Pochi integralismi religiosi, in compenso molte proteste sociali

Il Senegal, Paese di cui si parla poco. Incastrato tra la Mauritania – dove da anni si assiste alla penetrazione dell’islamismo radicale attraverso flussi finanziari, palesi e occulti (in genere di origine saudita e di ispirazione salafita/wahhabita), a favore di organizzazioni “caritatevoli” – e il Mali, dove la caduta di Gheddafi ha consentito l’accesso a grandi quantitativi di armi provenienti dai depositi libici. Armi in parte contrabbandate dalle milizie dei tuareg che poi, costretti dalla necessità, li avrebbero venduti a quelle jihadiste.
Nonostante sia sunnita al 90%, il Senegal sembrerebbe, almeno per ora, relativamente immune al fanatismo jihadista, all’islamizzazione radicale che in varie forme e misura hanno contagiato i due Paesi confinanti.
Merito forse della diffusione, più che del cosiddetto “islam moderato” (espressione generica e di non facile interpretazione), di quello sufi e delle confraternite marabutiche. E anche con un “retrogusto” residuale che non guasta, quello di derivazione animista tradizionale.
In compenso non mancano conflitti di natura sociale.
Risalivano al 1 febbraio i disordini di Yarakh (periferia di Dakar) quando gruppi di giovani avevano innalzato barricate e incendiato pneumatici bloccando molte strade. Per poi scontrarsi – pietre contro granate lacrimogene – con la polizia accorsa in forze che aveva arrestato alcuni portavoce della popolazione.
Era partita dalla società civile di Yarakh la protesta contro il progetto di una stazione marittima privata che verrebbe a impedire l’accesso all’unica spiaggia pubblica rimasta a disposizione degli abitanti del quartiere. Dove giovani e famiglie si ritrovano per giocare a calcio o riposare.
Gli scontri erano ripresi dopo una decina di giorni, quando gruppi di manifestanti avevano nuovamente preso possesso delle strade bloccando la circolazione. Dopo l’intervento della gendarmeria, venivano arrestati alcuni giovani.
Invece il 30 gennaio erano stati gli studenti, organizzati nel coordinamento studentesco dell’Università Gaston Berger di Saint-Loiuis, a bloccare la Strada Nazionale 2 (sempre con l’inevitabile corredo di pietre contro granate).
Protestavano contro la situazione di precarietà in cui versano molti di loro. In particolare per l’aumento dei laureati (4mila in più) mentre resta inalterata la scarsità di infrastrutture in grado di accoglierli.
Uno studente, colpito da una granata lanciata in orizzontale, era rimasto ferito seriamente. Altri feriti, meno gravi, avevano preferito curarsi per conto loro.
All’inizio di gennaio erano stati altri studenti, provenienti dalla città meridionale di Ziguinchor e iscritti all’Università Cheikh Anta Diop, di Dakar, a scontrarsi con le forze dell’ordine. Rischiavano l’espulsione dai loro alloggi a causa del mancato rinnovo del contratto con l’amministrazione municipale.
Dopo aver interrotto le lezioni e bloccato di fatto l’università, avevano costruito rudimentali barricate in vari punti della città (in particolare sulla strada per Néma) per poi incendiarle. Nel corso dei disordini alcuni giovani venivano arrestati.
Il 23 gennaio toccava alla città di Mbour assistere a duri scontri, innescati dai trasportatori in sciopero, sulla Strada Nazionale 1. Bloccata la circolazione utilizzando grosse pietre, alcuni gruppi affrontavano la polizia, ma venivano dispersi dal nutrito lancio di lacrimogeni. Altri disordini scoppiavano con gli scioperanti radunati a Thiès, dove tre persone venivano arrestate. Qualche giorno prima, in situazioni analoghe, cinque manifestanti, accusati di aver costretto altri lavoratori a interrompere le attività, erano stati arrestati a Thiaroye.