Verso la fine dell’anno scorso, in dicembre, il coordinamento dei movimenti dell’Azawad (cma, un’alleanza di gruppi tuareg con una componente araba minoritaria) aveva rivolto un appello ai mediatori internazionali – e all’Algeria in particolare – sollecitandoli a indire una “riunione urgente” per aggiornare l’accordo di pace nel nord del Mali, accordo risalente al 2015 e di cui denunciava il sostanziale decadimento. Analogamente a quanto aveva già fatto nel luglio 2022 con un comunicato da Kidal, la città nel nord-est del Mali conquistata nel marzo 2012 da una coalizione di ribelli tuareg, insorti qualche mese prima e provvisoriamente coalizzati – purtroppo – con formazioni di stampo jihadista. In particolare Ansar Din (“difensori della religione”), un movimento all’epoca guidato da Iyad Ag Ghali, ex fautore dell’autodeterminazione dell’Azawad diventato successivamente sostenitore della sharia. 1)
Già allora non pochi osservatori paventano una possibile radicalizzazione del cma, alimentata dalle frange interne più impazienti, come reazione all’inerzia dimostrata da Bamako. Timore mai sopito in quanto uno dei maggiori esponenti, Alghabass Ag Intalla, si andava collocando su posizioni tutt’altro che antagoniste rispetto a quelle del già citato – e famigerato – Alghabass Ag Intalla. Ritenuto, costui, l’attuale leader del gsim (gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani) presumibilmente legato a Al-Qaida.
Ferme restando alcune differenze fondamentali (mentre storicamente i tuareg puntavano alla secessione, le milizie jihadiste aspirano a conquistare e controllare l’intero Paese), lasciava e lascia ben sperare il fatto che nel comunicato di Kidal il cma condannasse “ogni forma di violenza e di terrore esercitato sulla popolazione civile”. Il minimo sindacale per un movimento che si autodefinisce di liberazione.

Vittime degli islamisti

A conferma di quanto la situazione fosse fluida, talvolta altalenante, nel settembre 2022 interveniva (con un’intervista a “info Matin”) Moussa Ag Acharatoume, esponente del consiglio nazionale di transizione e della commissione Difesa e sicurezza del Mali (oltre che fondatore del movimento per la salvezza dell’Azawad, coordinamento di ex ribelli tuareg firmatari degli accordi di pace). Denunciando che “le comunità tuareg sono vittime di un’organizzazione [Daesh] che ha ben pianificato la sua azione e che non mira soltanto a conquistare il nord-est del Mali, ma sta sviluppandosi anche in altri Paesi come la Nigeria, il Niger… fino al Burkina Faso, al Togo, al Benin”. Senza escludere la Mauritania.
Invocando quindi una “strategia comune di Mali, Niger e Burkina Faso contro il terrorismo dello Stato Islamico”. Dal marzo dell’anno scorso (più o meno dallo sganciamento dei francesi) il gruppo combattente guidato da Moussa Ag Acharatoume (msa), insieme alla tribù tuareg Dawshak, contrasta militarmente l’espansione di Daesh nella regione di Menaka.
Un pericolo, quello jihadista, della cui ampiezza le autorità e la popolazione non avrebbero ancora ben compreso la portata. E soprattutto che non danneggia (sia con i recenti massacri di civili, sia contaminandone la lotta per l’autodeterminazione) soltanto la comunità tuareg.
E, come si diceva all’inizio, a cinque mesi dal comunicato di luglio (nel dicembre 2022, sempre da Kidal) l’ufficio politico del cma aveva rilanciato (anche se forse in termini più dialoganti), esprimendo innanzitutto “riconoscenza per gli sforzi compiuti dalla mediazione internazionale guidata dall’Algeria che avevano portato alla firma dell’accordo”.
Ma comunque sollecitando “una riunione d’urgenza con l’insieme della mediazione internazionale in un luogo neutro”. Per “evitare la rottura definitiva degli accordi del 2015”.
Accordi che non comportavano l’agognata indipendenza dell’Azawad, ma una sostanziale autonomia e l’integrazione degli ex combattenti insorti nel nuovo esercito maliano.
Aspettative che finora sono andate sostanzialmente deluse.

N O T E

1) Approfondimenti: primo, secondo.