Intervista a Michele Columbu: attraverso un’analisi del concetto di autonomia ed un esame della situazione economica, politica e sociale dell’isola, l’itinerario, difficile ma tenacemente perseguito, verso la graduale realizzazione del processo indipendentista.

Il Partito Sardo d’Azione fu autonomista fin dalla sua nascita (ma ormai, anche in Sardegna, si dichiarano autonomisti quasi tutti i partiti politici). Negli ultimi anni, voi avete posto l’autonomia, anzi l’indipendenza dell’isola, come problema numero uno del vostro programma. Allo stesso tempo, siete europeisti e federalisti. Come pensi che si possano conciliare questi termini che a molti appaiono contraddittori?

Anzitutto penso che l’autonomia acquisti un suo chiaro significato solo in contrapposizione alla non-autonomia e cioè alla dipendenza. In altre parole, l’autonomia di un uomo, di una comunità, di una nazione non è concepibile in assoluto, ma come rapporto dialettico all’interno di un determinato contesto di uomini, di comunità, di nazioni. Sarebbe inesatto, per esempio, affermare che Robinson Crusoe, senza contatti umani o, come si dice, senza occasioni culturali, godeva di una perfetta autonomia. In questa condizione, privo di strumenti e di libertà, se permetti, egli era costretto a tornare indietro nel tempo e a rivivere esperienze primitive. Era, cioè, un uomo solo e separato. D’altra parte, la solitudine, la separazione, l’esclusione, di un uomo come di un popolo, possono verificarsi, e forse più drammaticamente, anche alla presenza di altri uomini e di altri popoli. Immaginiamo, sempre per esempio, che alcuni mercanti e politici italiani (certamente civili, questo si sa) sbarchino nella sua isola e scoprano Robinson Crusoe e si mettano a studiarlo da ogni parte, nella sua singolarità, a ridere e a deriderlo perché parla una strana (!) lingua, quindi a fotografarlo; gli regalano poi generosamente dei fiammiferi e gli portano via il berretto e il fucile per venderli a un museo, o chissà. Insomma, a farla breve, Robinson Crusoe non riesce a conquistare l’autonomia neppure in mezzo ai civili forestieri perché costoro sono separatisti, forse razzisti. Non lo accettano, lo isolano. Si ritrovarono così i negri in America, così gli stessi negri in Sud Africa, e così i Sardi in Sardegna.

Un momento, voi però una parvenza di autonomia l’avete avuta.

Questa è una storia curiosa. Fino al tempo di Carlo Alberto i Sardi ebbero una sorta di autonomia ereditata dal dominio spagnolo. Ma si sentivano soli e come estromessi dall’Italia e dall’Europa. Pensando che fosse colpa dell’autonomia e volendo diventare almeno piemontesi, nel 1847 impacchettarono l’autonomia e con devotissimi saluti la spedirono a Torino, proprio al Re Carlo. E sai che cosa accadde? Niente. Tutto come prima e peggio di prima. Verso il 1920, eccoti i sardisti a reclamare nuovamente l’autonomia. Volevano porti e strade; sviluppo industriale, agricoltura, scuole, commerci. Con scarso senso pratico, si potrebbe dire, nell’Italia monarchica e appena uscita dal travaglio dell’unità, essi parlavano pure di repubblica e di federalismo. Immagino che Vittorio Emanuele III, se ne ebbe qualche notizia, non sia stato entusiasta; ma tant’è – vedi le cose di questo mondo – alla fine degli anni quaranta arrivarono insieme la repubblica, la costituzione democratica e l’autonomia “speciale”.

Non fu un passo avanti?

Macché. Per oltre una decina d’anni, ci mettemmo a studiare e a discutere se il piano di rinascita andava fatto per poli o senza poli. Fu deciso per poli, di sviluppo, s’intende. Nel 1965 i poli, infatti, erano molto alla moda. Ma in tutti quegli anni alcune centinaia di migliaia di lavoratori, travolti da nuovi bisogni, lasciarono l’isola e furono inghiottiti dal noto “triangolo” industriale italiano. Poi sempre più lontano: Germania, Francia, Svizzera, Belgio eccetera; e persino Australia e Canada. In Italia era il tempo del boom. In Sardegna ci fu il boom dell’emigrazione. Sia detto per inciso, oggi forse bisogna riconsiderare più obiettivamente l’immenso fenomeno dell’emigrazione, un fenomeno che ha dell’epico e rappresentò una grave mutilazione, come pure costò umiliazioni e dolorosi sacrifici ai Sardi, ma segnò anche la liberazione dalla miseria e da un secolare complesso di inferiorità, e infine aprì le porte a una nuova cultura attraverso il confronto con culture così lontane e diverse. Il fenomeno, un po’ assurdamente, è paragonabile a quello per cui i reduci dalla prima guerra mondiale in Sardegna determinarono un clima di ribellione e gettarono le basi di eventi politici tuttora in atto.

Bene. E non dimenticare che negli anni sessanta nacquero delle grosse industrie, per esempio Portotorres e Ottana, anche se poi furono chiamate “cattedrali nel deserto”.

È vero. E io non dirò soltanto male, come si usa, di queste “cattedrali” costruite sul petrolio, una materia prima così precaria e tanto estranea alla Sardegna. Infatti, si deve anche riconoscere che, al momento, alleviarono la disoccupazione e rallentarono il flusso migratorio. Ma, soprattutto, fra gli aspetti positivi, bisogna poi considerare la formazione di una combattiva classe operaia, politicamente più consapevole e più evoluta delle masse contadine. Si deve soprattutto agli operai la maggiore consistenza attuale dei partiti di sinistra. Addirittura emblematico è il caso di Portotorres, dove il Partito Sardo ha raggiunto traguardi impensabili fino a qualche anno fa. Starei per concludere che, sia pure attraverso molti errori, molti sperperi e costi altissimi, ivi compresi l’inquinamento e una buona dose di distruzioni, la Sardegna, in senso assoluto, ha fatto notevoli passi avanti.

Ti stai dichiarando soddisfatto?

No, neppure ci penso. Ho voluto dare soltanto un segno di obiettività e scrollarmi di dosso l’accusa che si fa ai Sardi, o si faceva, di “lagnosi e piagnucolosi”. Ma la condizione dell’isola, in senso relativo, è tutt’altro che buona. Basti pensare che la Sardegna, fra tutte le regioni meno sviluppate, nei paesi della CEE, si colloca al terzo posto, subito dopo certe isole greche e, in Italia, dopo la Calabria.

In breve: cos’è che non va?

In breve non si possono fare delle analisi. Ti farò un elenco delle principali cose che non vanno: le industrie di cui abbiamo parlato sono ammalate e rischiano di chiudere; l’agricoltura è debolissima, in parte ancora molto arretrata e, comunque, nella maggior parte dei settori, non competitiva. I trasporti via mare, insufficienti, precari e costosissimi, non solo rendono difficili gli scambi commerciali, ma condizionano gravemente anche il turismo, che potrebbe essere una delle voci più attive della nostra economia. Le stesse ferrovie sono di una lentezza esasperante. Pensa che il loro tortuoso tracciato risale al secolo scorso. Ancora: le strutture sanitarie sono insufficienti; c’è un diffuso problema della casa, per esempio a Cagliari, che in questi anni ha assunto proporzioni tragiche (famiglie accampate nei giardini pubblici e persino dentro il Municipio). Centotrentamila disoccupati, ma forse più, percentualmente rappresentano un triste primato nazionale. E non parliamo delle servitù militari. Le servitù di tutto il territorio italiano pesano sulla Sardegna in misura mostruosamente sproporzionata. Ora si dice che anche l’aviazione militare svizzera si eserciterà nei cieli della Sardegna: perché gli Svizzeri non amano il rombo lacerante degli aerei supersonici. Questo è troppo e troppo ingiusto anche per un popolo famoso per il suo patriottismo e per la sua fedeltà silenziosa.

Questa vostra fedeltà – se è vero, come è vero, che mirate all’indipendenza dell’isola – oggi mi sembra fortunatamente di molto attenuata.

L’indipendenza, dopo le delusioni di questa autonomia “vigilata”, non sarà altro che una forma di autonomia più adeguata alle nostre esigenze politiche. Si tratterebbe, in definitiva, di rinegoziare il nostro attuale rapporto di sudditanza con lo Stato italiano e di trasformarlo in un leale patto federativo. Io ho fiducia che sia possibile trovare un’intesa vantaggiosa per l’Italia come per la Sardegna. Si metterebbe fine, così, al plurisecolare “separatismo” italiano e verrebbe finalmente soddisfatta l’ansia dei Sardi di uscire dall’isolamento. E bada che l’ipotesi federativa non è un’improvvisazione dell’ultima ora, come molti credono. Quest’ipotesi è presente nell’ideologia del Partito Sardo d’Azione fin dalla sua nascita. Solo l’adesione, un po’ tumultuosa, delle altre forze politiche all’“autonomia” ci ha sviati per lungo tempo.

Come fareste a realizzare questo sogno? Lo Stato italiano, presumibilmente, non sarà d’accordo.

Sì, è probabile, perché il vecchio e sospettoso centralismo in Italia è ancora forte. Noi tuttavia, appena gli elettori sardi ci avranno assicurato la piena maggioranza dei loro suffragi, porremo democraticamente la questione al governo italiano. E si vedrà.

Ci vorrà del tempo, in ogni caso.

Forse non tanto. I sardisti vanno forte in Sardegna.

È vero: anche le recenti elezioni amministrative lo hanno confermato. Ma vorrei che tu approfondissi il concetto relativo all’indipendenza e al federalismo, in modo esplicito. Come conciliate il vostro indipendentismo, o nuovo autonomismo, se preferisci, con il federalismo europeo in cui affermate di credere?

Penso di aver risposto implicitamente che l’indipendenza, o autonomia, non è buona per se stessa ma in quanto concede la possibilità di libere scelte. Noi miriamo a rompere il nostro isolamento e la nostra emarginazione economica e sociale partecipando paritariamente alla cultura e alle decisioni politiche europee. Mondiali, se possibile. Ma senza autonomia non si arriva all’Europa come non si è mai arrivati all’Italia; se non si hanno possibilità di scelta, non si arriva da nessuna parte e si .resta soli e separati e nell’impossibilita di crescere, come Robinson Crusoe. La partecipazione e la cultura non debbono essere élitarie ma diffuse nel massimo grado possibile, altrimenti danno luogo a false democrazie, a oligarchie o a dittature. Gli intellettuali che individualmente superano la barriera dell’isolamento e si collocano come cittadini più o meno onorari e onorati in comunità più vaste della Sardegna, non sempre coinvolgono la loro gente e non migliorano le condizioni. Con ciò voglio anche precisare il senso della mia provocatoria affermazione, fatta in altre circostanze, che certi illustri personaggi sardi potrebbero essere ricordati come rinnegati e traditori.

Ma tu, veramente, credi che l’Unione europea, quella del “Progetto Spinelli’’, per intenderci, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984, possa risolvere i vostri problemi?

No, non lo credo, anzi lo nego. La prima Unione europea – che per essere attuata dovrà ancora rimuovere enormi ostacoli, diffidenze, nazionalismi radicati, paure e gelosie burocratiche – sarà forse una sorta di trattato internazionale fra i vertici degli attuali Stati più o meno antiautonomisti, e perciò non sarà una vera “unione”; ma rappresenterà tuttavia un grandissimo passo avanti nella direzione di quella più democratica Europa dei Popoli che i sardisti difendono e in seno alla quale anche la Sardegna dovrà trovare il suo giusto ruolo. Nella lotta per questa vera unione europea non siamo soli, per fortuna, né isolati. Esiste in Europa un vasto movimento politico e culturale, che si riconosce nella Libera Alleanza Europea e si va consolidando via via con la partecipazione delle regioni e dei popoli “esclusi”. Qui permettimi di citare il mio amico Jaak Vandemeulebroucke, fiammingo, uno dei massimi dirigenti della Volksunie e fra gli artefici dell’Alleanza, il quale scrive che, appunto nell’Alleanza, convergono le forze politiche risolute a tradurre “in termini attuali il sogno federalista di Alexandre Marc e Denis de Rougemont: il sogno di un’Europa basata sulla giustizia sociale, sulla pace e sullo sviluppo, grazie a una unità che comporti il rispetto della diversità delle culture”. Al rispetto della diversità e di tutte le peculiarità storiche, etniche e culturali dei singoli popoli, compreso il popolo sardo, beninteso, noi teniamo moltissimo perché siamo convinti che l’unificazione dell’Europa, o del Pianeta, attraverso la mortificazione di ogni pluralismo culturale e con la distruzione dei mille e mille microcosmi tuttora esistenti sulla terra, segnerebbe un pauroso imbarbarimento dell’umanità. Avrei tante cose da aggiungere e da precisare su questo punto, ma temo che il discorso sia già troppo lungo anche per una rivista così attenta e paziente come Etnie.

Per concludere, però, ti voglio domandare un’altra cosa: in Sardegna il Partito Sardo, dopo la sua vittoria nelle elezioni dello scorso giugno, ha voluto e potuto realizzare una Giunta regionale col PCI. Come è stato possibile? Che cosa avete in comune con i comunisti?  Per quanto mi risulta essi non condividono, anzi rifiutano fermamente, la vostra posizione indipendentista.

Caro Merelli, la Sardegna è povera e versa in una situazione di sottosviluppo che potrebbe definirsi precapitalistica. Di questa situazione consideriamo responsabili sia il capitalismo sia i governi italiani di sempre. Puoi capire perché ci collochiamo “a sinistra’. Con i comunisti perché? È semplice: essi sono l’alternativa politica alla democrazia cristiana, poiché noi, al momento, non abbiamo la forza di proporci come alternativa. I consiglieri regionali comunisti sono 24, i sardisti sono 12. Con l’appoggio del PSI e dei partiti laici, è stato possibile costituire una giunta che governa la Regione Sarda. I comunisti, è vero, non condividono tutto il nostro programma, né i sardisti si identificano con i comunisti; ma lungo il tratto di strada che faremo insieme basta intendersi su alcuni punti, non su tutti. L’indipendenza la porteranno avanti i sardisti, i comunisti no. Intanto è utile convivere e lavorare insieme per risolvere alcuni grossi problemi che né i sardisti, da soli, né i comunisti senza di noi, potrebbero portare a termine. Per dividerci non c’è fretta, e intanto, chissà, cammin facendo ci capiremo meglio anche per l’avvenire. I comunisti, sai, in Sardegna come in Italia, stanno dimostrando tanto buon senso e tanto spirito di adattamento. Io ho l’impressione, e la speranza, che il loro dogmatismo più spigoloso e più retrogrado sia entrato in crisi. Un po’sullo scherzo, potrei dire che si stanno “civilizzando”.