Morire di carcere in Turchia è ordinaria amministrazione

Quelli di cui in genere si parla sono i prigionieri morti in sciopero della fame o per le torture subite.
Di chi si ammala, sempre in genere, si parla quando ormai è troppo tardi. Quando – come avvenne con Gramsci – escono dal carcere per concludere la loro vita su un letto di ospedale, o se gli va bene per trascorrere gli ultimi giorni tra le mura di casa. Succede, per esempio, ai baschi della sinistra abertzale e a tanti prigionieri politici turchi e curdi.
In questi giorni, il 12 settembre, è stato sospeso il lungo sciopero della fame a rotazione, avviato il 27 novembre 2020, dei prigionieri curdi appartenenti al PKK e al PAJK che protestavano per le indegne condizioni di isolamento totale imposte a Ocalan e contro le violazioni dei diritti umani. Lo sciopero era in sostegno alla campagna “Dem Dema Azadiye” (è’ tempo per la libertà).
Peccando forse di eccessivo ottimismo, nel comunicato i prigionieri hanno scritto: “Siamo effettivamente giunti alla fine del regime fascista del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e del Partito del movimento nazionalista (MHP), che è la fase avanzata del fascismo in Turchia”.
E anche: “L’AKP, un solido prodotto del colpo di stato militare del 1980, sta facendo del suo meglio per essere degno del suo creatore. Noi invece resisteremo con lo spirito, la coscienza e la fede della resistenza carceraria di Amed 1) che ha sconfitto la giunta militare, e prevarremo”.
Ma nel frattempo è stato anche calcolato quanti curdi detenuti per ragioni politiche siano deceduti per malattia negli ultimi sei anni. Ben 103 quelli accertati (ovviamente la cifra è per difetto). E naturalmente non è finita. La lista pare destinata ad allungarsi.
Attualmente sarebbero 1605 i detenuti ammalati dietro le sbarre, 604 dei quali (tra cui 249 donne) in maniera grave. Privati, in aggiunta, di ogni tipo di socialità a causa della malattia. Quando vengono trasferiti in infermeria o in ospedale questo avviene in manette. In genere dopo una visita formale, rapida e svogliata vengono rispediti in carcere, sempre in manette. Rientrati in prigione vengono tenuti in quarantena per un minimo di quindici giorni.
Alla faccia delle convenzioni internazionali, comprese quelle firmate da Ankara, la rimessa in libertà dei malati gravi viene di fatto sistematicamente bloccata. Sia dai medici ospedalieri – asserviti – che non la ritengono necessaria, sia dall’Istituto di medicina legale, sia dai procuratori. Anche quando la loro “pericolosità sociale” è non solo presunta ma del tutto inesistente. Come nel caso di Ergin Aktas (che ha perso entrambe le mani) e dell’ultra ottantenne Mehmet Emin Ozkan (che ha perso la vista e non è in grado di camminare), in carcere da 26 anni.
La loro eventuale “liberazione” avviene – come si diceva – solo quando gli rimangono pochi giorni di vita (e soltanto se la prossima morte è certa).
Proprio recentemente Mehemet Ali Celebi, liberato il 25 agosto, è deceduto all’ospedale dopo soltanto dieci giorni. Nel 2020 una quindicina di prigionieri ammalati gravemente sono morti in cella mentre altri cinque sono deceduti a pochi giorni dalla liberazione.

N O T E

1) Nel carcere di Diyarbakir, Amed, vennero rinchiusi e sottoposti a tortura migliaia di esponenti della resistenza curda. Questi tra il 1981 e il 1984 intrapresero durissimi scioperi della fame costati la vita a decine e decine di loro.