L’espressione “Medio Oriente” è diventata enormemente elastica. Il nome trae origine dal Foreign Office britannico nel XIX secolo. Gli inglesi divisero la regione in: Vicino Oriente, cioè la zona più vicina al Regno Unito e la maggior parte del Nordafrica; Estremo Oriente, a est dell’India britannica; Medio Oriente, compreso tra l’India britannica e il Vicino Oriente. Era un modello utile per l’organizzazione del Foreign Office, e importante anche per la regione, dal momento che i britannici – e in misura minore i francesi – definirono non solo i nomi dell’area ma anche gli Stati sorti nel Vicino ed Estremo Oriente.
Oggi il termine Medio Oriente, ammesso che significhi qualcosa, si riferisce ai Paesi a dominio musulmano a ovest dell’Afghanistan e lungo la costa nordafricana. Con l’eccezione di Turchia e Iran, la regione è prevalentemente araba e a larghissima maggioranza islamica. All’interno, i britannici crearono entità politiche modellate sugli stati-nazione europei. Gli inglesi trasformarono la penisola arabica – abitata da tribù aggregate in complesse coalizioni – nell’Arabia Saudita, uno Stato basato su una sola di queste tribù, i saud. I britannici crearono anche l’Iraq e unirono l’Egitto sotto una monarchia. In modo indipendente dai britannici, la Turchia e l’Iran si diedero la forma di stati-nazione secolarizzati.
Ciò ha definito le due linee di frattura del Medio Oriente.
La prima frattura corre tra la laicità europea e l’islam. La guerra fredda, quando i sovietici si intromisero pesantemente nella regione, ha accelerato la formazione di questa linea di faglia. Una parte della regione era laica, socialista e costruita su base militarizzata. Un’altra parte, particolarmente incentrata sulla penisola arabica, era islamista, tradizionalista e monarchica. Quest’ultima era tendenzialmente filoccidentale, mentre la prima – in particolare le zone arabe – era filosovietica. La situazione era più complessa di così, ovvio, ma questa distinzione ci fornisce un quadro realistico.
La seconda linea di faglia correva tra gli Stati creati sulla carta e la realtà di fondo della regione. In Europa, gli Stati si conformarono in genere alle nazioni nel XX secolo. Quelli creati dagli europei in Medio Oriente, invece no. Restava qualcosa a un livello inferiore e a un livello superiore. Al livello inferiore c’erano tribù, clan e gruppi etnici che non solo venivano incorporati nelle nuove entità, ma anche divisi al loro interno dai confini. Il livello più alto corrispondeva alla massima osservanza dell’islam e delle sue grandi confessioni, lo sciismo e il sunnismo, che creavano un superstrato sovrannazionale. A ciò si aggiunga il movimento panarabo avviato dall’ex presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, secondo il quale questi Stati dovevano unirsi in un’unica nazione araba.
Qualsiasi analisi del Medio Oriente deve quindi partire dalla creazione di una nuova geografia politica che, dopo la prima guerra mondiale, si sovrappose a realtà sociali e politiche assai diverse, tentando di limitare l’autorità di gruppi regionali ed etnici più ampi. La soluzione adottata da molti Stati fu abbracciare il secolarismo o il tradizionalismo, usandoli come strumenti per gestire sia i gruppi subnazionali sia rivendicazioni religiose più allargate. Un punto unificante fu Israele, cui tutti si opposero. Anche qui, però, si è trattato più di un’illusione che di realtà. Gli Stati socialisti laici, come l’Egitto e la Siria, si opposero attivamente a Israele. Gli stati monarchici tradizionali, minacciati dai socialisti laici, lo videro come un alleato.

Scosse di assestamento dopo il crollo sovietico

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la conseguente mancanza di appoggio agli Stati socialisti laici, le quotazioni della cultura tradizionalista salirono. Non era semplicemente una questione di soldi, sebbene questi Paesi ne avessero intascati. Era anche una questione di valori. Il movimento socialista perse il suo sostegno e la sua credibilità. Gruppi come Fatah, basati sulla laicità e il socialismo (nonché sull’aiuto sovietico), persero potere rispetto ai gruppi emergenti, che abbracciavano la sola ideologia rimasta: l’islam. S’incrociavano immense correnti in questo processo, ma una delle cose da ricordare è che molti degli Stati socialisti che erano partiti con grandi promesse continuavano a sopravvivere, anche senza l’illusione di diventare un nuovo paradiso. Governanti come l’egiziano Hosni Mubarak, il siriano Bashar al Assad e l’iracheno Saddam Hussein rimasero al loro posto. Se il movimento di una volta teneva viva una promessa, anche se i suoi leader erano corrotti, dopo la caduta dell’Unione Sovietica il movimento era corrotto e basta.
Il crollo dell’Unione Sovietica diede carburante ai musulmani, sia perché i mujahidin avevano sconfitto i russi in Afghanistan, sia perché l’alternativa all’islam era ridotta a brandelli. Inoltre, l’invasione irachena del Kuwait si svolse in contemporanea agli ultimi giorni dell’Unione Sovietica. Entrambi i Paesi sono i resti della diplomazia britannica. Gli Stati Uniti, avendo ereditato il ruolo della Gran Bretagna nella regione, intervennero per proteggere un’altra invenzione britannica, l’Arabia Saudita, e per liberare il Kuwait dall’Iraq. Dal punto di vista occidentale, era necessario per stabilizzare la regione. Se una potenza regionale fosse emersa senza incontrare ostacoli, le conseguenze negative si sarebbero moltiplicate a valanga. Tempesta nel Deserto sembrava una semplice e logica operazione che metteva insieme la coalizione antisovietica e i Paesi arabi.
L’aver sconfitto i sovietici in Afghanistan e la perdita di legittimità dei regimi laici aprirono la porta a due processi. Primo, i gruppi subnazionali nella regione finirono per considerare i regimi esistenti come qualcosa di potente ma illegittimo. Secondo, gli eventi in Afghanistan riportarono alla ribalta l’idea di una resurrezione panislamica. E nel mondo sunnita, che aveva vinto la guerra in Afghanistan, il dinamismo dell’Iran sciita – diventato portavoce politico-militare dell’islam radicale – diede il via alla volontà di agire.
C’erano tre problemi. In primo luogo, i radicali dovevano inquadrare il panislamismo in un contesto storico. Tale contesto era il califfato transnazionale, un unico soggetto politico che avrebbe abolito gli Stati esistenti e uniformato la realtà politica all’islam. I radicali si rifecero alle Crociate cristiane, e gli Stati Uniti – visti come la principale potenza cristiana dopo la “crociata” in Kuwait – ne diventarono il bersaglio. In secondo luogo, ai panislamisti toccava dimostrare che gli USA erano sia vulnerabili sia nemici dell’Islam. In terzo luogo, dovevano agire sulle comunità subnazionali dei vari Paesi per costruire coalizioni capaci di rovesciare quei regimi musulmani considerati corrotti sia dai laici sia dai tradizionalisti.
Il risultato fu al Qaeda e la sua campagna per costringere gli Stati Uniti a lanciare una crociata nel mondo islamico. Al Qaeda intendeva farlo con azioni che dimostrasero la vulnerabilità degli USA e li costringessero a reagire. Se l’America non avesse reagito, si sarebbe rafforzata la sua fama di debolezza; se lo avesse fatto, sarebbe diventata un Paese di crociati ostili all’islam. L’intervento americano, poi, avrebbe innescato rivolte contro gli Stati musulmani corrotti e ipocriti, spazzato via i confini imposti dagli europea e preparato il terreno per la sollevazione. Il punto chiave era dimostrare la debolezza dei regimi e la loro complicità con gli americani.
Ciò ha portato all’Undici Settembre. Nel breve periodo, sembrava che l’impresa fosse fallita. Gli Stati Uniti reagirono in maniera massiccia agli attacchi, ma non si verificarono rivolte nella regione, nessun regime cadde, e molti governi musulmani collaborarono con gli americani. In questa fase gli americani riuscirono a condurre una guerra aggressiva contro al Qaeda e suoi alleati talebani. Qui ebbero successo. Ma nella seconda fase, convinti di poter rimodellare dall’interno l’Iraq e l’Afghanistan – e altri Paesi – rimasero coinvolti nei conflitti subnazionali. Gli americani si dedicarono allo studio di soluzioni tattiche piuttosto che affrontare il problema strategico: la guerra stava portando le istituzioni nazionali della regione al collasso.
Distruggendo al Qaeda, gli americani crearono un problema più grosso a tre livelli. In primo luogo, scatenarono i gruppi subnazionali. Secondo, dove combattevano creavano vuoti che non erano in grado di colmare. Infine, indebolendo i governi e dando forza ai gruppi subnazionali, rendevano di fatto il califfato l’unica istituzione adatta a governare efficacemente il mondo musulmano, l’unica capace di resistere agli Stati Uniti e ai suoi alleati. In altre parole, laddove al Qaeda non era riuscita a innescare una rivolta contro i governi corrotti, a distruggerli o indebolirli ci avevano pensato gli USA, aprendo la porta all’islam transnazionale.
La primavera araba fu stupidamente scambiata per una rivoluzione liberale e democratica come quella del 1989 nell’Europa orientale. Fu invece la rivolta di un movimento panislamico che non riuscì sostanzialmente a rovesciare i regimi e ne invischiò uno, la Siria, in una guerra civile senza fine. Questo conflitto ha una componente subnazionale, ossia varie fazioni l’una contro l’altra armate, che lasciano ampio spazio di manovra allo Stato Islamico di derivazione qaedista. Esso ha anche fornito un ulteriore slancio all’idea di califfato. Non solo i panislamici lottavano contro il crociato americano, ma combattevano anche gli eretici sciiti. Lo Stato Islamico ha ottenuto dopo quasi 15 anni il risultato cui aspirava al Qaeda nel 2001, e con movimenti in grado di combattere in altri Paesi islamici oltre a Siria e Iraq.

Una nuova strategia america e le sue ripercussioni

In quel periodo, gli USA furono costretti a cambiare strategia. Gli americani erano in grado di distruggere al Qaeda e l’esercito iracheno. Ma la loro capacità di occupare e pacificare l’Iraq o l’Afghanistan era limitata. La stessa faziosità che aveva reso possibili i primi due risultati rendeva impossibile la ricostruzione. Operare con un gruppo inimicava l’altro, e questi continui equilibrismi indebolivano gli americani. In Siria, dove il governo laico si trovava ad affrontare una serqua di forze laiche e religiose ma non estremiste, oltre all’emergente Stato Islamico, gli americani non riuscirono a mettere insieme le fazioni estranee all’ISIS e a trasformarle in una forza strategicamente efficace. In più, gli Stati Uniti non potevano accordarsi con il governo di Assad, a causa delle sue politiche repressive, e quindi non era in grado di affrontare lo Stato Islamico con le forze disponibili.
In un certo senso, il centro del Medio Oriente era stato svuotato e trasformato in un vortice di forze in competizione. Tra i confini libanesi e iraniani, la regione aveva scoperto due cose. Che le forze subnazionali erano la principale realtà della regione. Che cancellando il confine tra Siria e Iraq queste forze, in particolare lo Stato Islamico, avevano creato il nocciolo del califfato: una potenza transnazionale o, più precisamente, transfrontaliera.
La strategia americana è diventata una variazione infinitamente più complessa della politica reaganiana nel 1980: lasciare che chi è in guerra combatta. Lo Stato Islamico ha ingaggiato una guerra contro l’eresia sciita e gli Stati nazionali preesistenti. La regione è circondata da quattro grandi potenze: Iran, Arabia Saudita, Israele e Turchia. Ciascuna ha un approccio diverso alla situazione. In ognuna esistono fazioni interne, ma ogni Stato è riuscito ad agire nonostante ciò. In altre parole, tre di loro sono potenze non arabe, e quella araba, l’Arabia Saudita, è forse la più preoccupata per le minacce interne.
Per l’Iran, il pericolo dello Stato Islamico è che possa ricreare un governo efficace a Baghdad in grado di minacciare nuovamente Teheran. Ecco perché gli iraniani hanno continuato ad appoggiare gli sciiti iracheni e il governo di al Assad, pur tentando di limitarne il potere.
Per l’Arabia Saudita, schieratasi in passato con le forze radicali sunnite, l’ISIS rappresenta una minaccia esistenziale. La sua aspirazione a un movimento islamico transnazionale rischia di essere in sintonia con i sauditi di tradizione wahabita. I sauditi, insieme con altri membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo e Giordania, temono l’internaziomalismo islamico, ma anche il potere sciita in Iraq e in Siria. Riad deve contenere lo Stato Islamico senza concedere terreno agli sciiti.
syria_islamic_state_060115_0
Per gli israeliani, la situazione è stata allo stesso tempo eccezionale e terrificante. Eccezionale perché ha schierato i nemici di Israele l’uno contro l’altro. Il governo di Assad ha in passato sostenuto Hezbollah contro Israele. Lo Stato Islamico, tuttavia, costituisce una minaccia a lungo termine. Finché durano i combattimenti, Israele è al sicuro. Il problema è che prima o poi qualcuno in Siria la spunterà, e questo qualcuno potrebbe essere infinitamente più pericoloso di chiunque prima di lui; in particolare se l’ideologia dell’ISIS si diffonderà in Palestina. A conti fatti, Assad è meno pericoloso dello Stato Islamico, il che dimostra quanto siano tetre le prospettive israeliane nel lungo periodo.
Sono i turchi (o almeno il loro governo, che ha subìto una battuta d’arresto alle recenti elezioni) i più difficili da comprendere. Essi sono ostili al governo di Assad, tanto da considerare a stento lo Stato Islamico come una minaccia. Ci sono due modi per spiegare il loro atteggiamento. Primo, si aspettano che lo Stato Islamico esca infine sconfitto dagli Stati Uniti, e quindi il coinvolgimento in Siria metterebbe inutilmente in crisi il sistema politico turco. In alternativa, potrebbero essere meno avversi di altri nella regione a una vittoria dello Stato Islamico. Malgrado il governo turco abbia vigorosamente negato le accuse, le elezioni sono state dominate da voci sul suo sostegno a fazioni dell’ISIS, nonché su presunte spedizioni di armi da parte dei servizi segreti a soggetti sconosciuti in Siria. Ciò appare incomprensibile, a meno che i turchi non vedano lo Stato Islamico come un movimento che alla fine riusciranno a controllare, e che sta spianando la strada all’influenza turca nella regione. O a meno che i turchi non ritengano che un confronto diretto porterebbe a una reazione dell’ISIS all’interno della Turchia stessa.

Il ruolo dello Stato Islamico nella regione

L’ISIS rappresenta una logica prosecuzione di al Qaeda, che ha acceso un senso di potenza tra i musulmani e trasforma gli Stati Uniti in una minaccia per l’Islam. Ha creato una struttura militare e politica capace di sfruttare la situazione creata da al Qaeda. Le sue operazioni belliche sono impressionanti, dalla presa di Mosul alla conquista di Ramadi e Palmira. La flessibilità dei suoi combattenti in battaglia e la capacità di mettere in campo un gran numero di uomini spinge a chiedersi da dove provengano risorse e addestramento.
Nondimeno, la maggior parte dei combattenti dello Stato Islamico resta ancora intrappolata, circondata da tre potenze ostili e una enigmatica. Le potenze ostili collaborano, ma sono anche in competizione. Gli israeliani e i sauditi si stanno parlando. Non è una novità, ma per entrambe le parti c’è oggi un’urgenza sconosciuta nel passato. Il programma nucleare iraniano è meno importante per gli americani che la collaborazione con l’Iran contro lo Stato Islamico. E i sauditi e gli altri Paesi del Golfo hanno messo insieme nello Yemen una forza aerea che potrebbero utilizzare altrove, se necessario.
È probabile che la caldaia non scoppierà, purché i sauditi siano in grado di mantenere la stabilità politica interna. Ma lo Stato Islamico si è già diffuso al di fuori dell’area, in Libia per esempio. Molti ritengono che si tratti di forze solo nominalmente appartenenti all’ISIS… una sorta di franchising, diciamo. Ma lo Stato Islamico non si comporta come al Qaeda. Vuole esplicitamente creare un califfato, e questa aspirazione non va minimizzata: il sistema di comando e controllo centralizzato lo rende strategicamente assai più efficace delle altre forze non statali di cui abbiamo esperienza.
La laicità nel mondo musulmano sembra essere in ritirata definitiva. I due livelli di lotta al suo interno sono, al vertice sunniti contro sciiti, e alla base una quantità inestricabile di fazioni che si affrontanoi. Il mondo occidentale accettò il dominio sulla regione dagli Ottomani, e lo esercitò per quasi un secolo. Ora, la prima potenza occidentale non ha la forza di pacificare il mondo islamico. Pacificare un miliardo e passa di persone va oltre la capacità di chiunque. Lo Stato Islamico ha assorbito l’ideologia di al Qaeda e sta tentando di istituzionalizzarla. Le nazioni circostanti hanno opzioni limitate e un desiderio altrettanto limitato di collaborare. Al potere globale mancano le risorse sia per sconfiggere lo Stato islamico, sia per controllare l’insurrezione che ne seguirebbe. Altre nazioni, come la Russia, sono preoccupate per la diffusione dell’ISIS tra le loro stesse popolazioni musulmane.
È interessante notare che a mettere in moto tutti questi avvenimenti è stata la caduta dell’Unione Sovietica. E che l’apparente sconfitta di al Qaeda ha aperto la porta al suo successore naturale, lo Stato Islamico. La domanda è, allora, se le quattro potenze regionali possano e vogliano controllare l’ISIS. E qui è un mistero quello che ha in mente la Turchia, soprattutto ora che il potere di Recep Tayyip Erdogan appare in declino.

 

(Traduzione a cura di “Etnie” dell’originale A Net Assessment of the Middle East, con l’autorizzazione di Stratfor.)