù grazie alla particolare posizione dei loro insediamenti: essi erano infatti stanziati prevalentemente nella Bassa Casamance e vivevano quasi completamente isolati dagli altri gruppi nelle fitte foreste e nelle aree paludose costiere, luoghi difficili da penetrare anche per gli esperti portoghesi. Questo “vantaggio” strategico impedì a molti jola di essere schiavizzati e prelevati in questa fase, e consentì all’intero gruppo etnico di non essere coinvolto nei traffici commerciali con i coloni.
Inizialmente il principale bersaglio dei lusitani furono i mandinka che vivevano lungo il corso dei fiumi Gambia, Casamance e Geba, i quali vennero tratti in schiavitù e depredati delle loro ricchezze (in particolare oro). Con il passare degli anni e il rafforzamento dell’impero, dei possedimenti e della potenza coloniale, i portoghesi si spinsero sempre più nell’entroterra per compiere razzie di uomini: questa volta i jola non riuscirono a sfuggire.
Nel frattempo altre potenze europee avevano migliorato le proprie flotte e intrapreso i viaggi di “scoperta” – o meglio conquiste e massacri – in tutto il mondo. L’Africa divenne così teatro di sbarchi volti ad accaparrare nuovi territori sconfinati e, ancor peggio, essere umani da schiavizzare. Migliaia di indigeni appartenenti ai gruppi majangos, balanta, papel e appunto jola che abitavano le zone costiere dei fiumi Casamance e Gambia vennero razziati e condotti con la forza a lavorare in Portogallo e Spagna.
Successivamente, nel corso del XVI secolo la situazione, se possibile, peggiorò per le tribù locali: fu l’epoca del celeberrimo commercio triangolare. Quando gli europei si resero conto che avrebbero potuto ottenere enormi profitti nelle neonate colonie americane, ricche di materie prime, sfruttando il lavoro degli schiavi africani, intrapresero un business legalizzato quanto vergognoso comprando gli indigeni in Africa o, se impossibilitati, dando vita a veri e propri rastrellamenti prelevandoli con la forza e saccheggiando ogni cosa, per poi deportarli in America settentrionale, centrale, meridionale e nei Caraibi, costringendoli a lavorare a ritmi disumani nelle piantagioni agricole di monocolture come zucchero, cotone, riso, tabacco e, in misura minore, nelle miniere d’oro e d’argento.
Gli schiavi jola furono impiegati in particolare nelle piantagioni di riso, data la loro comprovata esperienza nella coltivazione del cereale in patria. Questa vergognosa pratica sarà ricordata come una, se non la principale, macchia indelebile dell’età moderna. In particolare nel periodo tra il 1445 e il 1600 circa un milione di africani furono prelevati dall’Africa Occidentale, soprattutto dalla regione senegambiana, distruggendo legami affettivi, sociali e culturali e costringendo le stesse società a mutare internamente, perdendo molto delle loro tradizioni che non saranno mai più recuperate.
C’è una triste quanto icastica leggenda jola che testimonia la drammaticità di questa terribile pratica schiavista: tra gli anziani era consuetudine raccontare che la musica dell’ekonting (tipico strumento musicale della loro tradizione) fosse così dolce e soave da attirare i “diavoli”. Pertanto quando diversi membri delle tribù che lavoravano duramente nelle risaie la sera si mettevano a suonare per rilassarsi bevendo vino di palma, capitava che spesso si addormentassero senza rincasare. Purtroppo molti non sarebbero mai più ritornati a casa e il mattino seguente, quando la gente usciva a cercarli, scorgeva per terra solamente impronte di scarpe che “associavano ai piedi di diavoli”, dal momento che i jola a quei tempi non erano soliti indossarle. È così che l’ekonting dei jola è arrivato nelle Americhe…

Dalle colonie all’annessione senegalese

Il predominio dei portoghesi sulla regione continuò nel corso dell’età moderna; ma, pur spingendosi maggiormente verso le zone interne rispetto alla fase iniziale, essi non conquistarono mai l’area per intero né fondarono una vera colonia in Casamance. I portoghesi detenevano il controllo politico-territoriale e avevano il monopolio commerciale della zona, ma non riuscirono mai ad assoggettare completamente l’intera popolazione locale. In particolare i jola opposero ai saccheggi e ai rapimenti e anche ai tentativi di conquista una strenua resistenza, costruendo palizzate per proteggere i loro villaggi arroccati e nascosti nelle foreste e rendendo vani i tentativi dei coloni.
I jola erano favoriti anche dal fatto di essere una società acefala e di non aver mai costituito un regno unito con un unico sovrano, bensì di constare di numerose tribù che condividevano lingua, riti e tradizioni culturali, e che vivevano separatamente e piuttosto isolate nelle foreste della Bassa Casamance.
Tuttavia con il passare degli anni la pressione europea aumentò: i francesi erano giunti nel nord del Senegal istituendo una colonia, mentre gli inglesi avevano aggiunto al loro sterminato impero nuovi domini tra cui il Gambia; a sud anche i portoghesi avevano realizzato conquiste con l’odierna Guinea-Bissau facendone una colonia in funzione anti-francese. La Casamance, ormai circondata da potenze straniere, in breve tempo dovette arrendersi e gli stessi indomiti jola furono assoggettati.
Iniziò l’innaturale procedimento di spartizione dei territori coloniali tra gli Stati europei, realizzato tracciando confini arbitrari solamente per motivi di interesse e senza tener in minima considerazione la localizzazione e la storia delle popolazioni autoctone, che spesso si trovarono spezzate e divise tra più Stati.
Nel 1886 i portoghesi cedettero ai francesi la loro iniziale base strategica di Ziguinchor e nel 1888 fu stabilito tramite un negoziato un primo confine tra la colonia francese del Senegal e la Guinea Portoghese (oggi Guinea-Bissau) a sud. Il Portogallo perse dunque definitivamente il controllo della Casamance a livello politico ed economico, ottenendo in cambio una fetta di territorio senegalese da unire alla colonia guineiana. La Casamance tuttavia non venne subito occupata fisicamente dai francesi i quali, più concentrati su altri fronti, in questa specifica area dell’Africa Occidentale preferirono rimanere stanziati soprattutto nel Senegal settentrionale. Già da qui comincia a nascere l’idea, trasferitasi poi anche al governo centrale senegalese, della Casamance come provincia remota e abbandonata a se stessa.
La scarsa presenza coloniale permise alle etnie locali di mantenere ancora un esiguo controllo sulla propria terra, contribuendo così alla nascita di uno spirito autonomistico nei confronti del padrone straniero che sarebbe perdurato per decenni e si sarebbe tradotto in un sentimento marcatamente indipendentista. Contemporaneamente, nella seconda meta del XIX secolo c’erano state anche alcune piccole guerre interne: altre tribù autoctone di fede islamica avevano attaccato i gruppi jola con la volontà di conquistarne il territorio e convertire la popolazione. Anche in questo caso la resistenza jola ebbe la meglio e la missione fallì quasi completamente: soltanto pochi individui scelsero la via dell’islam, la maggioranza non smise di seguire le pratiche animiste tradizionali.
Le tribù jola che erano ubicate nella sezione della Bassa Casamance, nei pressi del confine con l’anglofono Gambia, dovettero fronteggiare anche attacchi britannici che risultarono infruttuosi, nonostante la frammentarietà dei gruppi coinvolti.
La Francia occupò ufficialmente la Casamance nel 1903 e la unì al Senegal, dal quale rimase però, come abbiamo già detto, profondamente separata dal punto di vista territoriale e infrastrutturale ma soprattutto etno-culturale. Dal 1900 i jola furono obbligati ad accettare la presenza straniera in modo fisso nei loro territori, e dal 1905 a pagare le tasse al nuovo padrone europeo.

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Tirailleur sénégalais al servizio della Francia.

Anche durante questa fase non accettarono passivamente la situazione, ma continuarono a lottare per riottenere libertà e autonomia, minando più volte le certezze francesi ai quali si ribellarono in diverse occasioni. Nel 1917 il generale Van Vollenhoven dichiarò pubblicamente che, loro malgrado, gli occupanti non avevano il controllo della situazione in Casamance, aggiungendo che non venivano rispettati ma appena tollerati. Aggiunse che la Casamance, grazie alle sue bellezze e risorse, non avrebbe più dovuto rappresentare una sorta di verruca nella colonia ma avrebbe dovuto esserne il gioiello più splendente.
La combattività dei jola e lo scarso polso francese sulla zona spiegano come il sentimento indipendentista sia antico e movimenti separatisti fossero in pratica già sorti a inizio XX secolo. Negli anni seguenti i francesi in qualche modo riuscirono a contenere le rivolte jola e a mantenere una seppur minima parvenza di potere e padronanza della regione.
Si arriva così alle guerre mondiali e al successivo processo di decolonizzazione. Il Senegal ottenne lo statuto di repubblica autonoma nel 1958 e l’indipendenza piena dalla Francia nel 1960, quando venne costituita la Federazione del Mali composta dallo stesso Senegal e dal Sudan francese (attuale Mali); tuttavia l’esperimento non funzionò e già il 20 agosto dello stesso anno Senegal e Mali dichiararono la propria indipendenza.
Con il neonato Stato, come già detto, la vita dei jola e della Casamance non è affatto migliorata: l’idea francese di provincia lontana e indesiderata si è acuita relegandola ad area marginale, remota, povera e degradata. I jola sono stati pesantemente discriminati dal governo centrale, che negli anni successivi all’indipendenza ha fatto poco per risollevarne le sorti e migliorarne le condizioni esistenziali. Durante il periodo coloniale e successivamente all’interno dello Stato nazionale senegalese, la cultura e le credenze tradizionali jola sono state profondamente erose dall’islam, dalla cristianità e dall’educazione occidentale.
Nonostante perdite culturali enormi, la maggioranza dei membri dell’etnia professa ancora oggi riti tradizionali riconducibili a un modello religioso animista, una discreta parte si è invece convertita al cristianesimo, solo un’esigua parte all’islam. Questo rappresenta un altro elemento di discontinuità rispetto al resto del Paese dove la confessione largamente più diffusa risulta proprio l’islamismo: più del 90% della popolazione senegalese è musulmana. In generale i jola nella seconda metà del XX secolo hanno dovuto subire il peso e le pressioni della cultura wolof, etnia maggioritaria e dominante nel Paese dalle cui fila sono spesso usciti leader politici e figure che hanno assunto le cariche più importanti nell’apparato statale, non risparmiando in alcuni casi politiche discriminatorie nei confronti dei jola.
L’intera storia di questo gruppo etnico ci fa dunque comprendere le ragioni che hanno portato alla situazione degli ultimi decenni. La Casamance è una regione distaccata dal resto del Senegal, mai  conquistata e controllata interamente nemmeno durante la presenza coloniale, dove i jola hanno sempre lottato, di fatto senza mai completamente abbandonare il controllo dei propri territori, vivendo in maniera isolata anche rispetto agli altri gruppi locali. Questa circostanza, esaltata dal merito di essere riusciti a resistere a grandi potenze europee meglio organizzate ed equipaggiate malgrado l’estrema frammentarietà dei clan, ha prodotto un profondo e radicato sentimento “etno-nazionalista” e regionalista, generando già negli anni precedenti la prima guerra mondiale movimenti di rivolta, rendendo il terreno fertile alle organizzazioni indipendentiste della seconda metà del secolo. Le politiche centraliste post indipendenza e la consapevolezza di essere una realtà altra geograficamente, etnicamente e culturalmente rispetto al Senegal, hanno fatto il resto, trasformando la Casamance in un terreno di scontro per un popolo che, in diversi suoi componenti, reclama a gran voce l’indipendenza da un Paese a cui non sente di appartenere e di cui probabilmente non ha mai fatto veramente parte.

Un’economia fondata sulla coltivazione del riso

L’attività economica principale del popolo jola è sempre stata l’agricoltura, in particolare specializzata nella coltivazione del riso. Un ruolo importante, soprattutto nei secoli passati, era rappresentato anche dallo sfruttamento della foresta con la raccolta di erbe e frutti commestibili, dalla pesca e dall’allevamento.
Fin dal loro arrivo nella Casamance, i jola hanno saputo sviluppare importanti abilità nella coltura del riso, organizzando il lavoro e preparando i terreni nella maniera migliore possibile per ottimizzare lo spazio e raggiungere la massima efficienza produttiva. Il riso, grazie alla cura e all’attaccamento dimostrato nella sua produzione, è quindi divenuto il principale elemento produttivo del gruppo, assumendo anche un ruolo ulteriore rispetto a quello di perno del sistema economico locale: è assurto a pilastro centrale dell’intera comunità tribale, riferimento per i riti religiosi e l’organizzazione sociale. Per queste ragioni numerosi studiosi hanno classificato i jola come esempio più rilevante di civiltà agraria nell’Africa Occidentale, coniando addirittura la sintomatica espressione di “società del riso autenticamente africana”.
È probabile che alcune tecniche riguardanti la coltivazione del riso siano state assimilate in seguito al contatto con il popolo bainuk, anch’esso stanziato nella regione. Le aree costiere della Bassa Casamance, composte per lo più da paludi e stagni di acqua salmastra, mangrovie e foreste fitte di alberi, sicuramente non costituivano in partenza l’ambiente ideale per la coltivazione del riso; tuttavia i jola seppero ricavare ingenti spazi adibiti all’agricoltura, ottenendo il massimo anche da questi difficili territori trasformati in ampie risaie alle quali si dedicavano per tutto l’anno. Infatti, una volta terminato il tempo della raccolta, cominciava quello della manutenzione dei campi che perdurava fino alla semina successiva.
Ancora oggi in Casamance sono presenti tre differenti tipologie di risaie: quelle alte situate al margine degli altipiani nella zona centro-orientale della regione, quelle medie lungo i pendii e quelle di mangrovie collocate nei pressi della costa. Soprattutto nei secoli passati, il vantaggio delle risaie situate nei pressi dell’oceano nasceva da una migliore gestione delle acque durante la stagione delle piogge in quanto, a differenza delle più elevate nell’area degli altipiani, non potevano soffrire di siccità. Chiaramente la problematica principale delle risaie da mangrovie era rappresentato dalla dissalazione del suolo, procedimento che richiedeva tecniche particolari e piuttosto elaborate.
Nonostante la complessità dell’habitat naturale di partenza e la perizia necessaria per garantire un buon raccolto, i jola sono stati in grado di valorizzare il riso facendolo diventare il prodotto principale della loro dieta e un simbolo per la loro cultura. Quasi ogni individuo si dedicava alla sua coltura, e numerose attività ruotavano intorno al prezioso elemento, da quelle religiose a quelle sociali: era protagonista di un’incredibile attenzione in ogni sua forma, dal processo produttivo all’utilizzo nei rituali, passando per la cucina.
Solitamente il riso veniva riposto nei granai che molte famiglie possedevano: era considerato un luogo privato, intimo, a cui era attribuita una valenza “superiore”: solo il pater familias ne custodiva la chiave e l’accesso era consentito esclusivamente ai parenti stretti. Anche la collocazione del riso all’interno del granaio risultava figlia di un’organizzazione funzionale e simbolica, che dimostrava un elevato grado di programmazione e sviluppo: una parte, nel granaio della donna, serviva per l’alimentazione; una seconda parte, nel granaio dell’uomo, componeva la quantità da utilizzare nella semina dell’anno successivo; e infine l’ultima, accumulata nel corso di tanto tempo (anche 20 anni) fungeva da emblema di ricchezza, coraggio della coppia, fecondità della terra, nonché riserva importante da impiegare in caso di improvvisa e persistente carestia.

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Risaie in pianura,

Sebbene all’interno delle diverse unità tribali tutti fossero a conoscenza di quanto riso fosse conservato in ogni granaio e di conseguenza chi ne possedesse di più, la ricchezza non veniva mai ostentata pubblicamente. È anche importante sottolineare come l’attività agricola perdurasse per l’intero anno, mentre altri gruppi etnici stanziati nella Casamance orientale lavoravano su terreni più aridi a clima “sudanico” ed erano quindi costretti a interrompere la coltivazione nella stagione secca, per poi ricominciare con l’avvento di quella umida. È pur vero che le tribù jola stanziate nelle aree settentrionali e orientali dell’Alta e Media Casamance dovevano, in virtù delle suddette particolari condizioni climatiche, sospendere l’attività nei mesi di siccità come gli agricoltori delle altre comunità. Nella Bassa Casamance fu inventato un sistema di dighe per evitare l’allagamento dei campi con acqua marina salata durante l’alta marea.
Lo strumento tipico jola impiegato per l’attività agricola è ancor oggi il kadyendo, lunga pala in legno che termina con un vomere in ferro. La risicoltura era e continua a essere la principale attività economica dei jola, che tuttavia hanno da sempre praticato altri mestieri, sfruttando appieno la disponibilità naturale della foresta che rappresentava un’importante fonte di approvvigionamento. Un altro prodotto tipico è infatti la palma, da cui ricavavano mediante spillatura olio e vino, quest’ultimo utilizzato in grandi quantità nelle cerimonie sacre. Durante la stagione secca gli uomini nella zona dell’Alta Casamance si dedicavano soprattutto alla raccolta delle noci di cocco.
I jola coltivavano anche altri cereali come miglio, sorgo e mais, arachidi (in particolare nella Bassa Casamance nel tratto a nord del fiume omonimo), ortaggi, patate dolci, angurie, ed erano soliti raccogliere il miele. Nel corso degli anni, vivendo sulla costa e sulle rive del Casamance, si sono riciclati divenendo anche abili pescatori sia nell’oceano (mai in mare aperto) sia nel fiume principale e nelle sue ramificazioni, catturando pesci, crostacei e raccogliendo ostriche.
I jola svilupparono anche un basilare sistema di allevamento del bestiame con piccole fattorie, concentrato su bovini (mucche), ovini (pecore e capre) e in misura minore maiali, galline e anatre. Proprio le pecore venivano comprate dagli wolof e allevate all’interno dei villaggi, ma non avevano un ruolo significativo nell’alimentazione o nella vita economica; i bovini, invece, in àmbito religioso svolgevano una funzione espiatoria in quanto il loro sacrificio era visto come l’unico modo per riparare una colpa o un’offesa fatta agli spiriti divini, oppure venivano immolati nelle cerimonie legate ai riti di passaggio. Ma nel complesso, tolta questa accezione “spirituale” dei bovini, l’allevamento rivestiva all’interno della società jola, anche a livello simbolico, un’importanza decisamente minore rispetto ad altri gruppi autoctoni dell’Africa occidentale. Per esempio, a differenza dei fula che misuravano il loro grado di ricchezza in base al numero di capi di bestiame posseduti, i jola lo valutavano – come abbiamo già detto – in base alla quantità di riso nei granai familiari.
L’alimentazione jola ricalcava la disponibilità dei prodotti forniti dalla terra e coltivati: il riso era dunque al primo posto, spesso accompagnato da pesce nelle aree costiere, da frutti commestibili della foresta in quelle interne boscose. La manioca è ancora oggi un altro alimento importante nella Casamance, ridotto in farina appositamente per ottenere una sorta di porridge duro chiamato fufu, generalmente servito con stufato di manzo, capra, pecora o pollo. Oggi un altro piatto tipico è yassa, pollo o pesce marinato in salsa di limone e cotto al forno accompagnato da pepe e cipolle.
Abbondante era il consumo di vino che è andato via via scomparendo solamente nella sub-regione di Bignona, l’area della Casamance che ha subìto la maggiore islamizzazione. In questa zona anche la raccolta delle noci di cocco dalle palme è notevolmente diminuita, mentre rimane ancora una delle attività più praticate dalla maggioranza dei jola che sono ancora animisti.
Per quanto riguarda attività terziarie, i jola praticavano deboli forme di commercio esclusivamente con gli altri gruppi etnici autoctoni dell’area, quasi mai con i portoghesi: si trattava di operazioni di baratto e piccole compravendite. I jola “esportavano” nella Casamance soltanto alcuni dei loro prodotti di maggior pregio: cera d’api, miele, gomma, legno e terracotta con cui creavano oggetti dal grande valore estetico che venivano poi venduti. Era invece assolutamente vietato vendere il riso, e anche i bovini, in cambio di denaro.

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Pescatori di fiume sul Casamance.

Società acefala e ugualitaria

Anche per quanto concerne struttura politica e sociale i jola si differenziano dalla maggioranza delle culture dominanti dell’Africa Occidentale, mancando totalmente di stratificazione e gerarchia. Fin dai primi resoconti di viaggio degli esploratori europei emerge un preciso esempio di società egualitaria senza un governo centralizzato: non vi sono capi, re, né gerarchia sociale. Gli europei si imbatterono in un’area frammentata composta da una serie di villaggi isolati e decisamente indipendenti tra loro, senza alcun referente con cui potersi rapportare. Proprio per questi motivi, uniti alla particolare collocazione strategica degli abitati all’interno di foreste per lo più inaccessibili, i contatti inizialmente furono sporadici e i jola riuscirono a mantenere in un primo momento la loro autonomia e identità.
Il villaggio coincideva sostanzialmente con unità claniche prive di rapporti intensi tra loro e che spesso assumevano nomi propri; esse condividevano origini, lingua e le medesime tradizioni culturali, ma ogni entità “funzionava” per sé, autonomamente e in maniera autosufficiente. All’interno del villaggio si potevano identificare le uniche forme di organizzazione dell’intera comunità, ovvero famiglia e quartiere. La famiglia coniugale si posizionava alla base della società tribale, custodendo gelosamente la propria intimità e proprietà; tuttavia le famiglie discendenti da un antenato comune erano solite vivere nella stessa microzona geografica: il quartiere. L’attaccamento nei confronti del territorio in cui risiedevano era talmente forte che i nuclei familiari si riconoscevano maggiormente nel nome del quartiere piuttosto che nel proprio patrimonio. I quartieri comunque non formavano blocchi compatti e omogenei, anzi presentavano significative differenze tra loro.
Comune a tutti i villaggi era la mancanza di un vero centro: i jola vivevano in semplici case fatte di muri di fango (a volte venivano impiegate canne di bambù per intrecciare le pareti) e tetti di paglia ed erba. In tempi recenti le capanne si sono trasformate in vere e proprie abitazioni con pavimenti e pareti in cemento. In alcuni casi nascevano rivalità tra i diversi quartieri che potevano sfociare in aperte contese. L’unico collante tra villaggi diversi era invece rappresentato da attacchi esterni: in caso di guerra scatenata da altre comunità etniche le tribù claniche jola si compattavano e combattevano unite contro il nemico, sotto la guida di un comandante scelto per meriti militari.
Il concetto di autorità era davvero particolare nei villaggi jola: difatti, a parte cariche onorifiche e di gestione e conduzione dei riti sacri, era praticamente assente. Come detto non esistevano re e governanti, e soltanto alcune comunità disponevano di una figura che aveva simbolicamente una carica di rilievo a livello religioso ma non di leader politico.
In genere i rituali animisti tradizionali erano supervisionati dagli anziani, che non costituivano una classe dirigente a sé stante, mentre in tempi più recenti le poche comunità convertite all’islam hanno beneficiato della presenza del marabout, profeta spirituale e anche insegnante. Un consiglio di anziani, riunendosi solamente in situazioni eccezionali, guidava anche le scelte e le decisioni importanti del villaggio, le quali però venivano prese in maniera collettiva e considerando l’opinione di tutti: il ruolo dei vecchi saggi, scelti per la loro esperienza, era più che altro quello esecutivo, ossia mettere in pratica la volontà popolare tribale testimoniata dai rappresentanti dei vari quartieri. All’interno delle singole famiglie ogni uomo sposato esercitava il ruolo di capo famiglia, ma questa funzione non era assolutamente assimilabile a quella di despota presente in altre culture.
Come emerso in precedenza, l’elemento che stabiliva la ricchezza di una famiglia era determinato dalla quantità di riso presente nel granaio personale e, presso le tribù dedite all’allevamento, dalle mandrie di buoi: tuttavia le differenze in merito non venivano celebrate e soprattutto non erano sufficienti ad alimentare divisioni o determinare classi sociali, caste o ceti. Gli stessi anziani venivano profondamente rispettati in quanto depositari della saggezza e del patrimonio culturale tradizionale, ma non erano considerati una classe a sé stante.
I jola erano insomma una società davvero egualitaria, nella quale praticamente tutti i membri godevano degli stessi diritti e avevano la medesima importanza all’interno della comunità. A rafforzare questo principio, l’assenza del concetto non solo di autorità ma anche di Stato: non esisteva una realtà sovra-tribale di “nazione jola”, ma tutte le comunità erano concentrate sui propri villaggi quali strutture decentrate, autonome, indipendenti le une dalle altre. Senza contare che la stessa terra non era né privata né proprietà di piccoli gruppi, bensì un bene collettivo gestito e lavorato in comune dalle diverse famiglie che costituivano i quartieri e l’intera comunità. Parliamo in definitiva di una struttura socio-politica realmente egualitaria, incentrata su una forte coscienza collettiva fatta di scelte quasi sempre condivise con tutti..
Il valore dato alla famiglia e alle relazioni tra nuclei familiari e altri membri della tribù rivestiva un peso predominante nella mentalità jola: lealtà e fedeltà erano ideali fondamentali da perseguire creando così un forte senso comunitario e – in questo caso sì – di interdipendenza tra pari, ma solamente all’interno del villaggio: è frequente infatti sostenere e aiutare le altre famiglie che fanno parte del proprio quartiere e villaggio, se in difficoltà.
L’uguaglianza era rappresentata anche dal rapporto tra uomo e donna, considerati come pari, testimoniato dall’assenza di marcate distinzioni tra attività maschili e femminili: in genere i lavori più pesanti erano affidati ai maschi ma solo per un fine pratico, ovvero ottenere maggiori risultati produttivi trattandosi soprattutto di attività che richiedevano prestanza fisica. Gli uomini aveno quindi il compito di dissodare, arare, innalzare dighe, raccogliere vino di palma, pescare, andare a caccia e costruire ripari come capanne. Le donne invece concimavano le risaie, effettuavano la semina, piantavano alberi e piante, raccoglievano il riso, cucinavano, praticavano anch’esse la pesca dei crostacei con le nasse e fabbricavano i vasi di terracotta.
Per tutte le altre attività quotidiane uomini e donne erano praticamente intercambiabili. I lavori artigianali potevano essere svolti da chiunque, e di conseguenza non si andava a formare una ristretta casta separata di fabbri, calzolai e artigiani, in rispetto al principio basilare della tradizione jola secondo cui nella società tutti gli individui erano uguali e non dovevano esistere classi né tanto meno gradi gerarchici. 6)
Eppure, in una società in cui i villaggi pensavano sostanzialmente a loro stessi e priva di struttura gerarchica, esisteva un’organizzazione accuratissima dell’agricoltura. Il lavoro nei campi era infatti articolato, presso alcune tribù, in “associazioni” di persone tutte rigorosamente facenti parte della medesima comunità, ma il più delle volte provenienti da quartieri differenti: l’obiettivo era massimizzare l’efficienza produttiva in particolare nelle risaie. Il frutto del lavoro collettivo veniva consumato nel corso delle feste tribali. In epoca recente a queste “organizzazioni sociali agricole” se ne aggiunsero altre più ampie che venivano predisposte in particolare per costruire opere pubbliche per l’intera comunità, come scuole ed edifici religiosi.

La forza della tradizione

L’etnia jola presenta un variegato panorama culturale costituito da riti, usanze, credenze e valori immateriali che regolano le attività tribali e, data la loro unicità, permettono di distinguere nettamente il gruppo dalle comunità limitrofe. Partendo dai princìpi cardine che reggono la mentalità jola, non si può non citare l’importanza rivestita dalla famiglia e le relazioni con gli altri nuclei parentali o appartenenti al medesimo quartiere e villaggio (che come abbiamo visto sono le unità fondamentali di questa società). Queste relazioni si fondano su valori come onestà e reciproco rispetto per gli altri e le loro proprietà: il furto, per esempio, è un reato molto grave praticamente equiparato all’omicidio.
Altri princìpi cardine sono il culto del lavoro realizzato nella sua massima espressione con la cura delle risaie; e il coraggio in battaglia, nonostante i jola siano sempre stati un popolo decisamente pacifico (a parte gli avvenimenti di cronaca degli ultimi decenni, di cui tratteremo ampiamente in seguito).
Descrivendo la notevole frammentazione territoriale e l’isolamento delle tribù, sottolineavamo come – pur condividendo lingua, riti e tradizioni – esse vivessero in modo indipendente le une dalle altre, riuscendo a essere del tutto autosufficienti. Questa caratteristica può spiegare la loro forte inospitalità nei confronti degli europei, tradottasi in un’aperta resistenza che nei primi secoli di dominio coloniale in Africa occidentale ha avuto successo. Tuttavia proprio la presenza europea ha in parte corroso le tradizioni e la cultura della società jola, corrompendo alcune usanze e tradizioni e contribuendo alla diffusione del cristianesimo a partire dal XIX secolo. Dopodiché, la convivenza con altre comunità etniche tutte quante musulmane e l’incorporazione all’interno dello Stato senegalese nel secondo dopoguerra, hanno inevitabilmente comportato la conversione di una parte all’islam. Ma anche in queste controversie confessionali i jola rappresentano un’unicità: proprio a causa del loro sentimento di alterità rispetto ai gruppi confinanti e alla sensazione di estraneità nei confronti del Senegal, le scelte religiose di diversi individui ne sono rimaste fortemente condizionate. Ci troviamo così in una situazione in cui tra i jola si conta il maggior numero di cristiani rispetto alle altre comunità etniche del Paese, fortemente e fieramente islamiche. Analogamente, tra tutte le comunità dell’area senegambiana i jola fanno registrare le percentuali più basse di musulmani, con buona parte delle conversioni avvenute soltanto di recente, con secoli di ritardo rispetto alle altre etnie.
Oltre questa dicotomia socio-religiosa tra cristianesimo e islam, si staglia sullo sfondo la preponderante cultura animista locale: infatti la stragrande maggioranza dei jola continua a praticare i riti sacri della tradizione antica. La religione ancestrale jola, onorata attraverso precisi rituali e cerimonie che scandiscono le diverse fasi della vita e dell’anno, è fortemente incentrata sullo strettissimo legame tra l’uomo e il contesto naturale in cui vive. La spiritualità è organizzata intorno al culto dei boekin, forze soprannaturali che si possono trovare in un determinato luogo o oggetto materiale. Essi sono intermediari tra gli uomini e il dio supremo chiamato Emit o Ata Emit (letteralmente “il padrone dell’universo”), essere superiore spesso associato a fenomeni naturali e cronologici come il cielo, la pioggia, l’anno, le stagioni.
Nella cosmogonia jola al di sotto dei boekin vi erano gli ewn (totem), animali di riferimento per ogni nucleo familiare incarnati da coccodrilli, serpenti e altri esseri caratteristici della zona. I jola erano devoti anche ad altri spiriti denominati bakin o eneerti che avevano il compito di proteggere famiglia, quartiere, villaggio, le preziose risaie e addirittura impedire la conversione delle persone all’islam o al cristianesimo.
Tra i numerosi e complessi riti della religione tradizionale jola, il più importante è senz’altro l’iniziazione alla sfera spirituale, denominata kahat, che coincide anche con il passaggio all’età adulta. Il rito coinvolge tutti i giovani del villaggio – in un età compresa generalmente tra i 6 e gli 8 anni – e viene praticato con cadenze regolari ma a distanza di anni: i ragazzi che dovevano affrontare questa prova ricevevano regali dalla loro famiglia, veniva loro rasato completamente il capo e poi venivano radunati e portati nel cuore della foresta, in luoghi considerati sacri e adatti a queste cerimonie. Qui erano costretti a un lungo periodo di isolamento lontano dalle proprie famiglie, sottoposti a prove di resistenza, di abilità fisica e di conoscenza dei costumi tradizionali, e infine circoncisi.
I piccoli venivano accompagnati nella foresta da adulti che fungevano da stregoni e maestri, fornendo ai discepoli tutti gli insegnamenti e i princìpi morali alla base della loro religione animista. La circoncisione rappresentava il momento culminante del rito di passaggio, una sorta di “taglio netto” con la fanciullezza per permettere all’individuo di approdare al mondo degli uomini. Una volta superata la sfida e ricondotti a casa, i nuovi adulti potevano godere di una settimana di assoluto riposo prima della festa finale, il grande giorno in cui tutto il villaggio avrebbe celebrato con gioia l’avvenuto passaggio. Le diverse fasi del rituale iniziatico all’interno della foresta erano avvolte in un assoluto segreto, e gli adulti sciamani ai quali era affidato questo delicato compito non dovevano far trapelare niente di quanto si svolgeva nel bosco sacro, pena il rischio di essere colpiti da una maledizione, loro e le loro famiglie per diverse generazioni. Ciò testimonia l’enorme rilevanza di questa pratica all’interno della società jola.
Le influenze e le contaminazioni di cristianesimo e islam hanno in parte modificato l’ancestrale rito iniziatico, senza però mutarne completamente la routine, gli atti principali e il valore simbolico. In ogni caso i ragazzi, pur essendo iniziati a partecipare alla vita spirituale della comunità, non erano ancora istruiti completamente ai misteri dei boekin, che avrebbero conosciuto in seguito a ulteriori riti di iniziazione.
Il kahat e il bukut (una variante del primo) erano una prerogativa esclusivamente maschile; ma anche alle ragazze era riservata una sorta di iniziazione alla vita religiosa, decisamente più tardi rispetto ai maschi (tra i 13 e i 25 anni), isolate in una capanna in cui gli uomini non erano assolutamente ammessi. Nonostante segretezza e diversità di funzionamento tra i due rituali, in comune c’è il fatto che sia i maschi sia le femmine imparavano a sopportare le difficoltà, a obbedire agli ordini, a rispettare gli anziani, a essere coraggiosi, a conoscere i costumi sociali e a comprendere la saggezza tradizionale della tribù. Questi riti di passaggio scandivano il tempo dell’anno e l’organizzazione delle attività lavorative del villaggio.
Anche per quanto riguarda nascite e matrimoni c’erano e ci sono tutt’oggi riti particolari. Quando viene al mondo un bambino, il neonato è allontanato per sette giorni e “iniziato” alla vita mentre nel villaggio si sacrifica un pollo o una capra.
Per la donna il matrimonio rappresenta un secondo rito di passaggio, in quanto deve lasciare la propria casa per trasferirsi in quella del futuro sposo. Il matrimonio stesso è più un affare di famiglia che un legame individuale tra due persone. In generale si tratta di un processo di lunga durata in cui le ragazze vengono promesse a un uomo mentre sono ancora giovani, e il futuro marito dovrebbe lavorare per i suoceri in attesa che la “fidanzata” diventi maggiorenne. La celebrazione del matrimonio coinvolge solitamente l’intero villaggio.
I jola sono poligami. Un uomo può arrivare ad avere fino a quattro mogli, e può capitare che le diverse spose condividano le faccende domestiche e le responsabilità per il giardinaggio, la coltivazione del riso, la preparazione del cibo e la cura dei bambini, mentre la controparte maschile è responsabile delle colture che generano altro tipo di reddito oltre al riso, come arachidi, agrumi e manghi, che vengono successivamente venduti per fornire risorse alla famiglia.
Le famiglie si aiutano a vicenda economicamente e un figlio può essere educato dalla famiglia allargata, ma in cambio ci si aspetta che contribuisca al mantenimento della stessa, in particolare se una volta adulto si reca in altri luoghi per lavorare. Ogni parente è dunque visto come un’àncora di salvezza nei momenti di carestia e difficoltà economiche, in armonia con la tradizione.
Prima dell’avvento di islam e cristianesimo, nel sistema di credenze jola le cerimonie funebri rivestivano un ruolo importante: ora le contaminazioni esterne hanno in parte alleggerito la centralità di queste occasioni. I jola continuano comunque a considerare la morte un ulteriore rito di passaggio nell’aldilà, trapasso che può essere perfezionato soltanto con la celebrazione del funerale, che permette all’anima del defunto di ultimare il suo percorso terreno par andare a riunirsi con gli antenati. Ogni individuo aspira a ricevere un buon funerale: le tradizionali cerimonie funebri richiedono infatti l’organizzazione di una grande festa che coinvolge tutto il villaggio, con numerosi bovini macellati e offerti come sacrificio per accompagnare la dipartita dalla casa terrena.
La celebrazione dei rituali funebri è ancora importante nella società jola: se non venissero portati a termine, l’anima non riuscirebbe a entrare nell’aldilà al cospetto del creatore Ata Amit e a proseguire il suo nuovo cammino con gli antenati. Un cammino fortemente condizionato dal comportamento tenuto dall’individuo nel corso della vita: se ha condotto un’esistenza retta e onesta, lo attende una altrettanto buona nel regno delle anime, mentre se la sua vita terrena è stata costellata da cattive azioni, dopo la morte l’anima verrà punita diventando uno spirito vagante. Presso il lignaggio cassa, lo spirito esiliato a causa delle malvagie azioni compiute in vita era definito holowa e diventava uno spettro vagabondo non rispettato da tutti gli altri spiriti. Un incitamento per tutti a seguire la retta via, perseguendo giustizia e sani princìpi.

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Sciamano di Oussouy, vicino alla foce del Casamance.

Tornando all’organizzazione politico-sociale dei jola, l’unica figura autorevole di riferimento, a parte gli anziani, era rappresentata presso alcune tribù da una guida spirituale con il compito di coordinare e dirigere i diversi riti religiosi. Era questo sciamano a rivolgersi quotidianamente ai boekin rendendo loro omaggio a nome di tutti i membri del clan, in modo che essi si mostrassero comprensivi e generosi con l’intero villaggio. La figura dello sciamano, sebbene avesse il privilegio di parlare in maniera più “diretta” agli dèi rispetto ai comuni mortali, soffriva anche di un evidente svantaggio che rendeva la sua carica alquanto impegnativa: solo a lui veniva addossata la responsabilità per un evento negativo per la comunità, e la conseguenza era una punizione. Inoltre era soggetto a numerosi obblighi, come il divieto di mangiare e dormire in pubblico, di sposarsi. Questa carica di capo religioso assunse connotati differenti, limitandone gli obblighi a cui era costretto inizialmente, solo nel corso del XIX secolo quando la penetrazione europea aveva ampiamente interessato anche i territori jola e alcuni princìpi basilari della cultura locale erano già stati per sempre intaccati: in alcuni casi, oltre alla guida spirituale, gli sciamani iniziarono a svolgere funzioni politiche e amministrative, senza mai assumere elementi di sovranità in senso classico.
Come la maggior parte delle società africane, i jola hanno un vasto e ricco patrimonio di leggende, racconti popolari e miti utilizzati per tramandare tradizioni e costumi da una generazione all’altra. I racconti popolari impartiscono valori morali e preparano i giovani alla vita grazie soprattutto alle molte lezioni presenti al loro interno. Svariate sono le storie di eroi leggendari che avevano anticamente guidato la loro tribù in battaglia contro comunità etniche ostili. Altre leggende tentano di spiegare le origini del gruppo, come il racconto, descritto in precedenza, delle due sorelle Agaire e Jamboon e del naufragio della loro barca mentre attraversavano il fiume.
In questi miti abbonda la presenza di animali spesso utilizzati in chiave simbolica o metaforica per rappresentare sentimenti umani: così la scimmia, la lepre, la lucertola, l’uccello, il cervo, il serpente, la iena e altri esseri assumono caratteristiche umane esprimendo sentimenti come avidità, gelosia, onestà, solitudine… È attraverso il comportamento di questi animali che vengono impartite importanti lezioni ai bambini su come affrontare la vita nella maniera più giusta possibile.
Uno schema ben consolidato nei racconti jola è quello che descrive una situazione ingiusta alla quale viene posto rimedio da un bambino, spesso con l’aiuto di uno spirito benevolo o di qualche donna anziana che è stata trattata con cortesia e, per ricambiare il favore, aiuta il piccolo nella risoluzione delle difficoltà.
I “piantagrane” e le persone disoneste finiscono sempre per essere severamente puniti, mentre le iniziali vittime diventano ricche e vivono felici. In questo modo, attraverso le tradizioni e il folklore tribale, i valori familiari e le relazioni interpersonali vengono rafforzati, principio cardine per i jola. Gli estranei provenienti da lontano devono essere trattati con ospitalità, i figli devono essere coraggiosi e aiutare a proteggere la loro patria.
Se un qualsiasi tabù tradizionale dovesse essere rotto o disatteso, ci si può aspettare di essere puniti dal mondo soprannaturale. Ci si aspetta che i figli e le figlie siano obbedienti e sottomessi ai loro anziani, trattandoli con dignità. Ciò testimonia che per questa popolazione era fondamentale mantenere un perfetto equilibrio tra rispetto del mondo naturale e forze spirituali, tra devozione religiosa e consuetudini sociali, il tutto finalizzato a ottenere un buon raccolto, la sopravvivenza e in ultimo, ma non meno importante, la vita ultraterrena con gli antenati come degno corredo di una vita giusta vissuta secondo costume e morale.
A testimonianza dei principali valori che reggevano e reggono quasi interamente ancora oggi la società jola, ecco alcuni proverbi locali.
“Per quanto tempo un bastone stia nel fiume, non può diventare un coccodrillo”, a indicare che un forestiero non potrà mai diventare un vero cittadino della terra natale dei jola, dimostrando l’attaccamento di questa etnia per i propri territori ancestrali e l’inimicizia nei confronti degli oppressori stranieri.
“La migliore medicina per una persona è un’altra persona”, sottolineando l’estrema importanza attribuita dal popolo jola alle relazioni interpersonali e all’aiuto reciproco fornito a famiglie e altri nuclei dello stesso quartiere e villaggio.
“Un albero che cresce all’ombra di un altro morirà piccolo”, per stimolare e sviluppare l’indipendenza dei bambini.
“Se il cane non è in casa, non abbaia”, per ricordarci sempre di essere umili e rispettosi delle persone più esperte, “stando seduti al proprio posto” quando necessario.

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Festa con musica e danze.

Popolo di musicisti e lavoratori del legno

Una delle caratteristiche più peculiari della cultura di questa etnia è sicuramente la musica, tanto che i jola sono rinomati in tutto il mondo africano per essere formidabili musicisti. La musica e le danze sono le forme preferite di intrattenimento: suonare strumenti tipici, cantare canzoni della tradizione e ballare sono tra le attività ancora oggi più praticate. Le numerose feste e cerimonie all’interno del villaggio vengono sempre accompagnate da canzoni e danze tradizionali: ballerini mascherati danzano al ritmo degli strumenti suonati da musicisti locali durante eventi importanti e solenni come i riti di iniziazione, i matrimoni e i funerali. Per esempio, quando i ragazzi vengono condotti nella sacra foresta per essere circoncisi e diventare uomini adulti, il viaggio è accompagnato da canti di guerra per infondere loro il coraggio necessario a superare le prove.
I jola possiedono un ricco e vastissimo patrimonio culturale di cui fanno parte anche precisi eventi legati alla musica, come festival canori e di danza che si svolgono durante tutto il corso dell’anno. Ma la vera forza musicale del gruppo sono i suoi strumenti tradizionali, che gli hanno permesso di distinguersi e farsi conoscere anche nelle Americhe: stiamo parlando dell’ekonting e del galire. L’ekonting è uno strumento a tre corde pizzicate (oggi di nylon, ricavate da lenze, una volta realizzate con le radici di palma), considerato una sorta di liuto popolare. È formato da un lungo manico passante attraverso una cassa ricavata da una zucca semisferica sulla quale è inchiodata una pelle di capra forata che funge da tavola armonica. Prima della scoperta dei chiodi venivano impiegate spine di palma o pioli di legno. A differenza dei liuti tradizionali, il ponticello dell’ekonting non è fissato alla tavola ma è libero e può essere spostato avanti e indietro. Alcuni lo ritengono un precursore del banjo americano.

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Suonatore di ekonting.

Il galire è uno strumento formato da corde tese su una singola curva di un metro in pregiato legno di mangrovia. Osservandolo di sfuggita potrebbe ricordare l’arco di un cacciatore. Si suona con una mano che tiene una corda sottile e flessibile fatta di foglie di palma che batte sulla corda dell’arco, mentre l’altra mano tiene un’estremità dell’arco e regola la melodia con il pollice. L’altra estremità dell’arco rimane invece nella bocca del suonatore: il piacevole suono è realizzato con la vibrazione del musicista sulla corda dell’arco e il suo battito sottile e flessibile. Purtroppo l’esilio di numerosi giovani jola trasferitesi nelle grandi città del Paese in cerca di lavoro ha contribuito a un netto declino del suo utilizzo.
Infine nei festival e nelle cerimonie si fa largo uso di tamburi. La musica, il canto e la danza sono dunque un aspetto importante della cultura jola: uomini e donne cantano mentre svolgono le loro faccende quotidiane di giardinaggio, lavoro nei campi o mentre remano in canoa, i bambini possono cantare e ballare in gruppo di giorno e durante le festività anche di notte. Per quanto concerne gli oggetti materiali, i jola intagliano dal legno molti attrezzi da loro utilizzati nella vita quotidiana quali ciotole, mortai, pestelli, canoe per la pesca e gli stessi tamburi. La loro specialità sono tipici vasi realizzati in terracotta che sono diventati alcuni tra i principali – per quanto pochi – prodotti locali venduti alle altre comunità. Nel corso del XX secolo con l’intensificarsi dell’attività turistica lungo le coste, alcune tribù jola si sono specializzate nell’intagliare, sempre dal legno, maschere tribali estremamente peculiari che venivano rivendute ai visitatori.
I jola indossano abiti colorati, camicie e pantaloni con tessuti di produzione locale. Le donne portano in genere gonne lunghe con una camicetta larga. Per le feste religiose, gli uomini indossano abiti lunghi di diversi colori.
Essi sono specializzati anche in un altro campo: avendo da sempre vissuto in perfetto equilibrio con la natura e l’ambiente, sono grandi esperti di medicina e rimedi naturali, ai quali fanno ricorso massiccio anche al giorno d’oggi.

La lingua jola e i suoi dialetti

Alla lingua parlata dai jola si dà lo stesso nome del gruppo etnico. Comprendente idiomi oggi parlati in Senegal, Gambia e Guinea-Bissau, il jola fa parte del ramo bak, sezione atlantico-occidentale della più grande famiglia linguistica delle lingue niger-kordofoniane (o niger-congolesi). Il jola è dunque un’unica lingua, però suddivisa in una serie di dialetti appartenenti alle differenti tribù della regione, con caratteristiche comuni ma in alcuni casi non interamente comprensibili nelle loro varianti persino dagli altri stessi gruppi jola circostanti.
Secondo la classificazione di Ethnologue, i dialetti risultano nove. Banjaal, parlato in una piccola area a sud del fiume Casamance; bayot, parlato intorno a Ziguinchor; kudiola, diffuso in una manciata di villaggi a sud di Oussouye; fogni (kujamaat), usato intorno a Bignona; gusilay, diffuso nel villaggio di Thionck; karon, diffuso lungo la costa casamancese a sud di Diouloulou; kasa, nei pressi di Oussouye; kuwaataay, parlato lungo la costa a sud del fiume Casamance; mlomp, nei pressi del villaggio omonimo. La lingua jola-fogni è universalmente considerata l’idioma jola standard.
Tra i veri dialetti elencati una significativa eccezione è rappresentata dal bayot: parlato nella zona di Ziguinchor, risulta grammaticalmente identico al jola standard, a eccezione del sistema pronominale completamente differente e di circa metà del suo vocabolario: per tali motivi viene da alcuni considerato una lingua isolata con sostanziali prestiti dal jola, e quindi escluso dal gruppo dei nove e classificato a parte.
La molteplicità dei dialetti nella patria dei jola ha profondi radici storiche e conferma il loro isolamento dal resto dei popoli di questa regione, spesso anche dei diversi clan tribali. Un discreto numero di individui utilizza oggi una sorta di lingua creola, formata dalla fusione del jola con le lingue di altri gruppi etnici del Senegal e dei coloni, con parole che sono prestiti o reminiscenze della dominazione europea.

Lotta al centralismo: nascono i movimenti indipendentisti

Ripercorrendo interamente la storia del popolo jola e della regione nella quale si sono stanziati, abbiamo chiarito come siano potuti maturare i sentimenti e le volontà di indipendentismo dal Senegal. Il sostrato storico spiega le motivazioni intrinseche e la miccia che ha innescato le lotte per l’autonomia, ma non permette di comprendere pienamente come sia stato possibile giungere all’attuale situazione di estremo degrado in cui versa da più lustri la Casamance: per farlo bisogna analizzare nel dettaglio nascita ma soprattutto evoluzione e deriva dei movimenti indipendentisti locali.
Il plurisecolare sentimento di amore e identificazione dei jola con i propri luoghi non è stato spezzato dalla successiva conquista e dominazione europea, tanto è vero che, come evidenziato, gli stessi francesi erano ben consapevoli di non riuscire a controllare l’intera regione. Forti di questo fatto, nei primi decenni del XX secolo i jola si ribellarono più volte al padrone coloniale, riscuotendo qualche successo ma senza riuscire a ottenere mai la piena libertà. Erano quindi già presenti spinte centrifughe, ancorché non organizzate in veri e propri movimenti strutturati e con obiettivi precisi. Inizialmente si trattava solo della volontà popolare di rivoltarsi al giogo coloniale.
La situazione peggiorò negli anni successivi quando i francesi, non sapendo come trovare una soluzione efficace per gestire in sicurezza la Casamance, preferirono piuttosto ignorare il problema abbandonando completamente la regione al suo destino, ovvero controllandola lo stretto necessario per evitare rivolte ma non facendo niente di buono per i suoi abitanti che vivevano già nel caos: da una parte con un lieve spiraglio di autonomia garantita dalla trascuratezza del governo coloniale, dall’altra sottomessi e per questo sempre in cerca di maggiore libertà.
Così nacque e si diffuse la concezione di Casamance come provincia lontana e remota del dominio, che continuò anche dopo l’indipendenza e la nascita del Senegal. I governanti del neonato Stato si prodigarono ad attuare politiche centraliste senza tutelare le identità minoritarie locali, avvantaggiando palesemente l’etnia wolof dominante, ignorando le istanze jola, o peggio, discriminandoli apertamente.
Arriviamo così agli inizi degli anni Sessanta. Tutti gli elementi che abbiamo elencato hanno ormai reso la Casamance una regione completamente avulsa dal contesto nazionale senegalese, creando le basi per la comparsa di importanti movimenti separatisti. La prima organizzazione politica sorta nell’area risaliva agli anni ‘40, ma era l’espressione delle élite coloniali bianche francesi che avevano come obiettivo l’integrazione completa e definitiva della Casamance nel territorio francofono del resto del Senegal, staccandosi dall’influenza della zona anglofona del vicino Gambia. Il traguardo ultimo, fissato dai padri fondatori del movimento nel 1947, non era quindi quello di portare avanti una causa indipendentista della Casamance, ma fare sì che la regione superasse l’impasse amministrativa e culturale in cui era stata confinata dal cuore pulsante della colonia, permettendole dunque di entrare a pieno titolo nel dominio francese e beneficiando interamente dei vantaggi che, secondo loro, il territorio ne avrebbe ricavato.
Chiaramente questa prospettiva europeista e centralista non riscontrava minimamente la volontà popolare jola e – seppur aspirando a qualche eventuale beneficio economico – non teneva alcun conto della questione etnica e delle differenze culturali esistenti: per questo il progetto si rivelò un fallimento.

jola guerra in casamanceSempre nel 1947 ebbe la sua genesi il famigerato MFDC (Movimento delle Forze Democratiche della Casamance) fondato da Emile Badiane, Ibou Diallo e Yero Kandè, che si presentava come portavoce del popolo casamancese (facendo riferimento dunque a tutti gli abitanti della regione, ma la cui stragrande maggioranza era di etnia jola) e si prefiggeva come meta finale l’indipendenza dal regime coloniale e il raggiungimento della piena autonomia riacquisendo la passata libertà. Quando nel 1958 il Senegal ottenne l’indipendenza dalla Francia, l’organizzazione smise sostanzialmente di avere una propria esistenza, accantonando momentaneamente gli ideali cardine che avevano mosso i fondatori qualche anno prima, e venne assorbita nel Bloc Democratique Senegalais (BDS) di Leopold Sedar Senghor.
Senghor sarebbe divenuto poco dopo il primo presidente dello Stato senegalese e avrebbe avviato quel processo di centralizzazione statale tanto dannoso per l’ormai minoranza (all’interno del nuovo Stato) jola. Egli fu infatti uno dei principali esponenti della negritudine, 7) sostenitore del panafricanismo che patrocinava l’unificazione del continente africano al di sopra dei particolarismi tribali: quanto di peggio ci potesse essere per una realtà già in difficoltà, isolata e profondamente differente come la comunità jola nel nuovo contesto statale.
Con l’indipendenza, la Casamance era stata inglobata ufficialmente nello Stato senegalese, ma come abbiamo visto in pratica non ne faceva realmente parte. In questo periodo vennero fatti esperimenti per integrare le diverse etnie del Paese; un tentativo di ottenere una stabilità politico-economica nazionale e mostrarsi come una società unita, moderna e multietnica agli occhi degli occidentali, piuttosto che un vero interesse per tutte le componenti della popolazione locale, per le loro particolarità e le loro condizioni di vita. Senghor giustificò al cospetto dei cittadini della Casamance la decisione di inglobare la regione come parte di un progetto amministrativo migliore, sostenendo che sarebbe andato contro gli interessi di tutti decidere di non portare a termine questa incorporazione.
Magari era realmente mosso dal desiderio di aiutare la Casamance favorendone l’integrazione all’interno del Senegal con un possibile miglioramento della qualità della vita; tuttavia questa prospettiva non rappresentava la soluzione più adatta per il popolo jola, senza contare il successivo disinteresse negli anni a venire per le sue sorti. Contemporaneamente i casamancesi, costretti ad accettare quanto meno su un piano teorico la nuova situazione politica, continuavano a reclamare maggiore autonomia lamentandosi di non poter occupare nei luoghi istituzionali uno spazio commisurato al rilevante peso economico della loro regione. Di fatto la Casamance e i jola, nonostante i buoni propositi iniziali, venivano sempre esclusi dalle posizioni e dalle cariche di potere nello Stato centrale.
L’MFDC era stato praticamente sopito e diluito nel movimento centralista, ma i membri più radicali non avevano completamente abbandonato i valori fondanti e riuscirono in qualche modo a mantenere in vita l’organizzazione: erano ancora convinti sostenitori di un’indipendenza totale, ora dallo Stato senegalese che costituiva il nuovo nemico, sostituitosi ai coloni europei, impedendo la piena libertà della gente della Casamance. Così l’ala più estremista del vecchio movimento si organizzò in una formazione autonoma, il Mouvement Autonome de la Casamance (MAC). Tuttavia la nuova versione in breve tempo si rivelò troppo debole e senza supporto, non ottenne finanziamenti e per diversi anni si dedicò soltanto a fare proseliti e a intessere relazioni più di carattere economico che politico: per esempio avviò contatti con i vicini Gambia e Guinea-Bissau i quali, a differenza del Senegal, sembravano maggiormente interessati ai prodotti della fertile Casamance.
Tra il 1960 e il 1982 Senghor diede il via a una serie di politiche volte a un marcato accentramento statale sia dell’apparato amministrativo sia dell’economia delle diverse regioni. Il suo operato mirava realmente a un’integrazione tra le numerose etnie presenti nel tessuto statale, tentando di ridurre le diseguaglianze sociali già esistenti, ignaro però del fatto che la convivenza coatta avrebbe potuto rivelarsi una miscela esplosiva.
L’errore, oltre alla svalutazione economica della Casamance e alla mancata inclusione nella sfera politica di rappresentanti jola, fu quello di forzare anche una coesione di natura culturale: l’economia comune non era l’unico obiettivo del governo centrale, il quale tentò di costruire dal nulla un patrimonio culturale unico e “nazionale” per rafforzare l’unità statale, quando era evidente che le troppe etnie presenti, ognuna con le proprie tradizioni, non avrebbero accettato di buon grado il dannoso polpettone. I jola poi, ancor più lontani dalle altre comunità e giustamente gelosi della propria tradizione di gruppo, videro questa operazione come un meschino piano per azzerare le identità individuali, forgiandone una nuova priva di alcun fondamento reale: l’ennesimo tentativo di condizionare la libertà di questo popolo.
Se è vero che jola e serer hanno una probabile comune origine e condividono alcune credenze e usanze, non sta scritto da nessuna parte che debbano essere costretti ad abbandonare completamente le loro tradizioni per adottarne di nuove e vuote (intese come non reali, fino a quel momento non ancora esistenti) condividendole con altre etnie, solamente per calcoli egoistici del governo e per far funzionare uno Stato di cui non hanno mai voluto né dovrebbero, per storia e cultura, far parte. Quest’ultimo punto fu il nodo che contribuì al fallimento della politica centralista di Senghor con la Casamance e la goccia che scatenò una nuova ondata di ribellioni autonomistiche a partire dagli anni Ottanta.

jola guerra in casamance
Guerriglieri appartenenti al Movimento delle Forze Democratiche della Casamance.

Un “conflitto a bassa intensità”?

La politica centralista di Senghor, tuttavia, ottenne risultati positivi in generale con le etnie maggioritarie, e il primo presidente riuscì a creare – Casamance esclusa – uno Stato efficiente e organizzato, mantenendo un’apparente equilibrio pacifico tra le sue componenti etniche. Il problema erano proprio i rapporti con la sperduta e dimenticata terra dei jola. La verdeggiante e fruttifera regione si sentiva profondamente trascurata dal governo e la sua etnia fortemente maggioritaria umiliata dalla politica centralista di Senghor.
Altra colpa rimproverata al presidente fu l’aver dirottato tutte le risorse del Paese verso la lontana capitale Dakar, situata nel nord-ovest del territorio; senza contare che buona parte delle risorse della fertile Casamance venivano liberamente attinte senza dar nulla in cambio, tanto che la regione era diventata “il granaio del Senegal”, un serbatoio infinito nel quale mettere le mani fino a prosciugarlo lasciando la popolazione in povertà.
La posizione subalterna era testimoniata anche dalla gravissima carenza infrastrutturale: un’unica strada congiungeva la regione al resto dello Stato, mentre un solo battello alla settimana collegava Dakar con il capoluogo casamancese Ziguinchor.
Tutto ciò pose le basi per una nuova e diversa fase della battaglia indipendentista che avrebbe segnato per sempre la vita degli autoctoni e cambiato la storia della regione e dell’intero Senegal. È dal 1982, infatti, che laggiù ribolle un conflitto armato generalmente considerato “a bassa intensità” dalle agenzie internazionali specializzate nel monitoraggio delle guerre, limitandone così la visibilità mediatica. La classificazione di questo conflitto ormai quarantennale in Casamance è dovuta alla serie di piccoli scontri, imboscate e attentati anche a distanza di molto tempo gli uni dagli altri, alternati a periodi di quiescenza o di relativa stabilità, con ribelli poco attrezzati e dotati di equipaggiamenti tattici modesti; e anche perché, pur coinvolgendo una minoranza etnica significativa e geograficamente localizzata contro il governo centrale, la situazione per convenienza non viene considerata all’altezza di una guerra civile ma ridotta al rango di occasionale terrorismo interno. Eppure l’apparente situazione di non guerra per la comunità internazionale ha già provocato migliaia di morti e insanguinato il Paese per oltre quattro decenni, aggravando la già precaria situazione politico-sociale della Casamance.
Vediamo come si è sviluppata questa pagina del macabro libro di guerre nel continente nero, di cui purtroppo non si è ancora scritto l’ultimo capitolo. Il 1982 fu l’anno della rottura, quando in dicembre alcuni ex esponenti dell’MFDC organizzarono una manifestazione e inscenarono un’aperta protesta contro l’ingiusto arresto del loro leader, Augustin Diamacoune Senghor, soprannominato l’Abbé Diamacoune (da non confondere con Léopold Sédar Senghor, 1906-2001, il presidente). La manifestazione ebbe esiti tragici degenerando in un bagno di sangue, e i principali animatori furono costretti alla fuga nascondendosi nella foresta. Essi trovarono la forza e il coraggio di riorganizzarsi e rifondarono l’MFDC secondo un nuovo modello paradigmatico basato su ideali apertamente secessionisti, indipendentisti, per giungere ai quali era necessario il ricorso alle armi: iniziava così la lotta armata per l’indipendenza della Casamance che perdura ancora oggi.
Sempre all’inizio degli anni Ottanta un altro fatto alimentò la tensione tra la Casamance e il governo di Dakar: lo Stato senegalese sottrasse un discreto numero di terre coltivate a contadini jola che vivevano di sussistenza per affidarle a cittadini, generalmente provenienti dal nord e di fede islamica, di etnia wolof, serer e peul (fula o fulani). Il lavoro in queste aree coltivate aveva sempre garantito redditi importanti e il furto rappresentò un ulteriore smacco per i jola, ma soprattutto un ulteriore danno economico. L’unica parvenza di libertà economica e di qualche guadagno per il popolo casamancese arrivò da un accordo politico stipulato con il principale Paese autonomo confinante: dal 1981 al 1989, il Senegal e il Gambia costituirono la Confederazione della Senegambia che permise ai jola e ad altri cittadini in Casamance di commerciare all’esterno del proprio territorio, intessendo rapporti commerciali in particolare con Banjul, capitale del Gambia.
Tuttavia, quando la confederazione crollò per i timori gambiani di un eccessivo predominio senegalese esercitato nei loro confronti e nei loro affari di Stato, gli agricoltori della Casamance furono nuovamente costretti a trasportare i loro prodotti per la vendita esclusivamente a Dakar. Questi fattori contingenti, uniti a quelli più cristallizzati dell’indipendentismo antistatale, fomentarono uno dei conflitti più lunghi del continente africano.
Il protagonista della ribellione fu senza dubbio il celebre Abbé Diamacoune: abate e direttore del Medio Seminario Nostra Signora di Ziguinchor, si dimostrò la migliore guida dell’MFDC a partire dal 1982 quando la rivolta sfociò in una vera e propria guerra contro lo Stato senegalese, facendo sprofondare la Casamance in un periodo buio spesso definito di “non pace” vista l’intermittenza delle azioni militari da parte dei ribelli. Si trattava infatti di operazioni di guerriglia che colpivano l’esercito di Dakar a distanza di tanto tempo: piccoli agguati, attentati mirati, brevi scontri armati organizzati da un movimento estremamente radicato nel territorio regionale, una estenuante contesa ad andamento ciclico.
Per almeno tre decenni consecutivi gli insorti, sapientemente capitanati da Diamacoune Senghor, sono riusciti a tenere testa all’esercito nazionale i cui ufficiali vengono tuttora formati e addestrati nelle prestigiose accademie militari francesi. La cosa può apparire strana anche alla luce del fatto che in questa prima fase del conflitto i ribelli erano circa un migliaio, e soprattutto scarsamente equipaggiati e poco addestrati a differenza dei nemici che erano soldati di professione: la strategia, la conoscenza del territorio e inizialmente la reale spinta indipendentista e i fortissimi valori che soggiacevano alla lotta di liberazione di un intero popolo compensarono la differenza di attrezzatura ed esperienza militare.

jola guerra in casamance
Soldato regolare senegalese.

La propaganda del movimento batteva con forza sulla identificazione tra l’organizzazione stessa e l’intero territorio della Casamance, e in una prima fase fece molta presa sulla popolazione locale. Tuttavia nel corso degli anni le cose cambiarono prospettiva: la vittoria e il risultato finale non arrivavano, gli entusiasmi in parte scemarono e diversi combattenti continuarono a portare avanti il conflitto più per interesse e guadagni personali, derivanti da attività parallele, che per fedeltà alla causa indipendentista. Di fatto l’MFDC divenne l’unico interlocutore della volontà popolare jola attraverso le armi, sebbene una buona parte degli stessi jola non condividesse per nulla le strategie violente del movimento, che via via perse sempre più seguaci.
All’inizio degli anni Novanta, il presidente senegalese Diouf intraprese la strada della repressione feroce nei confronti degli indipendentisti casamancesi. In risposta, i membri del movimento intensificarono le loro azioni aumentandone la durezza e fondarono una nuova fazione estremista all’interno dell’MFDC, che ne rappresentava il braccio armato e più violento. Nel 1990 per opera di giovani originari del dipartimento di Bignona, situato a nord del capoluogo regionale Ziguinchor, sorse così “Atika”, con basi anche in Guinea-Bissau, corrente creata per azioni particolarmente violente con attacchi di stampo terroristico anche in diversi aeroporti. Un’altra fazione chiamata “Front Sud”, composta principalmente da giovani jola, si specializzò in imboscate per truppe e anche civili.
Negli stessi anni Novanta erano già emerse le insormontabili problematiche all’interno dell’MFDC e si era aperta una spaccatura insanabile tra il braccio strettamente politico e quello armato proprio in merito allo svanire degli iniziali ideali indipendentisti: tra accuse di corruzione e di interesse personale a scapito dei valori originari, i due rami del movimento iniziavano una “guerra” aperta interna che ha ulteriormente sfilacciato e frammentato l’organizzazione e le sue azioni. Queste ragioni e le sempre minori potenzialità belliche in fatto di armamenti ed equipaggiamenti hanno contribuito al prolungarsi del conflitto senza che la battaglia indipendentista potesse essere finalmente vinta. La mancanza di denaro per finanziare la lotta ha spinto diversi membri a dedicarsi ad attività illegali per ottenere soldi, occupazioni che, visti i discreti guadagni, hanno iniziato a esercitare con sempre maggiore intensità abbandonando completamente gli antichi ideali. Si è così andati avanti con episodi di violenze efferate ma sporadiche tra separatisti e forze governative, costituiti da periodi di lotta più intensa intervallati da accordi di cessate il fuoco quasi sempre violati, causando, secondo le stime più precise, tra i 3000 e i 5000 morti, civili compresi, e provocando numerosi esodi forzati con profughi che hanno dovuto per sempre abbandonare i propri luoghi di origine in direzione dei vicini Gambia e Guinea Bissau.
Un primo accordo di cessate il fuoco si era raggiunto nel 1991 con il movimento Atika: gli eccidi perpetrati da entrambe le sponde sulla popolazione civile spinsero l’opinione pubblica nazionale e internazionale a fare pressioni sul governo di Dakar per aprire una via diplomatica alla risoluzione del conflitto. Tuttavia il progetto pacifista naufragò completamente due anni dopo, quando scoppiarono altre violenze tra soldati regolari e ribelli.
Nel frattempo la Casamance ha vissuto in un regime di terrore, il territorio disseminato di mine antiuomo, continuando però a fornire diversi prodotti agricoli a tutto il Senegal, come il prezioso riso che risulta ancora oggi il principale alimento della dieta locale nonché uno dei principali prodotti di consumo ed esportazione, interna ed esterna. Le motivazioni di una così lunga ribellione vanno ricercate nella dicotomia delle ragioni che hanno spinto i guerriglieri. Un primo gruppo di loro ha aderito al movimento per le proprie vicende personali, trovandosi depredati della terra o testimoni dell’omicidio di familiari da parte del governo, convinti che la quasi totalità della società senegalese disprezzi ancora il popolo jola e la “sconosciuta” Casamance. Questi soggetti sono, tra i combattenti, quelli che in minima parte seguono le orme dei fondatori del movimento e vogliono ancora l’indipendenza della regione.
Un secondo gruppo è invece rappresentato da altri personaggi che magari si sono arruolati per gli stessi identici sentimenti di frustrazione e amore per la patria, ma che hanno poi totalmente abbandonato la causa per dedicarsi ad attività illecite, decisamente più remunerative.
Entrambi i gruppi, per motivazioni diverse e quasi diametralmente opposte, hanno dunque avuto e hanno tuttora interesse a perorare la missione antistatalista e proseguire l’attività bellica.

Il nuovo millennio e la situazione attuale

Il conflitto è proseguito anche con l’avvento del nuovo millennio tra innumerevoli lacerazioni nello schieramento dei ribelli e difficoltà finanziarie. Oltre alle divisioni interne del movimento indipendentista, a impedire una qualsivoglia risoluzione della guerra ha pesantemente contribuito anche il governo senegalese che, per parte sua, ha fatto ben poco per stabilizzare la situazione. Infatti il presidente Abdoulaye Wade, in carica dal 2000 fino al 2012, ha elargito grandi quantità di denaro ai principali esponenti della Casamance tentando apertamente di comprare la pace, senza un reale interesse per la situazione della popolazione jola e soprattutto senza il minimo progetto politico concreto per tutelarla. Queste ipocrite mosse politiche non hanno fatto altro che alimentare scissioni e lotte intestine.
Il 20 dicembre 2004 fu comunque una data simbolicamente importante: l’Abbé Diamacoune, all’epoca ancora primo comandante del movimento indipendentista casamancese, e l’allora presidente Wade, tramite il suo ministro dell’Interno Ousmane Ngom, sottoscrissero un trattato di pace dopo decenni di scontri armati. Con la firma dell’accordo, in Casamance regnò la tranquillità per qualche tempo grazie a una drastica riduzione degli episodi di violenza, con sporadiche eccezioni. Si trattava però di una calma apparente e la pace non era destinata a durare. Come dicevamo, la volontà del governo centrale di siglare l’armistizio non era mossa dall’interesse per la popolazione locale o dal desiderio di pacificare una regione maltrattata, ma si trattava soltanto di un’abile quanto ipocrita strategia politica per ottenere prestigio internazionale; in particolare agli occhi degli europei, per mostrare loro come il Senegal fosse un Paese unito e giusto con tutte le sue componenti etniche, il che era ovviamente pura finzione!
La tregua non portava in dote alcuna soluzione per la controversa situazione politica e amministrativa dell’isolata regione meridionale, né sostanziali miglioramenti per la vita delle persone comuni: concedere qualsiasi tipo di autonomia non solo sarebbe stato estremamente pericoloso per Dakar, ma anche controproducente essendo la Casamance strategicamente importante per le ingenti risorse naturali e la fertilità. Perdere i guadagni garantiti per anni dal “granaio senegalese” era impensabile, avrebbe recato danni all’economia di tutto lo Stato.
La morte nel 2006 di Diamacoune, colui che non solo aveva dato origine alla prima fase del conflitto ma era stato il leader maximo dell’indipendentismo jola anche a livello simbolico nella lotta contro il potere centrale, creò nuove destabilizzazioni al suo interno: l’organizzazione non riuscì a mantenere quel poco di unità che rimaneva e si spaccò in ulteriori sottogruppi che non facilitarono le cose. L’unico legame che univa le ormai innumerevoli fazioni era la convinzione che il presidente Wade tentasse esclusivamente di dare lustro al suo operato politico sulla scena internazionale con gli accordi di pace, dal momento che dal 2004 in poi – come prevedibile – non si era mai seriamente adoperato in un processo di riconciliazione tra le parti, né aveva cercato in qualche modo di risollevare le sorti locali. Per questo la guerra doveva riprendere e con più frequenza il fronte dei ribelli ricominciò le sue operazioni di attacchi mirati alle forze armate senegalesi.
Dopo la morte di Diamacoune, Mamadou Sane, soprannominato Nkrumah, si era autoproclamato leader dell’MFDC; ma trovandosi da parecchio tempo in esilio in Francia, oltre a non avere la personalità di Diamacoune, non riuscì a ricostruire l’unità di intenti all’interno del fronte, che si suddivise in due correnti capeggiate dai militari Badiate e Sadio. A riorganizzare la lotta fu soprattutto la seconda sotto la guida di Salif Sadio, nuovo esponente di spicco dell’area più radicale ed estremista, che non aveva mai accettato gli accordi di pace stipulati dal compianto Abbé con Dakar. Gli scontri dunque ripresero con vigore, pur sempre nel contesto dell’ormai noto “conflitto a bassa intensità”.
La situazione peggiorò ulteriormente, in quanto le diverse correnti dell’MFDC iniziarono a combattersi apertamente tra di loro; e a farne le spese maggiori, come sempre, furono ovviamente i civili: nel marzo 2006 la fazione estremista di Sadio, con l’aiuto di militari della Guinea-Bissau, attaccò per la prima volta alcuni esponenti più moderati dell’MFDC, e nel luglio innescò un vero e proprio scontro armato in Casamance contro la principale fazione dello stesso, provocando la morte di oltre 100 ribelli.

jola guerra in casamance
Salif Sadio nel 2018.

Visto lo scenario di aperta guerra civile, le truppe dell’esercito regolare senegalese entrarono nella mischia contro la fazione di Sadio il mese successivo. Alla fine dell’anno il presidente Wade promise l’amnistia per i ribelli e un nuovo piano di assistenza allo sviluppo per la regione, ma per tutto il 2007 non si vide nulla di tutto ciò: rientrata la contesa tra le avverse fazioni del movimento, il principale nemico tornava dunque lo Stato centrale. Nel dicembre 2007 un agguato dei ribelli provocò l’uccisione dell’inviato di pace del presidente nella Casamance, complicando la risoluzione di un conflitto interminabile.
La popolazione jola non impegnata nel conflitto ha continuato a subire i guai derivanti da questi eventi con vittime innocenti coinvolte negli attentati e l’abitudine a vivere in un teatro di perenne rischio e terrore.
Negli anni successivi fattori esterni al contesto senegalese hanno mescolato le carte rendendo la situazione più intricata e di più complicata soluzione. La Primavera Araba e la caduta del regime di Gheddafi in Libia nel 2011 hanno scosso l’equilibrio anche del Sahel all’inizio del decennio passato. In particolare la dispersione dell’immenso patrimonio militare libico (accumulato grazie agli aiuti occidentali nel corso degli anni) ha contribuito all’instabilità della macroregione: in Mali, per esempio, milizie islamiche operanti in precedenza per lo stesso Gheddafi hanno rianimato una guerra civile bloccata grazie all’intervento francese.
Tuttavia vi è ancora oggi il pericolo che frange estremiste adottino una strategia di lungo periodo volta alla destabilizzazione generale dell’area attraverso infiltrazioni locali in altrettante zone già militarmente combattute e con conflitti in corso, come la Casamance. Il Senegal ha apertamente ostacolato questi tentativi e si è da sempre posto come un alleato stabile dell’occidente. Il Paese possiede un apparato religioso, incentrato sulla fede islamica ma comunque piuttosto tollerante, che comporta una minoranza cristiana presente e non perseguitata nello Stato. Fattori che ne fanno un possibile bersaglio per estremisti islamici, i quali cercherebbero nel movimento indipendentista da anni attivo in Casamance un valido alleato; sebbene, in questa regione, il generale astio verso la maggioranza nazionale islamica e la discreta presenza di cristiani tra i jola costituirebbero un deterrente.
Sappiamo però che gli ideali “puri” di indipendentismo fondati sull’appartenenza a una etnia propria sono stati ormai diluiti da altri interessi: per questo un’eventuale alleanza con milizie estremiste islamiche non è del tutto improbabile. Inoltre proprio nell’Africa occidentale queste milizie da anni hanno dato il via a un efficiente sistema di attività illecite incentrate sul narcotraffico per ottenere finanziamenti e destabilizzare ancora di più regioni già povere e vessate. Come visto in precedenza, diversi membri dell’MFDC hanno preferito abbandonare gli ideali per dedicarsi ai traffici proprio nel settore della droga, e questo risulterebbe un ulteriore punto di incontro. L’instabilità politico-amministrativa nel Senegal meridionale ha di fatto reso la Casamance una zona franca in buona parte nelle mani dei trafficanti che smerciano i loro prodotti indisturbati tra la stessa regione, la Guinea-Bissau e la Repubblica di Guinea, con la Costa d’Avorio come capolinea del transito. Nello specifico i ribelli della Casamance per autofinanziarsi si sono dedicati in questi ultimi anni al traffico di cannabis tra questi elastici confini, con le conseguenze peggiori, come al solito, per la popolazione locale, vittima del perenne conflitto tra rivoltosi e Stato centrale, costretta ormai a vivere in una terra di passaggio della droga e costantemente abbandonata dalle autorità senegalesi.
Le cose sembravano poter cambiare quando nel 2012 venne  eletto presidente del Senegal Macky Sall, dopo aver sconfitto nelle elezioni proprio l’ex capo dello Stato Wade che era in carica da ben 12 anni. L’avvento di Sall aveva ridato speranze alla Casamance, avendo il politico dichiarato fin dal principio di voler negoziare seriamente con l’MFDC. In un primo momento si giunse a una tregua tra l’intero indipendentismo regionale e lo Stato, un periodo seppur breve di ossigeno per il territorio senza che vi fossero spargimenti di sangue. Tuttavia le trattative per arrivare a una soluzione definitiva dell’annosa questione si dimostrarono una volta di più lente e infruttuose.
In alcune fasi dei negoziati vi fu la supervisione della Comunità di Sant’Egidio, 8) un’associazione cattolica fondata a Roma nel 1968 che ha come obiettivo la tutela dei poveri in tutto il mondo, in particolare in contesti bellici. La comunità nel corso degli ultimi anni è riuscita a organizzare addirittura otto incontri che però non hanno portato alla risoluzione finale del conflitto. Il contenuto delle trattative non è di dominio pubblico poiché i politici senegalesi evitano appositamente di rivelare i contenuti e lo stato dei lavori.
Ancora oggi, dunque, la guerra intestina non è conclusa né è stato possibile trovare la soluzione migliore per il popolo jola. L’analisi della situazione negli ultimissimi anni non offre un quadro ottimistico e positivo: la Casamance appare un territorio devastato dalle attività militari. Estese aree rurali sono ormai cosparse di mine anti-uomo; numerosi villaggi e campi dedicati al riso e agli altri prodotti tipici sono costretti all’abbandono con esodi forzati della popolazione. Violente rappresaglie su entrambi i fronti hanno segnato per sempre lo scenario locale minando la pace e la serenità dei jola. I quali in maggioranza non vedono di buon occhio l’operato dell’MFDC, non tanto perché non siano favorevoli a un’eventuale indipendenza, ma per la gravissima crisi umanitaria che anche le azioni dei ribelli hanno provocato e con la quale sono costretti da anni a convivere senza apparente via d’uscita.
La richiesta preponderante dei jola è ora la pacificazione della regione per evitare di continuare a veder morire i propri cari, perdere i campi, o essere costretti a fuggire all’estero abbandonando per sempre la propria terra: ecco la meta principale, a discapito di qualsiasi rivendicazione o soluzione politica autonomista o centralista. Arrivare a una pace duratura non è purtroppo semplice né scontato: l’MFDC non condivide in pieno questa volontà popolare. Negli ultimi anni vi sono state ulteriori frammentazioni all’interno del movimento e probabilmente non esiste una linea univoca di azione, ma obiettivi e soprattutto interessi completamente differenti tra le diverse componenti. Un documento del 2013 riguardante le aspirazioni secessioniste di alcuni gruppi etnici africani indica il movimento addirittura frazionato in tre differenti correnti: la certezza è che non si è giunti a un accordo con il governo e ogni corrente porta avanti i propri progetti curandosi soprattutto del tornaconto personale.
Alcune frange si sono interamente dedicate al banditismo, perdendo definitivamente di vista l’obiettivo primigenio dell’indipendenza, altri gruppi sono impegnati in rapine e un buon numero ancora, come sottolineato, nel narcotraffico. Gli antichi ideali politici sembrano dunque evaporati e la contesa, per la maggioranza dei ribelli, appare solamente come una battaglia da vincere per ottenere più potere, svuotata da qualsiasi contenuto o aspirazione secessionista. Questa fotografia rende al meglio la direzione cancerogena che ha preso il movimento indipendentistico e permette di comprendere quanto male possa fare ai jola la sua presenza.

jola guerra in casamance
Villaggio jola dato alle fiamme.

Le cose non appaiono migliori neanche sull’altro versante. Il governo senegalese, pur mantenendo attivi i negoziati, seppure senza troppa convinzione e celerità, persiste nel non riconoscere il conflitto casamancese come una guerra civile relegandolo allo status di crisi interna. Secondo alcuni analisti locali, il piano di Dakar consiste nel tirare per le lunghe la questione senza mai giungere a un compromesso o a un accordo definitivo con concessioni per “la provincia lontana e separatista”, convinti che una volta venuti a mancare i pochi capi dell’MFDC che ancora oggi perseguono finalità autonomiste, la rivolta anti-centralista e le richieste indipendentiste cesseranno inevitabilmente. Quanto alla base dell’MFDC, morti i capi le faide interne si estingueranno da sole. Insomma, una tattica di logoramento, dopodiché il Senegal non avrà più l’impegno di fare eventuali concessioni autonomistiche e non perderà gli enormi vantaggi economici derivanti dal possesso della Casamance.
Nel frattempo, oltre alla paralisi agricola, la regione sta perdendo un’altra attività fiorente, il turismo richiamato dalle sue magnifiche spiagge. Prosperano invece le attività illegali dei ribelli (soprattutto produzione e smercio di marijuana ma anche contrabbando di legni pregiati), dando forza a un’economia parallela e neanche troppo sommersa che danneggia gli onesti cittadini locali, relegandoli alla fame, e con cui il governo centrale non sembra essere troppo severo.
Intanto le brutalità non sono terminate: si registrano in particolare agguati veloci ma sanguinari e mortali. Il 6 gennaio 2018 si è verificato l’eccidio di Bayotte, non lontano dal capoluogo Ziguinchor, nel quale hanno perso la vita 14 persone tra cui alcuni adolescenti uccisi nella foresta. Il governo senegalese ha incolpato i ribelli della strage, mentre questi ultimi hanno fermamente negato asserendo che i responsabili erano contrabbandieri. Sono poi stati arrestati 4 membri di un comitato locale di sorveglianza forestale che già nell’ottobre precedente erano stati condannati e poi liberati in merito a un altro scontro con un gruppo di forestieri introdottosi nella foresta con il probabile intento di sfruttarne le risorse. La carneficina sarebbe dunque da inquadrare in uno scenario, purtroppo altamente diffuso, di contrabbando illegale di legname, risorsa preziosa della zona.
Tuttavia, a prescindere da chi sia veramente il responsabile e quale sia la pista giusta per l’omicidio plurimo, a farne le spese ancora una volta di più sono stati civili innocenti.
Nel giugno 2020, con un comunicato stampa, la celebre fazione Atika ha annunciato il cessate-il-fuoco dichiarandosi disponibile ad avviare un negoziato di pace con il governo, impegnandosi a garantire le condizioni per una sorveglianza sull’utilizzo delle armi nella zona in modo da perseguire un armistizio durevole. Si tratta di una notizia indubbiamente positiva e importante; tuttavia all’interno dell’MFDC, a differenza di inizio anni Novanta, Atika non rappresenta più l’unico braccio armato e la corrente più estremista, quindi permangono ancora altre fazioni, o peggio ancora, “cani sciolti” che si spacciano per ribelli o reclutano personale tra le file del movimento per poi dedicarsi esclusivamente ai propri traffici, creando destabilizzazione e paura nell’area.
L’ultima notizia giunta dalla Casamance risale a qualche mese fa, per la precisione al 21 settembre 2020, quando è comparsa online una dichiarazione firmata nella capitale Dakar da esponenti politici di rilievo, intellettuali locali e avvocati. Il documento si rivolge direttamente allo Stato senegalese e all’MFDC sollecitandoli a proseguire con profitto i negoziati con l’obiettivo di arrivare a una soluzione che comporti la deposizione definitiva delle armi. Nel testo si fa anche preciso riferimento a un altro importantissimo scopo da raggiungere al più presto, ovvero l’eliminazione delle mine ancora presenti permettendo così a numerose persone di tornare nelle loro case e riprendere le antiche attività quotidiane. Il messaggio termina con un significativo auspicio che la guerra si concluda il prima possibile e questa sia una volontà che abbracci tutto il Paese, dal polveroso nord al fertile sud. Le trattative per la pace oggi sono ancora in corso e, seppur con lentezza, vanno avanti: speriamo che si possano realizzare al più presto.

Quale futuro per l’etnia jola e la Casamance?

Il quadro che abbiamo delineato ripercorrendo dal principio la storia antica fino alle vicende più recenti del popolo jola ha dipinto uno scenario intricato e complesso, tinto di rosso sangue, di estrema difficoltà quotidiana, di isolamento, di abbandono e povertà diffusa. Per quanto non si siano registrati negli ultimi tre anni attentati o episodi notevoli di violenza, e nonostante l’adesione al messaggio di cui parlavamo dianzi da parte di numerosi rappresentanti, anche di una certa rilevanza politica e sociale nel contesto statale, una risoluzione positiva della contesa non sembra di facilissima attuazione. È innegabile che negli ultimissimi anni, sotto la presidenza Sall, il governo di Dakar si sia impegnato più concretamente per porre fine alla guerra rispetto al passato, ma non si è ancora prossimi a una conclusione.
Alcuni siti definiscono l’attuale situazione in Casamance più stabile: sicuramente è vero, e possiamo affermare che probabilmente anche la popolazione jola in questi mesi sta vivendo con un minimo di serenità e tranquillità in più rispetto alle efferate violenze degli ultimi decenni. Ma a mio avviso non è possibile parlare di una situazione di pace. Bisogna per forza di cose tenere conto che questo particolare conflitto è sempre stato “a bassa intensità”, dominato dall’alternarsi di periodi con più attività bellica ad altri di quiescenza, ma nel lungo periodo è apparso incentrato proprio per natura e condizioni dei protagonisti sul compimento attacchi mirati o attentati anche feroci a distanza di diverso tempo. Inoltre non è stato siglato alcun accordo ufficiale che indichi un definitivo “cessate il fuoco” come nel 2004, e l’MFDC non ha mai dichiarato la resa o la rinuncia alla lotta armata (a differenza di ETA tra il 2011 e il 2014, per esempio).
Dal lato governativo qualche passo in più si sta vedendo ma – senza voler esser troppo complottisti – non è così assurdo appoggiare la tesi di alcuni studiosi locali secondo cui il Senegal vorrebbe tirare per le lunghe la questione per far sì che la rivolta si spenga da sola, senza concessioni politico-amministrative alla Casamance: se così fosse, non ci sarebbe tutta questa fretta e volontà da parte di Dakar di giungere a un accordo permanente di pace.
Il fatto che la quotidianità sia leggermente migliorata nell’ultimo periodo, non significa che la situazione sia buona e i jola vivano in modo dignitoso: le loro condizioni di vita rimangono difficili e il degrado regna ancora nella regione, abbandonata dallo Stato e in parte ancora in mano ai ribelli, ai narcotrafficanti o ai ribelli-narcotrafficanti i quali di sicuro non hanno a cuore il bene degli autoctoni. E malgrado la sua natura di “bassa intensità”, l’ammontare delle perdite provocate da questo conflitto è drammatico: per quanto sulle cifre non esista certezza assoluta, si calcola che in quarant’anni di logoranti scontri il bilancio si aggiri intorno ai 5000 morti, con quasi 1000 vittime di mine anti-uomo, che quando non hanno ucciso hanno provocato gravissime mutilazioni. Secondo il Centro Nazionale d’Azione contro le mine del Senegal (CNAMS), il territorio da sminare equivale a un’area di 1,2 milioni di metri quadrati, e l’impresa richiederebbe un notevole esborso economico per il governo centrale: da qui si capisce perché anche questa missione proceda a rilento.

jola guerra in casamance
Gli agricoltori jola non possono lavorare per la presenza di mine anti-uomo nei loro campi.

Alcuni dati ufficiali del 2009, risalenti quindi a più di un decennio fa, parlano di 10.700 sfollati ed è indubbio che il dato sia sensibilmente aumentato negli ultimi anni, in particolare fino al 2015, attestandosi intorno ai 60.000 esuli. Un’altra gravissima conseguenza del conflitto casamancese è infatti l’esodo forzato di un gran numero di locali, costretti a lasciare per sempre i loro villaggi in molti dei quali non è più possibile condurre una normale esistenza, rifugiandosi in altri Paesi confinanti dell’Africa occidentale. Un ennesimo colpo all’unità e alle tradizioni secolari jola: il gruppo continua a disgregarsi e vede diverse sue componenti separarsi, abbandonare la patria per andare a vivere in una terra straniera, staccandosi dal nucleo demografico principale. La conseguenza è la perdita delle pratiche secolari proprie del lignaggio e un patrimonio culturale in continua erosione.
A tal proposito si inserisce il fenomeno sociale che ha per protagonisti da alcuni decenni un discreto numero di giovani jola. Essi, viste le precarie condizioni di vita e le scarse opportunità lavorative, hanno preferito la via dell’emigrazione soprattutto interna e stagionale verso i grandi centri urbani alla ricerca di migliori possibilità di successo personale. È un’altra conseguenza delle violenze del conflitto e dello sfollamento che ha compromesso la situazione socio-economica della regione, causando sofferenza e fame. Oltre ai giovani, principali artefici del trasferimento, si è parlato di una migrazione urbana generalizzata a causa dell’insicurezza politica e alimentare della Casamance. In alcune zone, i campi rimasti incolti sono stati salinizzati dall’acqua di mare. Si è così creato un triste paradosso: la Casamance rappresenta ancora la regione agricola più ricca del Senegal, ma nel contempo lamenta i più alti livelli di fame della nazione.
Gli sforzi per aiutare gli sfollati negli ultimi decenni a tornare nei loro villaggi, ricostruirli e reinsediarsi definitivamente sono stati spesso sottofinanziati, frammentari o addirittura ostacolati da coloro che avevano interesse nel vedere il conflitto trascinarsi. La situazione è leggermente migliorata soltanto nell’ultimo lustro, anche grazie al contributo più attivo del presidente Sall. Il Senegal odierno tuttavia non rappresenta ancora un contesto completamente pacifico e sicuro in cui vivere: un rapporto di Amnesty International del 2015-2016 indicava come la violenza indiscriminata fosse ancora largamente diffusa e praticata nel Paese, in particolare nei confronti di omosessuali, manifestanti dissidenti e detenuti, con le carceri locali considerate tra le più insalubri e pericolose dell’intero continente.
Attualmente la Farnesina non sconsiglia apertamente viaggi nel Paese, ma cita nello specifico la regione della Casamance sottolineando come il conflitto pluridecennale sia ancora in atto, seppur costellato da atti di violenza sporadici, aggiungendo di prestare la massima attenzione qualora ci si rechi nell’area in quanto soggetta ad attacchi dei ribelli indipendentisti, aggressioni di banditi e per la folta presenza di mine sia in ambienti rurali sia nelle strade periferiche delle grandi città. Si sconsiglia fermamente il transito lungo strade secondarie non asfaltate nei pressi dei confini con Gambia e Guinea-Bissau, e di recarsi nella zona a sud del capoluogo Ziguinchor in seguito all’eccidio dei 13 senegalesi avvenuto l’8 gennaio 2018.
Per concludere, un’ipotesi di Stato casamancese a maggioranza jola appare di difficile attuazione e soprattutto porterebbe inevitabilmente nuovi dolori e tormenti a una popolazione che ne ha passate di tutti i colori. A rischio di scadere nella banalità ritengo fondamentale la sopravvivenza di un popolo ingiustamente bistrattato e vergognosamente maltrattato e la cosa più importante da ricercare è un minimo di serenità. La volontà recente dei jola è infatti quella di ritrovare la tranquillità, nella speranza che MFDC e governo centrale sanciscano definitivamente una pace duratura per poter tornare a vivere liberamente nella propria terra, l’amata e fertile Casamance. Un caso particolare in cui – paradossalmente – la sopravvivenza fisica e culturale di un’etnia passa attraverso l’abbandono delle battaglie indipendentiste.

jola guerra in casamance
La magnifica spiaggia di Cap Skirring.

N O T E

1) La Regione di Ziguinchor è una regione amministrativa del Senegal che corrisponde grossomodo all’area definita Bassa Casamance. Confina a est con la Regione di Sedhiou, a nord con il Gambia, a sud con la Guinea-Bissau e a ovest si affaccia per un ampio tratto costiero sull’Oceano Atlantico. Capoluogo e maggiore centro urbano è Ziguinchor (capoluogo anche dell’intera Casamance) e la regione è divisa in 3 dipartimenti: Bignona, Oussouye e Ziguinchor.
La Regione di Kolda, insieme alla Regione di Sedhiou, costituisce l’Alta Casamance. Il capoluogo è la città di Kolda ed è suddivisa in 3 dipartimenti: Kolda, Médina Yoro Foulah e Vélingara.
2) La mangrovia è una tipica formazione vegetale e forestale formata da piante in prevalenza legnose che si sviluppa sui litorali bassi delle coste marine tropicali, in particolare in zone periodicamente sommerse dalla marea. Il termine viene spesso erroneamente utilizzato per fare riferimento a singole specie arboree rappresentative di questa particolare formazione vegetale, in realtà si riferisce all’intero habitat naturale. Il WWF ritiene infatti la mangrovia un vero bioma, uno dei principali 14 habitat in cui è diviso il globo terrestre.
3) Il Casamance è il principale corso d’acqua della regione omonima: nasce nel Senegal meridionale, attraversa un paesaggio in maggioranza pianeggiante, molto rigoglioso e infine paludoso, a clima tropicale con abbondanti precipitazioni che favoriscono la vegetazione e l’agricoltura. Il suo maggiore affluente è il fiume Soungrougrou. La sua caratteristica principale è l’ampio estuario che inizia a ben 120 km dalla foce: in questa zona a causa delle debolissime pendenze è fortissima l’influenza dell’oceano con la sua elevata salinità delle acque prodotta dalle oscillazioni di marea. Si è così formato il tipico habitat di mangrovie, e l’estuario del fiume rappresenta un ecosistema alquanto raro in cui si nota la compresenza di piante e animali tipici dell’oceano insieme a specie di acqua dolce. Il regime segue l’andamento delle piogge: nel corso e subito dopo la stagione umida (giugno-ottobre) la portata raggiunge il suo massimo, mentre i valori minimi si presentano verso la fine del periodo di siccità ad aprile.
4) L’etnia mandingo (o mandinka) è un gruppo autoctono dell’Africa occidentale. Pur essendo tra i più numerosi dell’area (circa 11 milioni di individui) non costituiscono il gruppo etnico maggioritario in nessuno dei Paesi dove risiedono, a eccezione del piccolo Gambia. Non sono da considerarsi come un unico e chiuso gruppo a sé stante, ma piuttosto un insieme di popoli culturalmente e linguisticamente affini: elementi di unione sono la lingua mandingo (formata da idiomi differenti ma strettamente imparentati e perfettamente comprensibili tra loro per i parlanti) e la religione musulmana (il 99% pratica l’islamismo). Nel corso della loro storia i popoli mandingo hanno dato origine a strutture statali complesse e ben organizzate tra le quali spicca l’Impero del Mali, uno dei più vasti imperi africani in epoca medievale che si sviluppò tra il 1235 e il 1645 andando a occupare un ampio territorio comprendente gli attuali Mali meridionale, Guinea settentrionale, Costa d’Avorio, Senegal meridionale e Gambia. Una volta caduto l’impero, i regni mandingo hanno tuttavia continuato a esistere e a dominare sul proprio territorio fino alla colonizzazione europea: tra il XVI e il XIX secolo addirittura un terzo degli appartenenti all’etnia mandingo sono stati deportati come schiavi nelle Americhe.
5) L’Impero Kaabu si è sviluppato nella regione senegambiana con il suo nucleo originario nell’attuale Guinea-Bissau nord-orientale, nato come avamposto del più esteso Impero del Mali. Si staccò completamente da quest’ultimo a partire dal 1537, guidato dai governanti chiamati mansaba (re). Dopo il declino dell’Impero del Mali divenne la forza autoctona più importante dell’area, annettendo territori abitati da wolof, serer e fula. Fautore di una politica espansionista decisamente aggressiva, si dimostrò poco tollerante nei confronti delle persone non di etnia mandinka, che costituivano invece la stragrande maggioranza: quotidianamente oppressi, i fula si ribellarono ponendo sotto assedio e facendo crollare la fortezza di Kansala. La sua caduta segnò la fine dell’Impero Kaabu.
6) Questa concezione si rivela decisamente anomala rispetto ad altre etnie africane, un altro tratto estremamente peculiare jola. Nella maggior parte delle società tribali del continente nero gli artigiani e i fabbri componevano una classe notevolmente separata e con valenza simbolica profondamente differente dalle altre. Si trattava quasi di una vera e propria casta alla quale si accedeva per nascita ed era praticamente impenetrabile, i matrimoni con persone che svolgevano altri lavori erano in alcuni casi addirittura proibiti. La motivazione di questa importanza e distinzione si spiega proprio con l’operato svolto: i fabbri lavorando nelle fornaci erano visti come creature quasi soprannaturali o al contempo demoniache che possedevano poteri spirituali. Per questo erano temuti e rispettati e avevano il diritto di appartenere ad una “comunità nella comunità”, una classe tutta loro alla stregua degli sciamani.
7) La negritudine è stato un movimento letterario, culturale e politico sviluppatosi nel continente africano – in particolare nelle colonie francofone – nel corso del XX secolo: i principali esponenti (tra cui lo stesso Senghor) avevano l’obiettivo di affrancare i propri popoli da quel complesso di inferiorità portato e imposto dai bianchi europei mediante l’aperta e pubblica rivendicazione delle qualità peculiari dei neri (ovvero “la negritudine”), ritenute da loro motivo di grande orgoglio. Il concetto, nato intorno al 1935, si fondava dunque sulla diffusione della fierezza e dell’attaccamento per la propria identità razziale e per gli elementi principali della cultura nera, opposta a quella bianca e francese nello specifico. L’idea di negritudine è stata però criticata soprattutto da autori neri o creoli che l’hanno intesa e poi denunciata come una forma celata di razzismo o di resa nei confronti della distorta mentalità del colonialismo.
8) Quella di Sant’Egidio è una comunità cristiana nata a Roma nel 1968 all’indomani del Concilio Vaticano II su iniziativa di Andrea Riccardi, studente del Liceo Virgilio. Con il passare del tempo si è trasformata in una rete di comunità organizzate che in più di 70 Paesi raccoglie uomini e donne volontari di tutte le età con l’obiettivo di aiutare i poveri e contribuire al mantenimento della pace, prestando particolare attenzione alle aree periferiche delle città e del mondo. L’ideologia alla base della Comunità è la consapevolezza che la guerra è la madre di ogni povertà e per questo i suoi membri si impegnano a lavorare per la pace, cercando di proteggerla ove minacciata e ricostruirla facilitando i dialoghi tra le parti dove è stata rotta.