Quando si parla di etnismo, etnografia, geopolitica, eccetera, le discipline geografiche sono di fondamentale importanza. In particolare se – come fa “Etnie” – si studiano popolazioni e comunità tendenzialmente autoctone, la cartografia diventa un elemento insostituibile, sia che si occupi di terreno e orografia o di rilievi archeologici e di frontiere politiche; sia di toponomastica, di isoglosse o di confini linguistici e culturali.

Oggi tutti questi dati (e moltissimi altri al di fuori del nostro ambito) vengono gestiti con tecniche informative computerizzate, che nel complesso passano sotto il termine di GIS, geographic information system. Riassumere in poche parole di cosa si tratti non è facile, ma si può dire semplificando che con queste tecniche si riesce a “disegnare” su una mappa un territorio geografico corredandolo di una quantità enorme di dati che lo riguardano. L’operazione viene svolta da appositi software, ovviamente dopo aver raccolto materialmente tutte queste informazioni, che possono essere economiche, demografiche, sociali, industriali, geologiche, e via quasi all’infinito. L’operazione digitale non è che un’evoluzione dell’atto fisico di stendere una carta geografica sul tavolo e poi applicarvi sopra una serie di lucidi, di “strati” trasparenti, su cui possono essere disegnati a pennarello linee e poligoni, a indicare isole o zone in cui ci sia una concentrazione particolare degli elementi presi in esame; oppure punti, a evidenziare la singola presenza di elementi. Trattandosi di una rappresentazione iconografica di dati, l’occhio riesce a darci un senso assai migliore delle distribuzioni e delle concentrazioni dei fenomeni rispetto a un’arida tabella di dati.

Un altro aspetto di questo tipo di ricerche è quello più strettamente geografico, legato all’esplorazione sul campo. Orientarsi in un territorio e sapere dove ci si trova è essenziale non soltanto per il raggiungimento di una meta, ma anche per la geolocalizzazione di qualunque dato in cui ci si imbatta. Anche qui gli strumenti tradizionali – bussola, carta, sestante, eccetera – sono vantaggiosamente sostituiti dalla tecnologia gps e dal relativo software cartografico. Nella pratica, il sistema di posizionamento globale, ossia le informazioni fornite da un’apposita rete di satelliti in orbita, fornisce in continuazione una serie di dati a un terminale in grado di elaborarli e di determinare così la propria posizione. Questo terminale è un “ricevitore gps”, un chip che può trovarsi in uno smartphone, in uno strumento per cicloturisti, in un navigatore per auto o imbarcazione.

chip-gps
Un sensore gps

Ma, di nuovo, sapere che ci si trova alle coordinate 45°58.290’N – 7°59.920’E rischia di essere un’arida astrazione: meglio vedere il punto su una carta geografica. Non proprio di carta, che sarebbe complicato, bensì una mappa digitalizzata della zona richiamabile sullo schermo di un computer, di un tablet o di un navigatore dedicato. Oltre ai singoli punti (detti waypoint), i gps, o meglio i software che li gestiscono, sono in grado di tracciare il movimento nello spazio e quindi di registrare i nostri spostamenti, disegnando e memorizzando sulla mappa la relativa traccia.
Una mappa digitale può nascere come tale, ma anche derivare dalla scansione o dalla fotografia di una carta geografica tradizionale, trasformata in file immagine e georeferenziata, ovvero calibrata in maniera tale che a ogni pixel corrisponda una precisa latitudine e longitudine. Rapporti che il software cartografico dovrà continuamente ricalcolare a seconda dei livelli di zoom con cui consulteremo la mappa. Perché un’altra utile caratteristica delle rappresentazioni digitali è che potremo ingrandirle e rimpicciolirle a piacimento, cambiando la scala ma mantenendo intatti rapporti e proporzioni.

 

Software per la navigazione stradale

Sygic & C, come farli andare dove vogliamo noi