Ma questi ayatollah stanno dando i numeri?

Sia chiaro. Qui nessuno vuole alimentare i pretesti per ulteriori sanzioni (ché poi il prezzo lo paga la popolazione, non certo le classi dominanti) o sciagurati interventi militari (tipo le devastanti “guerre del Golfo”) da parte di Washington (o dei suoi alleati Israele, Arabia Saudita, eccetera) contro il disgraziato Iran. Però, diavolo, sembra che i “turbanti consunti” (gli ayatollah) e i guardiani della rivoluzione (la “loro” ovviamente) conosciuti anche come Sepâh-e Pâsdârân (odierni epigoni della Savak dell’èra Pahlevi), se le vadano proprio a cercare.


Da questo punto di vista appare comunque strumentale, se non intrisa di “falsa coscienza”, la dichiarazione del 4 novembre con cui i Paesi del G7 (Germania, Canada, USA, Francia, Italia, Giappone, Gran Bretagna con aggiunta la UE) riuniti a Münster condannavano la brutale repressione delle manifestazioni e le presunte “attività di destabilizzazione a livello mondiale” di Teheran. “Da che pulpito”, vien da dire!
Bene, espletata la doverosa excusatio non petita, veniamo all’aggiornamento della situazione.
Tohid Darvishi, un giovane curdo padre di due bambini, originario di Qotur (provincia iraniana dell’Azerbaigian occidentale), è stato condannato a morte e potrebbe venir impiccato in qualsiasi momento.
Arrestato del tutto arbitrariamente il 15 ottobre a Tabriz durante una protesta per la morte di Jina Mahsa Amini, è stato processato da un tribunale speciale, senza avvocato della difesa e senza alcuna garanzia giuridica, e condannato alla pena capitale.
Tra l’altro, secondo quanto ha potuto documentare Hengaw, un’organizzazione iraniana per la difesa dei diritti umani, al momento dell’arresto Tohid Darvishi si trovava in una stazione di servizio in cerca di un po’ di benzina per il suo taxi, rimasto bloccato dalla folla dei manifestanti.
Il capo del tribunale, dopo aver informato i familiari della sentenza (solo verbalmente, senza rispettare le minime procedure formali), li ha anche minacciati e scacciati dall’ufficio. Rinchiuso nella prigione di Tabriz, il ventisettenne curdo sarebbe – sempre secondo Hengaw – sottoposto a “gravi torture psichiche” oltre che “privato di tutti i diritti anche minimi di un accusato”.
Ma, evidentemente, ai sedicenti “rivoluzionari” e “antimperialisti” locali nemmeno questo sembra sufficiente.
Dal 4 novembre un lugubre hashtag in persiano si aggira nella rete. Invocando, poco elegantemente, niente meno che l’immediata esecuzione dei manifestanti antigovernativi arrestati in Iran in questi 40 giorni e passa. Lo si trova in particolare sui siti di sostegno al corpo delle guardie della rivoluzione islamica (CGRI, Sepāh-e Pāsdārān-e Enghelāb-e Eslāmi). L’ hashtag originale, dicevo, è in farsi (اعدام کنید) e significa semplicemente: “Uccideteli”.
Numerosi attivisti hanno già richiesto a Twitter di bloccarlo.
Ricordo che sarebbero circa 13000 (tredicimila!) le persone già arrestate dal giorno della morte di Jina Mahsa Amini (tra di loro anche molti feriti); quelle già ammazzate, è noto, alcune centinaia.
In tale scenario appare quasi irrilevante, ordinaria amministrazione, la notizia dell’arresto della giornalista Nazila Maroufian – in attività per Dideban-e Iran e per Ruydad 24 – risalente al 30 ottobre. Quale la colpa di questa professionista curda, attualmente rinchiusa nel carcere di Evin? Aver osato intervistare Amjad Amini, il padre di Jina Mahsa Amini.
Quantomeno, si fa per dire, nel suo caso esiste uno straccio di “accusa”, per quanto assurdo. Ma per molti altri giornalisti nemmeno quello. Sono stati brutalmente prelevati dagli agenti della sicurezza o dei servizi segreti senza che venisse fornita alcuna spiegazione. Alcuni, oltre che imprigionati, sarebbero stati anche sottoposti a maltrattamenti e torture.
Ripeto: ma in Iran la casta al potere e i suoi sostenitori stanno letteralmente impazzendo o cosa?
Giro la domanda, fraternamente, senza intenti provocatori, ai “campisti” nostrani.