La Transilvania, fino al 1919, è stata caratterizzata dalla coesistenza pacifica, feconda e prospera di diverse nazionalità (Sassoni, Ungheresi, Ebrei, Zingari, Valacchi): una secolare tradizione di ampie autonomie, senza ghetti né commistioni forzate, nel rigoroso rispetto di diritti e di individualità. I “Trattati di Parigi”, con la traumatica “riorganizzazione” dell’Europa centro-meridionale, stilata a tavolino e indifferente delle volontà dei popoli, hanno spezzato questa convivenza basata sulla libertà e la tolleranza. Dall’operato del Regno di Romania all’attuale oppressione “scientifica” e preordinata del “socialismo reale”: un crescendo nel sistematico annientamento di una cultura e di una storia che appartengono a tutta l’Europa.

Se davvero le frontiere sono ferite che dividono e offendono i popoli, esistono paesi in cui esse appaiono più profonde e laceranti: nella nostra vecchia Europa uno di questi luoghi, offesi dagli interessi di uomini di “governo”, è certamente la Transilvania. Nome che ai più anziani ricorderà diatribe e litigi degli anni ’30 e ’40, ma che tuttora può essere indicato come paradigma della compressione ed oppressione dei diritti delle popolazioni di cultura “diversa” da quella dominante. La “riorganizzazione” dell’Europa centro-meridionale successiva alla prima guerra mondiale può essere chiaramente indicata come origine di quegli squilibri e di quelle ingiustizie che trascinarono il mondo nella seconda grande guerra, lasciando in eredità problemi ancora non risolti. I vincitori, come sempre poco idealisti e molto interessati, tutti certo desiderosi di rivincite talora bramate per secoli, si riunirono a Parigi e dintorni per decidere la sorte degli sconfitti imperi centrali e accanto a loro sedettero anche eminenti personaggi a propagandare “desideri fondati, vitali ed irrinunciabili”, talvolta con grande autorità ed abilità, e con l’obiettivo essenziale di riuscire ad ottenere un posto al banchetto dei potenti. Nella peggiore delle ipotesi, qualche avanzo sarebbe toccato anche a loro. Antiche e più recenti frustrazioni dunque risorsero prepotenti, odi e risentimenti tornarono ad infiammarsi, srotolati insieme alle mappe ogni volta diverse: si potrebbe certo affermare che i cartografi sostennero un carico di lavoro non indifferente né di poco rilievo. Il nuovo assetto del continente può anche aiutarci a comprendere la genesi di molti problemi. Alla Francia furono destinate – regioni di lingua tedesca – Alsazia-Lorena ed il controllo del bacino minerario della Ruhr; dall’ex Impero Russo ebbero giusta origine gli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e la Finlandia ottenne l’indipendenza; la Polonia, che non esisteva come entità statuale dalla fine del secolo XVIII, rappresentata nell’illustre consesso dal pianista Paderewski, ottenne anche quello sbocco al mare che separò traumaticamente parte del territorio tedesco, avvenimento profeticamente indicato quale “fonte del prossimo conflitto”. Il neonato Regno di Jugoslavia null’altro rappresentò se non la riconferma del predominio, anche se mascherato, del nazionalismo serbo nella regione medio-balcanica. La Grecia stessa accampò diritti nei confronti dei dirimpettai Turchi, ed anche l’Italia, rappresentata dall’avvocato V. E. Orlando, specialista nell’uscire indignato dalla sala dei lavori, per poi rientrare una volta accolti i suoi desiderata, ebbe la sua parte dei trenta denari. Gli sconfitti erano o tanto modesti, come la Bulgaria, o dilaniati da gravissimi problemi interni, come l’ex Impero Russo, oppure, come l’Austria-Ungheria, oggetto di uno smembramento scientificamente condotto. La Polonia, infatti, ebbe la sua quotaparte di territorio austriaco; la nuova entità denominata Cecoslovacchia, coacervo di popoli (tedeschi, boemi, moravi, slovacchi, polacchi, ruteni, solo per citare i principali) e di problemi, al di là delle buone intenzioni e dei discorsi ufficiali era una scommessa ad alto rischio; il Regno di Jugoslavia ricevette la sua brava parte di Slovenia e l’avvocato napoletano acchiappò in extremis il Tirolo del Sud. Il territorio residuo venne ulteriormente ridiviso, cosicché l’Austria e l’Ungheria furono poco più che entità geografiche. Senza dubbio uno fra i migliori protagonisti della rappresentazione di “diritti per secoli vessati” fu il signor Bratianu, che riuscì a farsi raddoppiare il territorio, arraffando a più non posso a destra e a manca: dalla Bulgaria ebbe la Dobrugia meridionale; dall’ex Impero Russo la Bucovina e successivamente la Bessarabia; infine dall’Ungheria riuscì a ottenere la Transilvania, le contee esteriori del bassopiano e il Banato, su cui anche i Serbi, in verità, accampavano diritti; ma potevano ritenersi anche paghi del già avuto. Così i modesti voivodati di Moldavia e Valacchia, assurti a dignità di regno nel 1881, si arricchirono, in ogni senso. Linee immaginarie, dunque, tracciate sulla carta in base ad altre carte, alzando steccati invisibili e invalicabili, divisero popoli e famiglie, tagliarono in due una miriade di paesi, distrussero l’economia di regioni un tempo floride, provocarono migrazioni di entità quasi biblica. L’orografia e l’idrografia della Transilvania indicano, infatti, abbastanza chiaramente questa regione come tributaria del bassopiano ungherese: cinta dai monti Carpazi, comunicante con la pianura moldavo- valacca attraverso poche e aspre vie (il bacino del fiume Olt), la quasi totalità dei fiumi della regione scende verso il bassopiano ungherese per poi confluire nel Danubio. I monti Carpazi rappresentarono per secoli un essenziale bastione, zona privilegiata per il controllo militare della regione. Volendo, anche per sommi e superficiali capi, ricordare un poco di storia transilvana, balzano immediatamente all’occhio come elementi cardine la coesistenza, feconda per secoli e in secoli in cui il concetto di libertà era sottoposto alla ragion politico-ecclesiastica, di diverse nazionalità e una tradizione di autonomia ad un tempo causa ed effetto di tale prosperità. Fu infatti solo con l’esasperazione nazionalistica interessata e preordinata che le principali nazionalità della Transilvania furono messe irreparabilmente in contrasto: la fine dell’autonomia fu solo un episodio del declino di un’isola di libertà e tolleranza indotto in nome di libertà e tolleranza. In Transilvania, per secoli, le diverse nazionalità godettero di autonomie ampie ma precisamente regolate, senza ghetti né commistioni forzate. Anche popolazioni e gruppi che potrebbero tranquillamente essere definiti “minoranze fra le minoranze” sia culturali che religiose, come per esempio gli Zingari o gli Ebrei, trovarono qui rifugio ospitale e libero. A tal proposito − volendo così introdurre la trattazione di alcune note di storia transilvana − è interessante citare la testimonianza di Giovanandrea Gramo, colonnello al servizio di Giovanni Sigismondo Zapolya verso gli anni ’60 del XVI secolo: “La quinta nationes è la Cingara, il quale numero è grande e sparto per tutto il Regno in diuerse squadre”.(1)

Lo stabilire quali siano le popolazioni originarie della regione e quali siano i rapporti degli attuali abitanti con tali genti ha diviso e tuttora divide gli storici, e sulle diverse ipotesi si sono fondate e si fondano posizioni geopolitiche che rappresentano uno dei fenomeni di attrito ancora ampiamente presenti nella regione transilvana. Piuttosto che incunearsi nel ginepraio della dimostrazione o meno della continuità daco-rumena, può essere utile fissare la situazione per momenti successivi. Come primo quadro di riferimento si può considerare la fine del secolo XV, in cui si stabilizza la situazione di coesistenza dei principali gruppi etnici:

–          le popolazioni valacche;

–          le popolazioni ungheresi;

–          gli Székely;

–          i Sassoni;

–          gli Zingari.

Una prima riflessione si può fare a proposito di questi ultimi: il loro numero appare rilevante, come indica la testimonianza del Gromo, e sempre dallo stesso testimone possiamo trarre una considerazione relativa ai rapporti tra gli Zingari e le altre popolazioni. Egli, infatti, ci dice che gli Zingari della Transilvania avevano le stesse abitudini – “negative” – di quelli dimoranti nella penisola italiana. Giudizio certo influenzato dall’appartenenza a una cultura tutt’affatto diversa ed estranea a quella dei soggetti giudicati, ma completato da una nota assai interessante: gli Zingari − ci dice l’osservatore bergamasco − facevano parte dell’esercito (di solito della fanteria) e coltivavano i campi, attività queste che indicano da un lato la non irrilevanza della componente zingara nella società transilvana e dall’altro l’esistenza di strutture di vita stanziale. Volendo ora considerare la situazione degli altri gruppi etnici, la distribuzione territoriale ci mostra una situazione complessa, quasi a macchie di leopardo, con rilevanti sovrapposizioni; fu certamente la divisione in ruoli economico-sociali e religiosi piuttosto precisi (anche se non rigidissimi), nel rispetto estremo di diritti e individualità, uno dei fattori principali di coesistenza stabile e feconda. Le popolazioni valacche erano prevalentemente stanziate nelle zone rurali, anche se non mancavano insediamenti urbani di un certo rilievo; questa caratterizzazione in senso rurale delle popolazioni valacche venne naturalmente accentuata con il rafforzamento del fenomeno feudale, ma ciò non impedì la formazione di una seppur limitata nobiltà: basti qui citare la famiglia degli Hunyadi. La nazione ungherese era caratterizzata da una vastissima stratificazione sociale, anche se magiari o al più magiarizzati erano i barones, vertici dell’apparato amministrativo. Il terzo gruppo era quello degli Székely, avente caratteristiche del tutto peculiari: linguisticamente affine alle popolazioni magiare, pare attestato in loco ancor prima degli insediamenti ungheresi. L’unità strutturale politico-amministrativa era la sedes, con un capitaneus (addetto prevalentemente – ma non esclusivamente – alle questioni militari), uno judex regis (di nomina, come indica chiaramente l’appellativo, regia) e uno judex sedis elettivo; 24 assessores, unitamente ai due judices coadiuvavano il capitaneus nelle più rilevanti decisioni. Esisteva anche un comitatus delle sette sedes con un proprio comes. Questa autonomia (caratteristica, come si vedrà, anche delle popolazioni germaniche) venne per secoli garantita e rispettata, tanto da divenire sinonimo di libertà e diritti pienamente tutelati. Un altro gruppo etnico che godette di immunità e autonomia ampie è quello dei Sassoni. Lo stanziamento di genti germaniche nel territorio transilvano non è antichissimo: i primi gruppi di Theutonici e Flandrenses si stabilirono nelle regioni del Kiralyföld (Hermannstadt/Nagyszeben/Sibiu) e di Noesenstadt/Besztercze/Bistrita verso la metà del XII secolo (un altro gruppo di etnia tedesca, i cosiddetti Suebi, si stabilì nel Banato intorno al 1720). L’ Universitas Saxonum, organismo che ragguppava tutte le sedes dei Sassoni nel territorio transilvano, ebbe pienezza di autorità e poteri fino al 1867: questo unico dato rende meglio di ogni altro l’idea di quell’essere “potenti” che tanto aveva colpito il Possevino negli anni ’70-’80 del XVI secolo. Come elemento cementante questa situazione assai complessa sta il principio della unio trium nationum, rigorosamente rispettato nelle principali istanze istituzionali. Unio trium nationum, dunque, ma anche unio trium religionum: tre gruppi etnici principali, tre confessioni diverse in una regione militarmente appetibile e appetita, non certo alla “periferia dell’’impero”.

In questa “polveriera”, che mai esplose (e i tentativi furono innumeri) proprio perché la coscienza della libertà fu un cemento saldissimo, trovarono rifugio ospitale quei riformatori che difesero la libertà di pensiero sia dalla Santa Inquisizione che dai roghi della Ginevra calvinista. La Transilvania rappresentò una cerniera fra due mondi – quello europeo e quello ottomano – sempre in attrito, e lo spazio limitato non consente un’analisi più approfondita del ruolo giocato dal principato come parafulmine delle tensioni periodicamente provocate. L’autonomia – comunque – e la prosperità della regione transilvana non furono messe in discussione anche quando il principato venne a costituire le contee più orientali dell’Impero. È infatti verso la metà del XVIII secolo che avviene il secondo stanziamento di genti germaniche nella regione: sono i Suebi stabilitisi nel Banato che darannno alla Transilvania – dal punto di vista della distribuzione etnica – l’assetto definitivo. Vediamo dunque un forte insediamento magiaro nelle zone orientali (con una sorta però di connessione con le contee esteriori del bassopiano ungherese), l’insediamento sassone nelle zone centro-orientali e quello suebo nelle contee occidentali del Banato; gli insediamenti ebraici e zingari sono meno ben definiti percentualmente ma più diffusi territorialmente. Va poi rilevato che tutte le grandi città (compresa la capitale) sono zone di insediamento magiaro, tedesco ed ebraico, lasciando alle popolazioni rumene le zone rurali. Tale quadro si può dire non subisca importanti modificazioni per almeno un secolo: solo le vicende seguite ai moti del 1848 da un lato e la nascita del Regno di Romania dall’altro (nel 1829, con il Trattato di Adrianopoli, le regioni della Valacchia e della Moldavia ottennero il diritto di eleggere due hospodar, sotto il protettorato russo; nel 1859 il principe di Couza venne eletto hospodar di Valacchia e Moldavia, unione personale riconosciuta dalla Porta nel 1861; il Congresso di Berlino nel 1878 riconobbe l’indipendenza e l’unione territoriale dei due principati sotto il nome di Romania e al 1881 data l’erezione in regno) diedero una brusca accelerazione alla situazione, con l’aumento della pressione nazionalista rumena da un lato, volta ad acquisire forza oltre che territori, e le contromosse ungheresi dall’altro, volte a difendere quella che veniva definita “la culla della nazione ungherese”.

L’assassinio di Sarajevo rappresentò l’occasione ideale per gettare le basi di una politica che mirasse alla ridefinizione territoriale della regione transilvana. Il ruolo del Regno di Romania nel gioco palese ed occulto delle potenze europee impegnate nel primo conflitto mondiale può essere paradigmatico di molti altri atteggiamenti similari in quel tempo: la Romania restò per circa due anni neutrale (la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria è del 27 agosto 1916), intavolando trattative in modo da garantirsi quei “territori della monarchia austro-ungarica abitati prevalentemente da Rumeni” già offerti dalla Russia nel 1914, in cambio dell’intervento prima e della neutralità poi. La situazione così delineatasi consentì a Bratianu di procrastinare la sua entrata in guerra modificando continuamente le condizioni ed esigendo anche un intervento concertato con l’Italia. Le richieste, oltre ai territori poi ottenuti, riguardavano tutta la parte dell’Ucraina subcarpatica, un’ulteriore ampia zona del bassopiano ungherese e tutto il Banato. Questo gioco al rialzo, che peraltro poneva grossi problemi ai Serbi (il confine sarebbe passato a pochi chilometri da Belgrado), fu sostanzialmente coronato da successo, poiché l’unica “concessione” fu la promessa di una smilitarizzazione della parte del Banato prossima a Belgrado. Le vicende negative dell’intervento (perdita dei due terzi del territorio, gravi oneri dopo l’armistizio di Brest-Litovsk) imposero a Bratianu una pausa forzata, ma il 10 novembre 1918, ritornato al potere, egli impose di riprendere le ostilità contro gli imperi centrali. Il giorno seguente, a Compiègne, l’armistizio fra le potenze dell’Intesa e gli imperi centrali pose termine alla guerra, e la Romania potè sedersi alla tavola dei vincitori. Il 13 novembre 1918 Karoly, in nome dello Stato ungherese sopravvissuto al crollo generale, firmò a Belgrado un armistizio che sostanzialmente aderiva alle richieste rumene: le truppe vincitrici subito occuparono il territorio loro assegnato e le popolazioni rumene ad Alba Julia proclamarono il giorno 1 dicembre 1918 l’annessione al Regno di Romania. Solo il 21 gennaio 1919, quando dunque l’esercito rumeno aveva già completamente occupato il paese, i Sassoni, anche considerando la forma della proclamazione di Alba Julia, aderirono a Medweiss all’atto di unione con la Romania. È qui molto importante riportare parte della dichiarazione del 1 dicembre 1918 sopra citata. I principi fondamentali del nuovo Stato rumeno dovevano essere i seguenti:

1) Completa libertà nazionale per tutti i popoli coabitanti in Transilvania. Ciascun popolo provveda alla educazione, si governi e giudichi da se stesso nella propria lingua per mezzo di persone tratte dal proprio seno. Ciascun popolo avrà diritto ad una rappresentanza legislativa e avrà il diritto di prendere parte all’amministrazione del paese in proporzione al numero degli individui di cui è composto.

2) Uguaglianza totale, autonomia e libertà religiosa per ogni culto nello Stato. (2)

La coscienza della particolare situazione etnica della Transilvania traspare chiaramente, insieme alla necessità di tutele chiare per tutte le nazionalità della regione. Intanto la situazione ungherese precipitò sempre più: i governi si susseguirono senza sosta, controllando zone differenti del paese; eserciti più o meno potenti si contrapposero in violente lotte interne, e gli alleati prima stabilirono l’arretramento in territorio ungherese di circa 100 chilometri della linea dell’Armistizio di Belgrado (vi furono resistenze anche armate, annientate però in poco tempo), poi non si opposero all’occupazione rumena di gran parte del paese, che pose fine al regime bolscevico di Bela Kun (la capitale, Budapest, venne occupata dalle truppe rumene il giorno 1 agosto 1919). Il nuovo governo ungherese ebbe, si può dire, il solo compito di presentare istanze tardive e inascoltate alla Conferenza di Parigi; i Sassoni denunciarono allora la proclamazione di Medweiss, chiedendo che la Transilvania tornasse a far parte dello Stato ungherese, godendo di ampie autonomie, ma naturalmente le loro richieste rimasero inascoltate. Bratianu invece reclamò − e fu davvero abile − quanto gli era stato promesso nel 1916, e benché tali richieste non fossero poi state compietamente accolte, specie per quanto riguardava l’organizzazione territoriale del Banato, il Regno di Romania si vide quasi raddoppiare il territorio. Nel frattempo, prima ancora che la delegazione ungherese portasse le sue inutili considerazioni alla Conferenza della pace, la Romania aveva, pur con molte rimostranze, firmato il 9 dicembre 1919 un trattato di tutela delle nazionalità minoritarie. Ma quale fosse l’atteggiamento vero al riguardo, lo può indicare la vicenda relativa alla ratifica del proclama di Alba Julia più volte citato, avvenuta quasi un anno prima, il 27 dicembre 1918: fu solo la parte che sanciva l’unione al Regno di Romania ad essere ratificata, mentre non lo fu la parte relativa alla tutela delle nazionalità minoritarie. Questo, dunque, lo scenario della Grande Romania.

Per iniziare ora un’analisi delle vicende che giungono fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale bisogna esaminare una serie di cifre relative ai censimenti del 1910 e del 1930. Come considerazione preliminare va precisato che i due dati si riferiscono ad amministrazioni diverse: il primo censimento è ungherese, il secondo è rumeno. Il censimento del 1910 si riferiva alla lingua madre e quindi contiene un dato da depurare per ciò che riguarda il gruppo magiaro: gli Ebrei transilvani, infatti, tutti di lingua ungherese, furono censiti in tale gruppo. Il censimento del 1930, invece, venne espresso ripartendo i cittadini a seconda della nazionalità dichiarata (anche se una domanda faceva riferimento anche alla lingua materna), dato più rispondente agli interessi rumeni.

Ecco le cifre comparate relative alla Transilvania:

Censimenti     Rumeni     Magiari        Tedeschi       Ebrei      Serbi          Altri

 

1910             2.829.454   1.661.805     654.789          –             52.084      139.355

1930*           3.237.000   1.483.000     545.000       111.000    45.000      134.000

3.209.000   1.355.000     545.000       178.000    45.000      218.000

 

* Il primo dato si riferisce alla lingua materna, il secondo alla nazionalità (3)

Depurando il numero dei Magiari del 1910 di circa 100.000 ebrei, si possono abbastanza chiaramente comparare i due valori relativi alla lingua materna. Da questi primi dati appare un rilevante aumento solo per il gruppo etnico rumeno: ciò deve riferirsi sia ad un’opera di rumenizzazione relativa allo sviluppo dell’amministrazione statale rumena dei nuovi territori, sia alla migrazione (o al mancato ritorno) di Magiari verso i territori ungheresi da un lato e rumeni (del “Regat”, Regno) dall’altro. L’aumento invece della popolazione ebraica deve essere in gran parte riferito a un importante flusso migratorio proveniente dalla Galizia polacca: il dato relativo alla confessione religiosa ci dà un valore di 191.000 per gli Ebrei. Un altro fattore da prendere in considerazione è la distribuzione della popolazione urbana. Come già è stato citato, gli insediamenti urbani della Transilvania, almeno fino all’annessione con la Romania, erano caratterizzati da una prevalenza sassone nella parte centrale del paese (Hermannstadt, Kronstadt, Medweiss, Schässburg, Millenbach), con un centro sassone anche nella parte orientale (Noesenstadt); da una prevalenza ungaro-sueba a Temeswar, nel Banato. Vi erano poi centri prevalentemente magiari, come la capitale Kolozvar, o magiaro-ebraici (Nagyvardy, Satmar); centri rumeni rilevanti erano Alba Julia, Blaj, Fagaras, Caransebes.

I dati della popolazione urbana generale (4)

Censimento     Rumeni           %         Magiari           %         Tedeschi         %           Ebrei     %

1910               152.000          20,0      480.000         62,0      123.000         14,0      19.000    2,5

1930               330.000          34,0      431.000         44,0      130.000         14,0      69.000    7,1

possono essere affiancati da un dato relativo a un insediamento urbano, quello di Kronstadt, storicamente sassone, la cui evoluzione nel periodo 1880-1930 è la seguente: (5)

Anno   Tedeschi         Magiari           Rumeni

1880      9.919             9.827               9.382

1910     10.644            17.831                         11.786

1930     13.031            23.279             19.370

Una delle conseguenze dell’annessione della Transilvania al Regno di Romania fu l’improvvisa variazione di direzione dei flussi economici: la pianura moldavo-valacca si sostituì al bassopiano ungherese. Con i nuovi confini furono separate le fabbriche dalle zone di produzione delle materie prime e dai mercati, i produttori dai consumatori, i proprietari dai lavoratori; furono interrotte tutte le strutture di comunicazione, senza che ne esistessero verso le nuove sedi. La Transilvania fu non solo un serbatoio da cui liberamente attingere, ma anche terra da conquistare. In occasione della riforma agraria, le assegnazioni di terre ai contadini, occasione per facilitare ed intensificare la rumenizzazione della Transilvania, furono così eseguite: nel Regat 2.776.402 ha (37,96%  delle terre coltivabili); in Transilvania 1.663.809 ha (44,53% delle terre coltivabili). I destinatari furono rumeni per il 73,4% e ungheresi per il 16,26%. Gli indennizzi ammontarono a 1.670 lei/ha nel Regat, contro 23 lei/ha in Transilvania (6). Anche la capacità contributiva venne differenziata, godendo i Rumeni di minori imposte, ed i provvedimenti per la rumenizzazione del paese furono molteplici e capillari: per esempio, le insegne in lingua rumena pagavano imposte fino a 500 lei, mentre quelle in altre lingue fino a 8.000. Ciò nonostante, i seguenti dati del 1927 relativi all’attività economica della Transilvania ci indicano da un lato quanto fosse solida la posizione economica delle minoranze e dall’altro quanto fosse difficile e ostacolata le rumenizzazione forzata del paese: (7)

Attività           Rumene          Capitale/lei                 Minoranze                  Capitale/lei

Banche               145              450.milioni                       350                        1.350 milioni

Industrie             70               350. milioni                      375                        1.850milioni

Imp. Commerc.   35               50.milioni                        105                          200milioni

Nel 1933 venne introdotta la proporzionale etnica per tutte le aziende: l’indice applicato, però, fu quello nazionale, e non quello delle regioni ove le “minoranze” erano maggioranza. Volendo fare un parallelo con il nostro paese, usando tale assurdo criterio, i Sud-Tirolesi avrebbero diritto a circa 0,8 posti di lavoro ogni 100 (essendo la popolazione di lingua tedesca in Italia equiparabile a un tale valore percentuale). Tale deliberazione era stata preceduta, nove anni prima, da un’altra importante disposizione: nel 1924 venne infatti organizzata una “analisi dei cognomi” nelle zone di presenza minoritaria, che servì a stabilire il numero di sezioni scolastiche per le varie zone. Naturalmente chi fosse stato assegnato a un determinato gruppo etnico poteva solo iscriversi in un istituto del corrispettivo gruppo etnico. Gli indirizzi scolastici destinati alle minoranze furono così limitati, facendo riferimento alle scuole medie: per la popolazione magiara, 7 fra scuole e sezioni con insegnamento in lingua magiara, 2 sezioni ginnasiali femminili e 2 sezioni di scuola superiore di commercio; per la popolazione tedesca, un liceo completo, 4 ginnasi maschili e una sezione di scuola superiore di commercio.(8) Questi erano gli istituti statali destinati alle minoranze, e vedremo subito quanta importanza rivesta questa limitazione. La rumenizzazione in campo scolastico fu condotta su vari fronti: il primo intervento fu la progressiva introduzione dell’insegnamento in lingua rumena in tutte le scuole, per le materie più importanti quali la storia, la geografia, le nozioni costituzionali (nei primi anni del ciclo elementare) o per tutte le materie (nei corsi superiori). Una seconda azione investì la struttura di distribuzione delle scuole sul territorio, con due obiettivi: per le ragioni storico- politiche già viste, il concetto di minoranza etnica veniva a coincidere quasi perfettamente con quello di minoranza confessionale (ciò è ben esemplificato dalle popolazioni sassoni, luterane) e a fianco delle scuole gestite dallo Stato – poche, come abbiamo visto, –  erano sorte scuole confessionali, di ogni ordine e grado, che si rivolgevano alle rispettive popolazioni, in cui l’insegnamento veniva impartito nella lingua madre. Tutte queste scuole e gli istituti superiori (anche di carattere universitario) furono declassati a scuole private, soggette all’autorizzazione e al controllo del ministero dell’istruzione pubblica. Naturalmente i manuali di testo e la lingua di insegnamento dovevano essere rumeni; inoltre i diplomi rilasciati non avevano alcun valore legale. Il secondo obiettivo, quello di agevolare lo stanziamento di insegnanti rumeni nelle zone alloglotte sia magiare che tedesche, fu ottenuto con la definizione delle cosiddette “zone di cultura”: in tali zone, che in pratica coincidevano con quelle di stanziamento magiaro e tedesco, gli insegnanti godevano di stipendi più elevati, anche perché le scuole dovevano essere veicoli di diffusione della “rumenità”, e non erano molti gli insegnanti disposti a sopportare la condizione di assoluta incomunicabilità con la propria classe. In questo processo di lenta assimilazione intervenne il secondo conflitto mondiale ad aumentare divisioni e tensioni: l’arbitrato di Vienna del 30 agosto 1940, che sancì il ritorno della Transilvania settentrionale all’Ungheria, completò lo smembramento del paese e impedì probabilmente ogni successiva possibilità di soluzione della questione transilvana. La storia delle minoranze etniche transilvane del secondo dopoguerra, essendo strettamente connessa allo sviluppo del “socialismo reale”, si pone di per sé su un piano affatto diverso da quello che ci ha consentito di riflettere su tutto ciò che precede. È quasi fisiologica una cesura metodologica nell’accostarsi alle vicende del presente, anche perché ignorare la concezione marxista-leninista dello Stato rumeno rischierebbe di portare all’uso di strumenti di riflessione e indagine non più comparabili e compatibili con la realtà. E la realtà cardine è la monoliticità dello Stato marxista-leninista, nel quale non vi è spazio per l’alternativa. Sarebbe sufficiente qui citare questa frase di N. Ceausescu (giugno 1976) – “…Sulla base di questa verità materialistica dialettica, il nostro Partito e il nostro Stato hanno il dovere di agire consapevolmente al fine di assicurare tutte le condizioni necessarie alla manifestazione piena e intera della nazione e delle nazionalità, parallelamente all’avvicinamento e alla graduale scomparsa, nel comunismo, delle differenze nazionali per la formazione di un popolo di lavoratori edificatori coscienti, in un’unità senza cedimenti della loro propria storia, del loro proprio avvenire libero, comunista…” (9) – per dimostrare quale presente subiscano le nazionalità transilvane; ma le proclamazioni ufficiali (anche se di questo tipo) non rendono a sufficienza l’idea della possanza dei meccanismi di assimilazione. La prima forma di assimilazione da considerare si potrebbe definire “statistica”: il dato complessivo delle minoranze nazionali (o – usando il termine sottilmente diverso e assai più insidioso – “nazionalità coabitanti”) è sempre decrescente, andando dal 14,3% del 1956 al 12,4% del 1966, per giungere all’11,8% del 1977.(10)

Da questi dati alcune riflessioni si possono trarre: la prima, già espressa a proposito dei dati del censimento del 1930 (in una Romania, si badi bene, non ancora illuminata dalla luce del socialismo), è che le cifre si riferiscono all’origine etnica e non alla lingua madre, dato questo che già cinquant’anni orsono si era rivelato più omogeneo alla classe dominante rumena (le pressioni di assimilazione sono altissime ed in certi casi, come per gli Zingari, veri cittadini di seconda categoria, può essere vantaggioso – od almeno tale è l’illusione – dichiararsi rumeni); la seconda è che non tutte le minoranze risentono in modo stereotipato della pressione rumenizzatrice. Per esempio, nella storia recente, le misure per la riduzione del tasso di incremento demografico non pare abbiano sortito effetti per i Rumeni (e questo fenomeno è intuibile), ma nemmeno per gli Zingari, divenuti la seconda etnia “minoritaria” del paese (dopo gli Ungheresi), e per i Turchi, evenienza questa meno positiva se osservata da Bucarest. A questo punto, però, è necessario rammentare alcuni episodi della storia rumena recente, che rivestono interesse generale. Il primo dato da ricordare è che la Romania non soffrì di una occupazione nazista paragonabile a quella dei territori del cosiddetto governatorato generale, e quindi l’annientamento delle popolazioni zingare ed ebraiche non fu totale. L’occupazione sovietica del paese (agosto-ottobre 1944) riportò alla vita attiva i comunisti, ma nel dicembre dello stesso anno il PC non raggiungeva il migliaio di aderenti (erano, per la precisione, 964). L’evidente necessità di formare rapidamente una classe dirigente o quanto meno un buon numero di quadri impose l’apertura agli esponenti delle minoranze, che infatti formarono l’ossatura del partito: Anna Pauker, ebrea, e Laszlo Luka, magiaro, entrarono a far parte del Comitato centrale (su di un totale di quattro membri). La seconda fase, una volta raggiunta una certa solidità e stabilità delle strutture del partito, fu imperniata sulla divisione e contrapposizione, all’interno del partito stesso, degli appartenenti alle varie etnie non rumene e portò al consolidamento della frazione rumena come nucleo dirigente del partito, e quindi del paese: a questo punto si può già considerare stabilizzato lo Stato- partito (e la storia dello Stato rumeno potrebbe aver termine). La storia, così, è solo storia di repressioni, che periodicamente colpiscono gli elementi eterodossi: ancora nel 1945 Sassoni e Suebi (quelli che non avevano seguito le truppe tedesche in rotta), trattati alla stregua di prigionieri di guerra, vennero deportati nell’URSS, insieme alle popolazioni della Dobrugia.

Il 1948, invece, è l’anno delle accuse di “titismo” ai Serbi del Banato, e di “chauvinismo” alle popolazioni tedesche. Nel 1950 assumono rilevanza i processi di carattere antisemita e nel 1952 l’epurazione di Ebrei e Ungheresi, innescata quattro anni prima dalla reazione al processo di Budapest contro il ministro Rajk, culmina con l’eliminazione di Laszlo Luka e Ana Pauker. Sempre nel 1952 le terre degli Székely assumono la denominazione di Regione autonoma magiara, un ghetto per popolazioni che non avevano conosciuto quelli nazisti. Ciò consenti di spazzar via con un colpo di spugna i residui di autonomia magiara al di fuori della regione (si pensi che solo il 33% degli Ungheresi viveva nel territorio della RAM).(11) Il 1956 è l’anno della rivolta d’Ungheria, e ciò dà lo spunto per nuove epurazioni e repressioni contro Ebrei e Ungheresi: è infatti di quell’anno l’eliminazione di quasi tutti gli elementi ungheresi appartenenti alla polizia in nome di una “proporzione reale” che ricorda tanto l’uso della proporzionale etnica nazionale degli anni ’30. Nel decennio 1957-1968 la politica di rumenizzazione assume tutti i caratteri di politica nazional-nazionalistica. In campo scolastico ciò si riassume nella limitazione – fino all’annullamento – dell’esistenza di scuole ove l’insegnamento sia esclusivamente alloglotto; in campo economico, nella chiusura di fabbriche con maestranze miste, molte delle quali riaperte dopo pochi mesi con operai esclusivamente rumeni. Ma il culmine può essere rappresentato dalla scissione di due province facenti parte della RAM – quelle di Maros e Kovaszna – annesse ai territori viciniori, in modo tale da perdere tutti i diritti connessi allo “status” di appartenenza alla RAM. Come elementi esplicativi, invece, della politica governativa rumena degli anni ’70 nei confronti delle minoranze etniche, si possono citare alcuni metodi ed alcune date. La politica economica e industriale e la politica scolastica sono cardini essenziali per la rumenizzazione: anche negli anni ’30 questi furono i punti cardine dell’assimilazione, ma inconfutabilmente dopo mezzo secolo le tecniche si sono affinate. Gli insediamenti industriali in Transilvania sono caratterizzati da industrie meccaniche, accanto a quelle tessili e del legno, di più antico insediamento; ciò comporta l’utilizzazione di personale qualificato rumeno perché di norma i corsi di insegnamento tecnico tenuti in sezioni tedesche o ungheresi appartengono alle seconde specializzazioni. Un altro aspetto importante della rumenizzazione è l’intervento urbanistico: le caratteristiche sassoni delle città dei Siebenbürgen, quelle magiare degli insediamenti Székeler, vengono stravolte dalla nuove costruzioni. Se negli anni ’20 venivano distrutti monumenti e lapidi, ora è con l’inserimento forzato di elementi estranei in un contesto urbanistico ben caratterizzato che si tenta di disgregare una impronta lasciata da secoli di civiltà e cultura. Ma poiché gli uomini sono talora più resistenti del previsto, nella seconda metà degli anni ’70 la classe dirigente rumena dovette far ricorso a più drastiche misure per “agevolare” l’emigrazione interna verso le regioni rumene: l’obbligo della residenza nella località di lavoro stroncò le ultime resistenze di chi era disposto anche al pendolarismo pur di non far perire i contatti – seppur labili –  con la sua terra e la sua gente.

Della situazione attuale (generale e anche transilvana) si è già detto nella finestra in corsivo. Come conclusione a questo sommario di vicende transilvane alcune riflessioni si impongono. In sessanta anni l’atteggiamento dei governanti rumeni nei confronti dei popoli costretti nei confini statuali non è mutato: semmai lo sfruttamento e l’oppressione – divenuti più scientifici – rendono ancora più stridente l’immagine di autonomia con cui il regime di Bucarest si ammanta all’Ovest. Infine, non si può ragionare del nostro vecchio continente senza avere coscienza di vivere in un’Europa dimezzata. E se per noi, seppure con gravi limitazioni e difficoltà, parlare di popoli, etnie, nazioni, ha ancora un senso, vi sono luoghi ove questi concetti sembrano non esistere più, distrutti insieme alla storia che è anche la nostra storia, alla cultura che è anche la nostra cultura, agli uomini che sono (sempre meno) i nostri fratelli.

 

… e la “rumenizzazione” avanza.

L’immagine della Romania che più viene rappresentata all’Ovest non è certo quella di un paese multinazionale in cui un ’etnia dominante – quella rumena – in nome della conservazione del potere, assimila e distrugge le altre 19 nazionalità, grandi e piccole, che ebbero in dono da Yalta la malasorte di essere comprese negli stessi confini statuali dei “vincitori” rumeni; eppure questa è la situazione. Alcuni popoli in Romania esistono solo all’atto del censimento: la loro ridotta entità numerica ha consentito la soppressione – con semplici atti amministrativi, talora “invocati” dagli stessi interessati – dei minimi residui di autonomia esistenti. Basti qui citare le vicende del gruppo ungherese degli Czango (censiti come Rumeni: sono circa 100.000), o dei Tatari, le cui scuole sono chiuse da oltre 25 anni (insieme a quelle turche) “dietro loro richiesta”. Per altre nazioni il processo di rumenizzazione ha incontrato e incontra resistenze più o meno forti. La prima “minoranza” del paese è quella ungherese (due sono i gruppi etnici di origine magiara – gli Székely e gli Ungheresi –  ma identica è la condizione di sudditanza nei confronti dei Rumeni). I dati del censimento del 1977 mostrano un calo percentuale costante del gruppo etnico ungherese, anche se il tasso di incremento naturale delle regioni in cui essi rappresentano o la maggioranza (Hargita 88,1% nel 1966; Covasna 79,4% nel 1966) o una rilevante quota (Satu Mare 41,1 % nel 1966) è chiaramente superiore alla media nazionale (10,9;11,2;10,2 rispettivamente contro il 9,4 nazionale; dati relativi al 1978). Una stima più attendibile porta il numero degli Ungheresi sicuramente oltre i 2.000.000: appare d’altro canto evidente l’obiettivo anche statistico di minimizzarne il numero. Solo un confine, infatti, divide in due Stati un unico popolo, e i contatti, anche se difficili – o solo sperati –, alimentano in qualche modo la resistenza all’assimilazione. Gli Zingari nel censimento del 1977 appaiono – con un poderoso recupero – al terzo posto fra le “nazionalità coabitanti”. Una stima del 1975 li quantificava in almeno 660.000 e forse il dato di 1.000.000 di Zingari presenti attualmente in territorio rumeno non è molto distante dalla realtà, anche in considerazione del loro elevatissimo incremento demografico, avversato in ogni modo dalle autorità. Le discordanze statistiche possono essere in parte chiarite dall’osservazione che gli Zingari rappresentano una categoria di cittadini di secondo ordine. Molti, così, si dichiarano rumeni, sperando in condizioni di vita meno penose. La loro attività, la loro cultura, che nei secoli XVI e XVII venne talmente valorizzata da produrre – caso infrequente in Europa – insediamenti stabili di una certa rilevanza, viene scientificamente annientata. La mancanza di scuole determina anche l’impossibilità di ottenere una adeguata qualificazione professionale ed in pratica l’accesso al mondo del lavoro viene ad essere quasi totalmente loro precluso. Le attività artigianali, svolte per secoli, sono impedite dall’impiego forzato in occupazioni modeste in luoghi inospitali (ad esempio nella zona del delta del Danubio). Quando un lavoro viene trovato, le paghe non raggiungono il 60% di quelle dei lavoratori rumeni e, se viene acquisita una qualche forma di qualificazione, si può sempre essere inviati d’ufficio a lavorare i campi. Esistono poi le cosiddette “case per Zingari”, sorta di piccoli ghetti, causa e pretesto di retate e schedature speciali da parte della polizia (qualche anno addietro un giornalista francese ebbe un brutto ricordo della milizia rumena, che gli riservò il trattamento di solito riservato agli Zingari). Infine, anche le campagne di sterilizzazione più o meno volontaria sotto il pretesto di eliminare lo “sfruttamento delle provvidenze statali” da parte della famiglie zingare più prolifiche del dovuto non hanno fino ad ora impedito lo sviluppo e la resistenza all’assimilazione di questo popolo. Le popolazioni ebree si possono considerare due volte “minoranze”: sia perché ebree, sia perché ungheresi. In tale doppia, tragica veste subirono tutte le epurazioni e repressioni, indirizzate talvolta contro i “Semiti”, talvolta contro gli Ungheresi. Circa 400.000 verso la fine della guerra, ora il loro numero si dovrebbe aggirare intorno ai 40.000. Gli esodi verso Israele sono ormai quasi impossibili, ma la comunità ebraica di origine rumena che ha raggiunto la Terra Promessa contava nel 1978 oltre 350.000 membri (e a tale cifra dovrebbero essere aggiunti tutti coloro che scelsero altre destinazioni). L’eventuale rientro – statistico – nella comunità ebraica di elementi che avevano scelto l’appartenenza in sede di censimento al gruppo rumeno non è però in grado di frenare quel declino che rende la popolazione ebraica ultrasessantenne il 60% dell’intera comunità, con le conseguenze sulla sopravvivenza della stessa – anche a breve termine – facilmente pronosticabili. Ma la nazionalità più drammaticamente colpita è forse quella tedesca. L’esistenza poi di due insediamenti ben separati fra di loro (i Sassoni dei Siebenbürgen nella parte centro-orientale della Transilvania e i Suebi del Banato nella estrema zona occidentale del paese) rende più semplice ed efficace l’opera di assimilazione. I centri storici sassoni, che rappresentano i più importanti esempi di architettura gotica nei paesi dell’Est, rischiano in pochi anni (forse ancor prima della fine del secolo) di diventare vuoti musei di un passato da rimuovere. L’emigrazione verso la Repubblica Federate Tedesca ha assunto da un verso caratteri di vero e proprio esodo e dall’altro di crudele mercato per puntellare la disastrosa situazione economica dello Stato. Tralasciando (non perché non siano da ricordare, anzi!) le deportazioni e gli esodi degli anni ’50, con i 75.000 Sassoni deportali nei campi sovietici nell’immediato dopoguerra e i Suebi del Banato trasferiti nella regione di Baragan, e degli anni ’60, con i 15.000 emigrati solo nei primi nove mesi, negli ultimi 15 anni oltre un quarto dei Sassoni dei Siebenbürgen sono stati costretti ad emigrare (circa 5.000 ogni anno). E con toro è stato costretto a lasciare il paese circa il 50% del corpo pastorale (116 contro i 149 rimasti). È quest ’ultimo dato il più preoccupante, perché fa ritenere che, nel giro di 20-30 anni al massimo, le comunità sassoni saranno praticamente estinte, essendo decapitate della guida spirituale. Come ultimo dato – e qui proprio non servono commenti di sorta – voglio citare il prezzo pagato dalla Repubblica Federale Tedesca al governo rumeno per ogni Sassone emigrato: 8.000 DM (che vanno a sovvenzionare nuove forme di repressione, muri maestri dell’edificazione socialista).

 

Note

(1) G. Gromo, Compendio di lutto il regno posseduto dal re Giovanni Transilvano e di tutte le cose notabili di esso regno, cit. in C. Alzati, Terra romena, Jaca Book, Milano, 1982, p. 31.

(2) Cfr L. Cialdea (a cura di), La Transilvania, aspetti diplomatici e politici, ISPl, Milano, 1939,

p. 46.

(3) Ibidem, p. 50.

(4) Ibidem, p. 83.

(5) Ibidem, p. 83, nota 1.

(6) A. Fall, I diritti dell’Ungheria sulla Transilvania, Budapest, 1940, p. 39.

(7) L. Cialdea, op. cit., p. 86.

(8) Transilvanus (pseud), Le minoranze etniche della Transilvania Associazione Amicizia

Italo- Rumena, Bucarest, 1940, p. 24.

(9) Cfr. M. Berindei, Les minorités nationales en Roumanie, in “L’Alternative”, n. 3, p. 37.

(10) Ibidem, p. 38.

(11) Rapporto sul caso Transilvania, in Romania dietro la facciata, CSEO, 1982, p. 57