È possibile che il nostro destino sia stato determinato dalle vicissitudini di un nome: Italia.
Vicissitudini casuali, ma che se non avessero avuto luogo avrebbero offerto meno opportunità propagandistiche al colonialismo risorgimentale e relativa discendenza. Per esempio, ci si chiede: perché Italia non ha lo stesso valore di Iberia o Scandinavia? Con questi termini s’intendono porzioni geografiche ben delimitate del continente, e nessuno si stupisce per la presenza al loro interno di etnie diverse e svariati stati sovrani.

Confusione millenaria

A voler essere onesti, neppure un’ottica cartografica giustificherebbe l’esistenza di una regione europea chiamata Italia, almeno come è attualmente concepita. La celebre frase di Metternich, l’Italia è un’espressione geografica, è palese da un punto di vista antropologico ma nel complesso scorretta: non si tratta infatti neppure di un’espressione geografica. Perché, di grazia, dovrebbe esserlo? Per la sua peninsularità? Ma l’area a nord della linea LaSpezia-Senigallia – cioè la Padania, il Veneto, eccetera – non si trova affatto in una penisola. Per il suo clima? Ma l’unica analogia climatica della Padania con l’Italia risiede in una fascia ligure profonda qualche chilometro (ben più mediterraneo è il sud della Francia, che con le sue latitudini maremmane e l’assenza di rilievi dona a un terzo dell’Esagono un clima che molti lombardi e piemontesi scambierebbero volentieri). L’unico dato reale è che noi siamo asserragliati dietro un imponente chiostra di montagne che sembra dividerci dal resto del mondo. Sembra agli strateghi e ai guerrafondai: per chiunque altro le Alpi non sono un muro bensì una regione popolata da un nugolo di etnie, che si intersecano alla faccia delle assurdità confinarie degli stati.
Dicevamo del nome Italia e delle sue peripezie. Il vocabolo deriverebbe dall’osco (una lingua protostorica peninsulare) Viteliu, terra dei vitelli, e inizialmente designa la punta della Calabria. Con l’organizzazione politico-territoriale dei romani, l’Italia conosce un progressivo ampliamento fino a raggiungere, in età augustea, un’estensione non dissimile dall’attuale. Ma più dell’evoluzione applicativa del termine, ci preme sottolinearne l’uso fondamentalmente confusionario e misto in tutte le epoche.
I romani stessi chiamavano Italia zone diverse a seconda che ragionassero in termini geografici (di ispirazione squisitamente militare), amministrativi o etnici. E solo nei primi due casi la strutturazione corrispondeva a quella moderna, essendo assodato per la capitale del mondo che a nord dell’Appennino abitavano i galli cisalpini e i veneti. Questa doppia o tripla visione è ben espressa da Giulio Cesare, il quale parla della Cisalpina come Italia nel De bello gallico, e come Gallia nel De bello civili.
Al tempo di Augusto, Vitruvio considerava l’Appennino tosco-emiliano il confine settentrionale dell’Italia, e così Properzio. Catone invece, raccontando dell’arrampicata alpina di Annibale, parla di ingresso in Italia. Lo stesso fa Eutropio (e qui siamo nel IV secolo a.C.) nel suo Breviarium; il quale però, alla descrizione del passaggio (“Pare che entrassero in Italia 80.000 fanti, 20.000 cavalieri e 37 elefanti”), aggiunge: “Quivi si unirono ad Annibale numerosi liguri e galli”.
Nelle sue storie. Appiano divide tra “italici, sanniti e celti”, e tratta i popoli cisalpini come estranei a quelli italici. Nel II secolo d.C., Tolemeo distingue tra “Celtia” come Gallia transalpina, “Gallia” come Gallia cisalpina, e “Italia”. Confortato in questo dall’aulica immagine di Marco Anneo Lucano: “Sgorga da una piccola sorgente e sviluppa il suo corso con acque scarse il rosso Rubicone, quando avvampa la cocente estate, e serpeggia più in fondo alla valle, stabile confine atto a separare i campi della Gallia da quelli dei coloni d’Ausonia”. La posizione del Rubicone, un po’ più a nord dello spartiacque tosco-emiliano, la dice lunga sull’ispirazione militare-difensiva di questo confine.

Un po’ di controstoria…

Comunque sia, nella mente di dozzine di autori classici il significato di Italia oscilla in modo acrobatico. Dopo il IV secolo il baluardo dell’italicità contro il barbaro diventa finalmente l’Appennino, ma qualche tempo dopo, fatto curioso, il termine comincia ad applicarsi di preferenza alle zone settentrionali. Questo è forse il momento critico per il futuro del nome (e nostro). I longobardi e gli altri popoli scesi da nord utilizzano la nomenclatura augustea. nel senso che ritengono di essere entrati in Italia; poi però si creano un confine più a sud e fanno sì che la loro Italia venga con quel nome isolata dalla penisola. Se ciò non fosse successo (è un’ipotesi), la fatidica parola si sarebbe definitivamente attestata ai più logici confini appenninici.
Anche così, l’allargamento allo spartiacque alpino si poteva mantenere a livelli di pura per quanto erronea geografia, analogamente ai già citati casi dell’Iberia e della Scandinavia. Ma la propaganda italiana vuole che dal medioevo all’ottocento il mondo abbia guardato a questa entità fisica come a un’unica nazione da Trepalle a Pantelleria, tristemente suddivisa in staterelli. Ciò non è vero. François Rabelais scriveva: “Presa l’Italia, ecco Napoli, Calabria, Apulia e Sicilia tutte a sacco, e Malta insieme”. Siamo in pieno Rinascimento e in piena confusione, con tutto che lo scrittore francese non ignora le specificità etniche del calderone Italia: “Nel fianco della Torre Artica fino alla Cryera stavano le librerie, belle e grandi, di autori greci, latini, ebrei, francesi, toscani e spagnoli, distribuiti nei diversi piani secondo la lingua”. E ancora: “L’acconciatura del capo andava secondo il tempo: d’inverno, alla francese; di primavera, alla spagnola; d’estate, alla tosca”.
Anche all’interno dei sacri confini – e alla faccia di tutti i sermoni di accademici e teleimbonitori sull’ispirazione etnolinguistica unitaria di Dante – c’era chi ben conosceva e apprezzava le differenze, come il padano Marsilio: “E ormai chiaro veggio e conosco che l’idioma fiorentino è sì rilimato e copioso che ogni astratta e profonda matera si puote chiarissimamente con esso dire, ragionarne e disputarne”. Quindi la lingua che noi chiamiamo italiano era considerata semplicemente il toscano; usata come ieri il francese nelle corti e come oggi l’inglese nei commerci, era comunque una lingua straniera per i popoli dalla linea gotica in su. E che le differenze etniche si risapessero è dimostrato da tonnellate di documenti. Ne citiamo solo uno, illustrissimo, dell’umanista fiorentino Coluccio Salutati (primi del ‘400). Questi, spronando i lombardi a cacciare Gian Galeazzo Visconti, scriveva: “Potreste, con la volontà di Dio, scrollarvi dal turpe giogo; potreste far rivivere la Gallia Cisalpina e la stirpe gloriosissima dei Galli, cui è proprio godere di libertà sovrana, odiare i tiranni, aborrire come orrenda qualsiasi servitù per quanto levissima”.
Ma ovviamente nei libri scolastici non si fa mai cenno di queste testimonianze.