Il riconoscimento del genocidio armeno da parte della Commissione esteri USA ha riacceso la disputa tra storici turchi e armeni e ha rilanciato sui media le diverse e contraddittorie interpretazioni degli avvenimenti dl 1915.
A livello istituzionale Ankara continua a negare, mentre l’ex repubblica sovietica ha ribadito che “riconoscere il genocidio armeno è un atto di giustizia storica”.

Il punto di vista turco

Per la Turchia “quella dl 1915 fu una vera tragedia, ma le vittime armene non sono state la conseguenza di un piano di sterminio”: si sarebbe trattato di “soffocare una sollevazione sul nostro territorio”. Al massimo, concede Ankara, per mano delle truppe ottomane sarebbero morti 300mila armeni e nelle stesse circostanze persero la vita anche migliaia di turchi.
Per gli storici turchi tutto avrebbe avuto inizio alla fine del XIX secolo. Sostenuti dalle grandi potenze dell’epoca che operavano per favorire lo smembramento dell’impero ottomano, migliaia di armeni cominciarono a rivendicare diritti nazionali e ben presto la ribellione assunse anche caratteri violenti. Nel 1915, mentre era in corso la prima guerra mondiale, alcuni gruppi armeni radicali collaborarono con l’esercito russo nell’est dell’Anatolia. L’impero ottomano reagì immediatamente e nel maggio del 1915 ebbe inizio l’espulsione degli armeni verso la Siria e l’attuale Iraq. Durante la deportazione centinaia di migliaia di armeni morirono, per fame, malattie, lavori forzati e veri e propri massacri. Tra l’altro, informate dai loro diplomatici, le principali capitali europee erano al corrente di quanto stava accadendo.
Alcuni storici turchi, come Omer Turan, sostengono che all’epoca in tutto l’impero ottomano gli armeni erano meno di un milione e mezzo e quindi sarebbe impossibile che ne siano morti altrettanti. Sempre Turan scrive che i morti turchi nello stesso periodo sarebbero stati circa tre milioni.
Un altro storico turco, Yusuf Halacoglu, direttore dell’Accademia di storia turca, minimizza ulteriormente, parlando di “56mila morti armeni documentati”.
Di recente – ufficialmente per porre fine alla controversia – il governo turco aveva proposto a quello armeno di istituire una commissione congiunta di storici ed esperti per investigare sugli archivi conservati da Ankara e da Erevàn. Per il momento l’Armenia si è detta non disponibile perché gli esperti verrebbero scelti dai due Stati interessati e quindi la commissione non risulterebbe indipendente.

Il punto di vista armeno

Secondo la storiografia ufficiale armena, l’impero ottomano avrebbe pianificato le deportazioni e l’eliminazione di centinaia di migliaia di armeni tra il 1915 e il 1917. Per Erevàn i morti sarebbero stati almeno un milione e mezzo. Il genocidio vero e proprio era stato preceduto dalla confisca di beni e proprietà. e da leggi discriminatorie contro la minoranza armena. Una “minoranza” (meglio: un “popolo minorizzato”) di circa due milioni di persone concentrata nelle zone orientali dell’Anatolia. L’aiuto fornito da alcuni resistenti armeni all’esercito russo avrebbe fornito il pretesto per l’accusa di “collaborazionismo” con l’impero zarista, entro le cui frontiere si trovava l’Armenia storica, il primo Stato che si dichiarò ufficialmente cristiano agli inizi del IV secolo.
Gli armeni vennero deportati in zone desertiche per morirvi di fame e stenti.
In seguito gli storici armeni colsero analogie sia con lo sterminio dei nativi americani operato dagli Stati uniti, sia con le politiche adottate da Stalin nei confronti della popolazione ucraina nel 1933. Oltre, ovviamente, ai metodi usati nelle colonie dai vari imperi: dal Congo belga all’Indocina, dall’Etiopia all’Irlanda.
In ogni caso, insieme a quello operato dai tedeschi in Namibia, il genocidio armeno fornirà un preciso modello ai nazisti che lo perfezionarono ulteriormente.
Al momento sarebbero venticinque i campi di concentramento già identificati. Molti furono i testimoni delle atrocità subite dal popolo armeno. Vennero documentate soprattutto da militari stranieri, come alcuni ingegneri tedeschi che stavano costruendo una linea ferroviaria per unire Berlino al Medio Oriente. Anche molti soldati russi riferirono di aver incontrato migliaia di corpi di civili armeni durante l’avanzata del loro esercito.
In sostegno agli armeni intervennero papa benedetto XV e Churchill, che parlò di un “olocausto amministrativo”. Theodore Roosevelt, poco prima della morte, aveva definito questo sterminio come “il peggior crimine della guerra”.
Il riconoscimento del genocidio è stato approvato (con 27 “sì” contro 21) il 10 ottobre 2007 quando la Commissione Esteri degli Stati uniti ha votato una mozione del deputato democratico Adam B. Schiff (nel cui distretto di Los Angeles vivono più di 70mila persone di origine armena).
George Bush aveva cercato – invano – di impedire la votazione della mozione, appoggiato in questo da otto ex segretari di Stato, tra cui Henry Kissinger e Colin Powell. Sulla stessa linea il segretario di Stato Condoleeza Rice e il ministro della Difesa Robert Gates, che temevano un “passo destabilizzante” per l’accesso statunitense alle basi aeree – in particolare Incirlik – e alle strade turche, fondamentali per l’appoggio logistico alle truppe impegnate in Iraq.
Perfino il “Washington Post” aveva parlato di “una mozione pericolosa e irresponsabile”.
Egemen Bagis, il vice del presidente turco Tayyip Erdogan, era volato negli USA per sventare la votazione della mozione che ha definito “un insulto per la Turchia”.
Ha poi minacciato che “per gli Stati Uniti potrebbe comportare la perdita del nostro supporto nella regione”. Abdullah Gul, nuovo capo dello Stato turco, ha parlato di “una decisione inaccettabile”, aggiungendo che “non ha valore per il nostro popolo”.
Per disinnescare la crisi, Condoleeza Rice ha inviato ad Ankara i sottosegretari alla Difesa e al Dipartimento di Stato. Ha poi chiesto alla Turchia di “avere i nervi saldi e di non invadere il Nord Iraq in operazioni contro i curdi”.
Da tempo, infatti, Ankara progetta di attaccare in maniera massiccia le basi del PKK, il Partito dei lavoratori curdi, guerriglieri che agiscono in Turchia e si rifugiano nel Kurdistan “iracheno”.
In realtà i militari turchi sarebbero già presenti in territorio iracheno, ma un’invasione di “lunga durata” con carri armati e, si calcola, almeno trentamila soldati, avrebbe effetti devastanti sugli equilibri regionali. Nel frattempo proseguono i raid aerei e i bombardamenti di villaggi curdi.