L’enorme complessità di quella palude che è diventata la Siria contemporanea discende direttamente dal momento in cui il Paese riemerse dalle rovine dell’impero ottomano. Le sue svariate culture ed etnie coesistevano pacificamente sotto i sultani, ma le potenze europee che ereditarono il territorio dopo la prima guerra mondiale non avevano familiarità – né interesse a preservarla – con questa rara forma di pluralismo alla siriana.
Seguirono decenni di governo autocratico. Oggi, le fazioni in lotta che affollano il campo di battaglia siriano testimoniano il disfacimento di una società un tempo coesa, ma gli insegnamenti della Siria ottomana restano. Per il futuro, essi rappresentano la principale speranza per trasformare uno Stato fallito in una nazione nel contempo unita e diversificata.
Dopo secoli di dominio ottomano, la Siria emerse dalla prima guerra mondiale in una forma del tutto nuova. Sotto i turchi, questo territorio non era stato una singola entità, ma piuttosto una raccolta di “wilayat”, o province, che includeva anche pezzi dei moderni Libano e Israele. Neppure la popolazione era omogenea. Ciascun wilayat comprendeva una serie di etnie, comunità  culturali e strutture economiche. Dopo 400 anni di dominio ottomano, alcune particolarità del sistema politico erano ormai radicate. Nella Siria moderna anteriore alla guerra civile, le città erano sudddivise in quartieri culturalmente distinti: in uno si incontravano gli armeni, un’altra era popolata dagli assiri. Io in particolare ricordo i mercati curdi, con le venditrici vestite in abiti dai colori vivaci che esponevano la frutta e la verdura delle campagne.

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Jamal Pasha, il governatore ottomano della Siria, nelle vie di Damasco il 17 luglio 1917. Sotto la dominazione ottomana, la Siria non era che un mosaico di province culturalmente diverse. (Hulton Archive/Getty Images)

Di fatto, il sistema di governo che dominava la Siria ottomana rafforzava l’autonomia di queste differenti comunità etniche e religiose. Gli ottomani applicavano una politica pluralistica, destinata a tenere a bada le varie etnie e a soffocare l’ascesa di movimenti nazionalisti, in cui ebrei, cristiani e musulmani erano autorizzati ad affermare la propria identità e pertanto non avevano bisogno di gareggiare per il potere. Ciascuna comunità religiosa, nota come millet, aveva un proprio rappresentante a Istanbul e poteva organizzare i propri affari interni, tra cui l’istruzione popolare, servizi sociali, beneficenza e anche alcune norme di legge locali. Il millet regolava tutte le controversie interne, come matrimoni, divorzi, eredità, distribuzione e raccolta delle tasse. La Siria moderna mostra ancora residui di questo particolare sistema comunitario: per esempio, tutti sanno che se vuoi comprare argento devi andare nel quartiere armeno.
Dopo la prima guerra mondiale, tuttavia, le potenze europee risuddivisero i territori governati dall’Impero Ottomano sconfitto. A dire il vero, gli europei si infiltrarono gradualmente in Medio Oriente per anni, godendo delle agevolazioni fiscali e della sicurezza garantita dai contratti di capitolazione tra i loro governi e gli ottomani. Dopo la guerra, comunque, le potenze negoziarono linee di confine nette per delimitare le loro sfere di influenza nella regione. Il risultante accordo segreto – che prende il nome dai diplomatici inglese e francese che lo discussero, Mark Sykes e Francois Georges-Picot – venne firmato nella primavera del 1916. I confini disegnati dal Sykes-Picot non rispettavano la storia della regione né le preoccupazioni politiche dei gruppi al suo interno. Al contrario, l’accordo intendeva spartire il Medio Oriente tra inglesi e francesi. E proprio questa frantumazione sta alla base dei numerosi conflitti regionali del dopoguerra. La Francia era determinata a rimanere una potenza in Medio Oriente e, grazie al Mandato della Società delle Nazioni, finiva per controllare la Turchia sudorientale, l’Iraq settentrionale, la Siria e il Libano. La popolazione in quella che era stata la Grande Siria adesso si trovava artificiosamente divisa e a volte spostata.
Sotto il Mandato Francese, la vita siriana cambiò drammaticamente. L’autonomia goduta dai vari gruppi sotto gli ottomani diminuì drasticamente allorché i francesi centralizzarono il governo e limitarono l’attività politica e l’informazione. Inoltre, la Francia perseguì una politica del divide et impera sotto la quale alcune minoranze ottennero nuovi privilegi, mentre altre videro le loro libertà scomparire. I francesi favorirono certe minoranze, in particolare i cristiani maroniti, per proteggersi dalla maggioranza sunnita.
Sebbene la Siria abbia ottenuto l’indipendenza nel 1944, il nuovo governo adottò il sistema dittatoriale dei funzionari francesi che aveva soppiantato, emarginando minoranze come gli sciiti, i curdi, gli assiri, i drusi e gli armeni. L’invadente servizio segreto siriano, il Mukhabarat, entrò nella vita quotidiana di un popolo al quale l’indipendenza del Paese aveva portato scarso sollievo.

 

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I risultati dell’accordo Sykes-Picot del 1916.

Realtà moderne

Ora, dopo cinque anni di guerra civile siriana, alcune delle stesse dinamiche storiche sopravvivono nella regione. La Siria rimane un’arena in cui le potenze mondiali si scontrano per accrescere la propria influenza. Prima della guerra, il variegato patrimonio culturale siriano era motivo di grande orgoglio nazionale; oggi, la diversità è diventata una fonte di violenza. Quando la struttura politica della Siria si trasformò alla fine della guerra, questi gruppi si contesero il potere all’interno del nuovo sistema, che, al pari del precedente colonialismo francese, si caratterizzò per centralismo e oppressione. Ma esistono delle alternative. Il nuovo governo siriano potrebbe invece prendere spunto dai suoi predecessori e offrire l’autodeterminazione alle varie comunità attraverso l’autonomia e persino la separazione. Lo stesso presidente Bashar al Assad incarna alcuni aspetti del riguardo ottomano nei confronti delle minoranze. Sotto il suo governo, la divisione arbitraria dei gruppi etno-religiosi negli Stati attuali è stata bilanciata da un certo rispetto per le esigenze di queste comunità. Ho notato ciò in prima persona a Damasco, dove ho fatto amicizia con alcuni caschi blu dell’ONU che ogni estate scortavano gli studenti drusi dalla Siria in Israele e ritorno, così che potessero far visita alle loro famiglie oltreconfine. Anche alla piccola comunità ebraica rimasta in Siria era concesso di andare a trovare i parenti in Israele.
In futuro, una nuova Siria dovrebbe adottare lo stesso pragmatismo. I suoi leader dovranno accettare i gruppi etnici e religiosi presenti qui di gran lunga prima della creazione dello Stato moderno, le cui pretese sul territorio si fondano su un’eredità culturale che travalica qualsiasi altra considerazione giuridica. I confini formulati dall’accordo Sykes-Picot un secolo fa potrebbero aver esaurito la loro utilità, se mai c’è stata: riconsiderarli alla luce di realtà sociali e politiche più profonde, potrebbe rappresentare il primo passo mettere fine alla guerra in Siria.

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Traduzione a cura di “Etnie” dell’originale What Modern Syria Can Learn From the Ottomans, con l’autorizzazione di Stratfor.