Raffigurata nei graffiti protostorici del Monte Bego una tradizione celtica tuttora viva in Val d’Aosta e Piemonte.

Nella Valle delle Meraviglie, che si apre oltre il Vallone della Miniera al di là di quattro laghi e due rifugi — costruiti dal CAI e dalla Soprintendenza Archeologica piemontesi prima dell’ultimo conflitto mondiale — il visitatore del santuario preisiorico del Monte Bego avrà di che sbizzarrirsi nella «lettura» dei messaggi lasciati dai lontani avi celtici: decine e decine di migliaia d’incisioni rupestri, tra le quali gli ideogrammi di bovidi contano per il 52% su raffigurazioni di aratri singoli o aggiogati a uno o più tauri e anche associati a figure umane; armi, quali pugnali, alabarde, scuri, spade e scudi; strumenti agricoli o indefinibili, agghiacci con o senza animali, forse poderi, sentieri, pelli e ancora segni e figure non sempre determinabili o di significato estremamente chiaro, come la composizione della cosiddetta “pietra delle reine” che, trascorsi i millenni, ancora interpreta un modo, una tradizione, un rito dei giorni nostri: la “battaglia delle reine”, antichissimo tripudio delle genti celtiche ancora vivissimo tra le popolazioni salasse della Valle d’Aosta e del Piemonte Canavesano, con qualche risvolto in Savoja e in Svizzera.

Le origini della Battaglia di Reine risiedono nell’innaturale composizione del branco imposta ai bovini fin dal neolitico, quando l’uomo incominciò a utilizzare gli animali: formata di sole femmine da latte, la mandria avverte l’assenza del predominio maschile e tende a ricomporre il naturale assetto gerarchico accettando un certo primeggiare di una di esse, quella che più s’impone per carattere, facendo valere la propria autorità: la reina. L’innata predisposizione venne coltivata dalle genti salasse per selezionare le fattrici e ottenere una razza tenace, in grado di difendersi dai pericoli quando sulla montagna del tempo vivevano ancora i lupi e gli orsi. Il  piacere di “vantare”, reso competitivo dai conversari delle veglie invernali, condusse poi ai confronti e al gareggiare. La correlazione tra le manifestazioni valdostane e le minori piemontesi, savojarde e vellesane sono le testimonianze che del primitivo, istintivo atteggiamento animale di confrontarsi ci pervengono, come abbiamo visto, dalla preistoria. Ma non di gare, ovviamente, i nostri preistorici antenati scultori di Val Meraviglie vollero tramandare il ricordo. Essi, piuttosto, registrarono nella pietra della “Montagna sacra” la realtà che loro stava dinanzi come tributo al culto taurino: la raffigurazione di coppie di bovidi che si fronteggiano è infatti assai diffusa in Val Meraviglie, e quasi sempre gli ideogrammi compaiono con altre raffigurazioni, di diverso significato. Le immagini incise sulla Pietra delle Reine, al contrario, non s’accompagnano ad altre composizioni e la grande superficie piana (cm 150 x 330), la quale stranamente presenta oltre tre quarti della sua allettante faccia del tutto intatti, parrebbe essere stata scelta intenzionalmente per dedicarla alla magnificazione dei simboli di forza, di potere e dì virtù dai quaii scaturiva la fede religiosa delle genti del Bego.

La grande superficie della Pietra delle Reine è costituita dalla faccia superiore di un masso precipitato dal Monte Meraviglie (m 2729), giacente al suo calce in posizione inclinata, circa a quota 2500 m. Su di essa quattro coppie di combattenti (misura media cm 32) si fronteggiano, testa contro testa, ricostruendo in ciascuna singola immagine scolpita il reale spettacolo offerto dal moderno confrontarsi di due reine. Ciascuna coppia è separata da un segno tondeggiante che potrebbe essere la raffigurazione del mucchio di terriccio che la reina con più grinta forma dinanzi a sé, raspando con gli zoccoli anteriori, per imbrattarsi il muso e cospargersi il dorso; mucchietto di terra che i montagnard valdostani e i viton piemontesi, oggi, ravvivano con la pala per accelerare i tempi del torneo. La quinta coppia, che nella composizione è in basso a sinistra (lungh. cm 28), presenta uno dei bovidi in atteggiamento di fuga, fissando mirabilmente — grazie all’abilità veristica del preistorico esecutore dell’incisione — il fuggevole momento che suggella la fine di un combattimento e strappa, oggi, l’applauso della folla. Nell’ampio arco alpino, dal Monte Bianco al Monte Bego, che fu il preistorico ecumene dell’umanità da cui pervennero le genti franco provenzali e poi quelle della Padania, il richiamo alla singolare realtà della montanara bataille de vatse conduce a un’altra particolare realtà: le “corride” provenzali che si svolgono ancor oggi nel grande anfiteatro costruito nell’anno 80 d.C. ad Arles. Come la Battaglia delle Reine, le corride provenzali non sono affatto cruente: il toro nero della Camargue è vinto quando gli viene tolta la coccarda di seta che ha fissata tra le corna; fregio simile a quello che si pone tra le corna della reina salassa per premiarla della vittoria. L’odierno comportamento pietoso dell’uomo verso l’animale, quasi rapporto benevolo e affettuoso che le battaglie di reine e le corride provenzali manifestano, potrebbe forse configurarsi — trascorsi i millenni — come retaggio della primitiva devozione religiosa che le rocce di Val Meraviglie testimoniano.