Nell’isola del lago Titicaca, dove l’uomo e la natura vivono in una mirabile armonia, che investe la dimensione individuale e quella sociale, il turismo di massa ha cominciato a distruggere un mondo incontaminato e irripetibile.

Puno è avvolta in una luce bianca. Il sole sta per sorgere. Salgo in barca. Il motore non vuole accendersi e il barcaiolo gli molla una sonora pedata. Arrivano di corsa due olandesi con il sacco da montagna e saltano a bordo. Nell’acqua bassa si cullano le barche di giunco, per secoli e millenni le stesse. Gridi rauchi di uccelli ritmano i movimenti dei pescatori. Fino al 1977 queste barche di giunco erano l’unico mezzo di trasporto fra la terraferma e l’isola. Due giorni di viaggio con i remi e le vele, anche queste di giunco, portavano gli abitanti al grande mercato di Puno. Ora, dopo quattro ore di traversata, Taquile, isola senza alberi, si erge davanti a noi. Nella ripida scogliera si apre un’insenatura. Il barcaiolo zittisce il motore. Un silenzio arcano ci accoglie. Unico rumore lo sciabordio delle onde sulla riva. Un ripido sentiero con scalini di pietra sale verso la sommità dell’isola. Contro il cielo azzurro si stagliano alcune figure che attendono la barca e le novità. Da questa parte l’isola non è abitata, il paese si trova oltre la cima dove l’isola digrada verso il lago. A ricordo d’uomo la vita di Taquile è retta da un sistema comunitario al quale deve assoggettarsi anche il turista. A me viene assegnata la casa 226, di proprietà della famiglia Huata, la stessa che mi aveva ospitato due anni prima. Le case per gli ospiti sono state costruite a Taquile negli ultimi anni e poco si differenziano da quelle degli Indios. Non ci sono alberghi. Fino ad oggi la comunità si è espressa contro: il denaro dei turisti non deve entrare nelle tasche di una famiglia sola.

A Taquile

La capanna di argilla, che mi ospiterà per le prossime due settimane, si trova su una terrazza alta, non lontana dal centro e vicino al lago, la mia unica possibilità di lavarmi nei prossimi giorni. L’anziano della famiglia mi consegna una chiave di legno intagliata. È lo stesso di due anni fa o forse no? Non riesco a capire se mi riconosce. Anche il rituale e la frase della consegna sono gli stessi. “La chiave non è contro i ladri, ma contro le pecore curiose”. Ladri, cani, corrente elettrica e, naturalmente, macchine non se ne vedono sull’isola. Nel cortile interno, fra i vasi di coccio e un mucchio di pesci messi ad essiccare, sta accucciata una vecchia che fa girare il fuso. La saluto con un “Buenas dias” e non riesco ad attirare la sua attenzione. “Uali puntscho, uarme” – le dico in antica lingua quechua. Mi guarda fra il curioso e l’impaurito. Il gruppo abitativo della famiglia è formato da quattro o cinque case ad un piano che racchiudono il cortile interno. L’accesso è dalla parte del cortile. Verso l’esterno non ci sono né aperture né finestre. La porta che conduce all’abitacolo è stretta e bassa. Dentro nessuna suppellettile o arredo. Solo la stuoia per dormire. Nella casa che mi è stata destinata c’è ora un tavolo di pietra ed una panca. Una novità dal mio ultimo soggiorno. Sulla parete di fango sono appese cartoline di New York e Parigi. Forse ricordi di ospiti precedenti. Per il resto tutto immutato. Penso di aver avuto fortuna, perché il tetto della mia casa è ancora di paglia. Molti Taquileni hanno già cambiato il loro tetto tradizionale in un’orribile copertura in lamiera ondulata che farà cuocere durante il giorno e tremare durante la notte. Dispongo le mie cose, osservato da un bambino. La volta precedente avevo notato curiosità e diffidenza. Ora il bambino mi rivolge la parola in un inglese stentato e mi chiede frutta o un regalo. Appena tramonta il sole viene il buio. Gli altri appartenenti alla famiglia tornano dal lavoro dei campi. Le donne portano sulle spalle dei fasci di sterpi per il fuoco e erbe per le pecore. La vecchia ha già acceso il fuoco. Nel fornello di terracotta arrostisce avena e cuoce una delle molte specie di patate. La stanza si riempie di fumo – non c’è camino e non ci sono finestre. Il silenzio è quieto, riposante. L’anziano della famiglia manda una donna nel buio a raccogliere un po’ di menta per farmi un té. Mi curerà dai cattivi sogni e dal freddo della notte.

Mattina sull’isola

I miei ospiti sono già al lavoro nei campi. Lontani. Una brezza leggera sale dal lago color cobalto. Di fronte a me, al di là del lago, nella luce di cristallo del mattino si ergono le montagne innevate della Bolivia. Un silenzio verde, interpuntato da volumi puri, ombre di rocce e i piani cromatici delle terrazze coltivate e poi cespugli di mirti, lentischio, menta. Gli unici suoni sono i gridi degli uccelli e, lontano, il belare di una pecora. Da quando conosco l’isola, mi pare che il lavoro dei campi sia rimasto immutato. Qui, a quattromila metri di altezza, nonostante la scarsità delle piogge, il grano cresce bene. Gli attrezzi sono ancora quelli antichi: la vanga e la zappa raffigurate nelle immagini del periodo dei Conquistadores. Quest’anno il periodo delle piogge, che va da novembre a febbraio, è stato buono e il grano ed il mais sono già alti. Le previsioni del raccolto sono rassicuranti, ma con la campagna non si può mai dire. Una ragazza ed una vecchia sono al telaio. Tessono le stoffe dei loro vestiti e le cinture tradizionali dell’abito degli uomini. Si ripetono i disegni che sono i simboli degli elementi dei quali i Taquileni si nutrono: le patate, i grani, la juca, il mais, il miglio e la quinua. Per le proteine ci sono i pesci del lago. Le pecore servono principalmente per la lana. Qui a Taquile, sono gli uomini che fanno la maglia. Lavorano senza sosta ai loro berretti a punta, quando ristanno e quando camminano per raggiungere i campi, o quando, persi nel silenzio, contemplano la superficie del lago. Il modello è quello tradizionale, i disegni si ripetono dai tempi delle prime civiltà: il lama, il dio sole, i simboli dei cibi. La parte terminale del berretto non ha disegni. È bianca e lunga fino a ricadere su una spalla. La racchiude una nappa o un nodo. Dentro vi si conserva la coca.

Perdo la nozione del tempo

Ormai questo mondo sembra diventato il mio. Godo di una pace unica, assoluta, dove natura ed uomo vivono in un equilibrio reciproco che è dimensione sociale e misura delle cose. Sulla sommità dell’isola dove mi piace rifugiarmi al tramonto si ergono delle rovine dei tempi incaici. Lontano si staglia austera la Cordigliera Bianca e quella Oriental. In cielo rotolano nubi gigantesche, gravide di pioggia che il vento spazza via lasciando brani di sereno. Una ragazzina, scalza come tutte le donne dell’isola, salta come una gazzella di sasso in sasso. Un campesino torna verso casa con l’aratro di legno sulla spalla. Il sole tramonta dietro una linea di orizzonte che è alta seimila metri. Sorge una luna rossa da oriente. Una donna siede su una roccia che sorge nel vuoto, verso il lago: immobile lo sguardo ed il corpo. Di vita propria sembra muoversi la mano che fa girare il fuso. Mi stringo nel poncho e mi avvio per il sentiero incavato protetto da alti muri. Dopo il tramonto il sonno avvolge l’isola. Solo in una casa del centro, una specie di locanda, si vede la luce delle candele. C’è odore di “tortillas” fresche. Cinque “gringos”, come tutti gli stranieri vengono chiamati in America latina, stanno discutendo ad un tavolo. Urlano con le loro voci straniere nella calma e nel silenzio dell’isola. Parlano di denaro, di droga, di donne. Sono di quelli che rimangono a Taquile solo un giorno e una notte, secondo il programma di un’agenzia di viaggi che offre a buon prezzo “L’ultimo paradiso”. Ogni giorno facce nuove, gli stessi atteggiamenti . Sono i messaggeri dei paesi industrializzati di tutti i continenti. Solo io e gli Olandesi rimaniamo fedeli all’isola per due settimane. Ci salutiamo con un cenno del capo, come vecchi amici, non ci vogliamo confondere con i turisti. Nelle nostre lunghe passeggiate sull’isola parliamo dei Taquileni e della loro situazione, fantastichiamo sulla loro storia. Gruppi di donne accucciate al sole lavorano al telaio. Per fare una “fascha”, la cintura dell’abito degli uomini, ci vuole un mese di continuo lavoro. I turisti la comperano per il prezzo ridicolo di 4.500 lire. Le gonne delle donne sono nere con disegni rossi e gialli. I grandi scialli proteggono dal sole e dagli sguardi troppo curiosi. Osservo divertita che gli abiti dei Taquileni non hanno bottoni.

Il campo di calcio

Una mattina mi sveglio all’alba. Incombe uno strano silenzio. Niente bambini che spingono al pascolo le capre, nessuna donna al telaio, nessun uomo che cammina facendo la maglia. Molto lontano sento dei battiti di tamburo, forse il suono di una festa e il suo eco portato dal vento. Seguo il suono e mi appare uno spettacolo strano. Buona parte dei 1.300 abitanti dell’isola si trova radunata in silenzio in un luogo dove gli uomini scavano una collina e le donne ed i bambini portano la terra per formare un vasto terrapieno, recintato da un gigantesco muro. Tutto procede con ordine ed in silenzio. Quando un gruppo di lavoratori è stanco, viene sostituito da un altro. Al cambio rullano i tamburi. Durante la pausa del pranzo, uno della famiglia Huata che mi ospita mi racconta che stanno costruendo un campo di calcio. Ogni abitante dell’isola presta la sua opera gratis per questo lavoro. Così è stato per la scuola, per la casa della comunità e per gli innumerevoli campi a terrazza che coprono l’isola. Della costruzione della chiesa nessuno si ricorda. Sul tetto di pietra crescono ormai le erbe e i cespugli. Prete non ce n’é a Taquile. Per le grandi funzioni religiose si va a Puno. “Qui facciamo tutto da noi” mi dice Julio Huata. Le preghiere e le offerte per “mama Patscha”, la grande Madre Terra, come per il Sole o la Luna, vengono celebrate dalla comunità vicino alle rovine del tempo degli Incas, sulla sommità dell’isola. L’ultima luna d’ottobre si è pregato per la pioggia e la pioggia è venuta. La salma di un Taquileno viene avvolta in panni colorati. Suoni di flauto e di tamburelli e fumo di erbe aromatiche lo accompagnano fino alla sua casa. Qui, sotto il pavimento, in compagnia dei suoi vivi, verrà sepolto nella notte con un rito che riguarda la sola famiglia. Poi ci saranno balli e canti. La festa per il morto durerà fino a mattina.

Il maestro Rodriguez

Come in tutte le parti del mondo, finite le lezioni, i bambini sciamano nel cortile. Il maestro Jorge Rodriguez, che da ben 18 anni insegna ai bambini di Taquile a leggere e a scrivere, mi accoglie davanti alla scuola. “È uno scandalo – dice -: tutto lo sporco denaro dei turisti sta rovinando Taquile. La metà dei tetti di paglia sono stati sostituiti. Macchine elettriche e fibre sintetiche rovinano l’artigianato. Il sistema comunitario si va sfaldando perché gli Indios credono che attraverso la vendita privata si arrivi prima a far soldi. I turisti hanno portato malattie che prima non si conoscevano. Anche i prodotti agricoli non bastano più al fabbisogno dell’isola. Ogni uovo che le galline fanno viene venduto ai turisti. Il consumo della coca e dell’alcool è aumentato a dismisura. È chiaro – gli Indios non hanno ancora imparato ad usare il denaro che fino a otto anni fa non conoscevano. Comperano inutili orologi digitali, radioline gracchianti, sostituiscono gli oggetti di terracotta con quelli di plastica. Nessuno più pensa ad aggiustare le reti per la pesca, si spreca l’acqua e le colture vengono abbandonate. A scuola si parla degli antichi Indios e dell’importanza della nostra cultura. Parole gettate al vento. Appena fuori da scuola, i bambini si vendono i vestiti togliendoseli letteralmente di dosso”. Cerco di consolare Rodriguez dicendogli che Taquile è comunque ancora un’isola culturale, nel vero senso della parola. “Già – mi risponde -, l’ultima isola del Perù che sta per essere inghiottita dalla civiltà della plastica”.