Libertà per la prigioniera politica curda Zeynab Jalalian

Riproduco interamente l’appello di Amnesty International per la prigioniera politica curda Zeynab Jalalian, riprendendo anche parte di alcuni dei miei interventi degli anni passati, rimasti – ça va sans dire – inascoltati, ma che possono rendere l’idea di quale calvario abbia subìto questa donna curda.

Zeynab Jalalian, 41 anni, è un’attivista curda iraniana che si batte per l’emancipazione delle donne e delle ragazze della sua minoranza oppressa. A causa delle sue attività sociali e politiche è detenuta ingiustamente già da 15 anni. Sta scontando l’ergastolo nella prigione di Yazd, nell’omonima provincia, a 1400 km dalla sua famiglia, residente nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, il che rende estremamente difficili le visite dei suoi anziani genitori. È stata ripetutamente sottoposta a torture e maltrattamenti.
È in carcere dal marzo 2008, quando è stata arbitrariamente arrestata da agenti della sicurezza. Giudicata colpevole del reato di “inimicizia contro Dio” (moharebeh) e condannata a morte in relazione alle sue attività nell’ala politica del Partito per la vita libera del Kurdistan (Pjak), un’organizzazione armata. Le sue attività riguardavano l’emancipazione delle donne curde e l’autodeterminazione dei curdi. Nel dicembre 2011, a seguito di un provvedimento di clemenza della Guida suprema, la sua condanna a morte è stata commutata in ergastolo.
Zeynab Jalalian è una delle donne detenute da più tempo per motivi politici e deve essere scarcerata immediatamente.

Nel novembre 2020 scrivevo “Non dico che l’abbiano creato e fatto circolare appositamente, ma sicuramente il Covid-19 si sta rivelando alquanto funzionale al potere […] nell’eliminazione fisica dei soggetti “non produttivi” […], delle minoranze comunque scomode […] e ovviamente dei prigionieri politici. Emblematico che in Turchia siano stati rimessi in libertà (anche se provvisoria) fior fiore di delinquenti mentre rimanevano in galera i militanti curdi e della sinistra rivoluzionaria turca”.

Zeynab Jalalian.

Citando come caso esemplare proprio quello della prigioniera politica curda Zeynab Jalalian di cui mi ero già occupato qualche mese prima in occasione del suo sciopero della fame (estate 2020) per essere riportata nella prigione di Khoy.
Il 10 ottobre 2020, malata appunto di Covid19, era stata trasferita dalla sezione femminile della prigione di Kermashan alla prigione di Yazd. In soli sei mesi questo era il quarto suo trasferimento.
Militante per i diritti delle donne, Zeynab Jalalian veniva arrestata nel 2008, dopo essere stata duramente picchiata dai militari che l’avevano catturata sulla strada tra Kermanshah e Sanandaj.
Nel gennaio 2009 era stata condannata a morte dal tribunale “rivoluzionario” di Kermanshah (un processo durato pochi minuti, senza prove sostanziali nei suoi confronti) per presunta appartenenza al pjak (Partiya Jiyana Azad a Kurdistane, partito per una vita libera in Kurdistan), accusa da lei sempre rigettata. Tra l’altro, stando alle sue dichiarazioni, sarebbe stata ripetutamente torturata proprio come ritorsione per il suo rifiuto di autoaccusarsi pubblicamente di appartenenza al pjak.
Due anni dopo la sua pena venne convertita in ergastolo dalla corte d’appello, presumibilmente anche per le proteste internazionali.
Dell’ennesimo trasferimento era riuscita a informare i familiari nel corso di una brevissima telefonata – due minuti – durante la quale li informava di essere stata nuovamente minacciata di torture.
Prima di Kermanshah, per circa tre mesi era stata rinchiusa in un carcere a oltre mille chilometri di distanza da dove vivono i suoi parenti. Con tutte le immaginabili difficoltà per poterla visitare. Prima ancora, fino all’aprile 2020, si trovava nella prigione di Qarchak a Varamin, non lontano da Teheran e a Khoy.
Nel corso di tali trasferimenti era stata contagiata dal virus, e a causa delle catene aveva riportato ferite ai polsi e alle caviglie. Ferite che – non essendo mai state curate – le stavano causando infezioni e acute sofferenze.
All’epoca soffriva di gravi infezioni, di problemi renali e stava perdendo la vista. Oggettivamente un soggetto a rischio in quanto il Covid-19 risulta particolarmente pericoloso per la vita delle persone già colpite da altre patologie.
Tuttavia le autorità carcerarie iraniane rifiutavano qualsiasi visita specialistica così come non consentivano di curarla fuori dal carcere.
In compenso, come ad altri prigionieri politici, le veniva offerta la possibilità di un pubblico pentimento (alla televisione). In cambio, forse, di cure più adeguate.
Qualche mese dopo, nel febbraio 2021, raccoglievo altre informazioni che confermavano quanto temevo. Ossia che lo Stato iraniano di fatto applicava nei confronti di Zeynab una subdola forma di tortura. Venivano sistematicamente rifiutate quelle cure indispensabili che avrebbero potuto lenire le sue soffernze, contenere perlomeno i sintomi delle varie patologie croniche da cui è affetta. Sempre ricattandola con la possibilità – peraltro ipotetica – di ottenerle in cambio di una pubblica confessione (di quali colpe non è ben chiaro) alla televisione. In sostanza veniva ulteriormente punita per essersi rifiutata di fare “autocritica”, esprimendo pentimento per la sua passata militanza politica, e di collaborare con i servizi segreti.
La politica repressiva nei confronti di Zeynab si era mantenuta inalterata nel tempo, anche dopo che aveva contratto il coronavirus e gli esami medici avevano confermato la presenza di inquietanti macchie scure nei suoi polmoni.
Inoltre, come già detto, le veniva regolarmente rifiutato il trasferimento in una prigione più vicina al domicilio della famiglia (a sua volta sottoposta a ritorsioni e rappresaglie) nella provincia dell’Azerbaijan iraniano.
Dopo uno sciopero della fame veniva nuovamente trasferita in una prigione della provincia di Kerman, in completo isolamento per tre mesi e senza possibilità di contatti con i familiari.
Già allora, in un comunicato, Amnesty International denunciava che “questo rifiuto intenzionale delle cure mediche le sta causando forti dolori, in quanto già sofferente di gravi problemi di salute, tra cui difficoltà respiratorie come conseguenza del Covid-19”. Per cui l’organizzazione umanitaria ne richiedeva l’immediata scarcerazione.
Sul caso era intervenuto nel 2016 anche il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite che si occupa delle detenzioni arbitrarie. Sostenendo che “anche qualora le attività di Zeynab Jalalian avessero goduto del sostegno del pjak, non esiste alcuna prova che lei sia mai stata coinvolta, direttamente o indirettamente, nel braccio militare del pjak”.
Si arrivava così al dicembre 2021, quando ormai da mesi non si avevano più notizie certe in merito alla sua situazione sanitaria. Le vaghe informazioni filtrate dal carcere sembravano confermare il progressivo deterioramento della sua salute e i ripetuti, punitivi, ulteriori trasferimenti da un carcere all’altro. Alla fine del 2021 pareva fosse stata trasferita dal carcere di Yazd a quello di Kirmaşan per poi tornare a Yazd.
Da parte dei familiari e di alcune organizzazioni umanitarie, la richiesta almeno di una visita per potersi rendere conto di persona della situazione.
Scoppiava intanto la ribellione di massa del 2022 per la morte di Jina Amini (ostinatamente ricordata sui media con il solo nome persiano – imposto d’ufficio – di Masha). Apparve con chiarezza evidente quale fosse la reale situazione delle donne in Iran e di quelle curde in particolare. Anche se la cosa non avrebbe dovuto apparire come una novità.
In questo contesto, nelle manifestazioni di piazza e negli appelli il nome di Zeynab Jalalian è stato spesso evocato, ricordato. Finora purtroppo senza grandi risultati. La prigionera curda rimane in carcere e le notizie sul suo stato di salute, sempre più deteriorato, non sono certo incoraggianti.
Doveroso quindi firmare l’appello di Amnesty International per la sua scarcerazione immediata.