Africa e litio, da adesso in poi tutta un’altra storia

Se ne era già parlato, seppur come progetto non ancora operativo. Ma adesso viene anche la conferma ufficiale: lo Zimbabwe non intende più esportare il litio allo stato grezzo, ma cercherà se possibile di lavorarselo in proprio.
Riepiloghiamo.
L’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, è tra i Paesi africani maggiormente dotati di vaste riserve di lithium (il terzo, pare). Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo “oro bianco” – il cui prezzo in soli dieci anni è cresciuto del 1100% – ha da tempo scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora in Zimbabwe aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali, “artigianali”. Sui quali vanno calando le pesanti restrizioni imposte dal ministero delle miniere e dello sviluppo. In pratica non si potrà più esportare il materiale grezzo; quello estratto, spesso illegalmente e fortunosamente, da terreni e da miniere abbandonate non necessariamente di proprietà dei minatori artigianali.
Una restrizione che non colpirà le miniere di livello industriale, in quanto queste potranno (e presumibilmente dovranno) esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione (tra le operative quella di Bikita).
In pratica il governo di Harare è intenzionato a promuovere aziende locali per la trasformazione in loco del minerale, utilizzabile direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale appunto al novembre 2022 l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio.
Una vera “rivoluzione del mercato interno”, un cambio epocale per l’economia del Paese, anche nella prospettiva della creazione di posti di lavoro.
Finora il materiale grezzo finiva in genere nelle mani di compagnie straniere (cinesi, ma non solo). Le perdite per le casse dello Stato, stando alle stime del ministero, si aggirano attorno ai due miliardi di euro. Anche per il consistente contrabbando (ancora in buona parte per opera dei minatori artigianali) verso il Sudafrica e gli Emirati Arabi.
Qualcosa del genere, il tentativo di svincolarsi dalle multinazionali, potrebbe accadere in Namibia. Il Paese africano infatti ha interrotto le esplorazioni di uranio affidate da circa tre anni a One Uranium, legata all’agenzia russa Rosatom. Anche per la mancanza di garanzie in materia di rischi ambientali (in particolare l’inquinamento delle falde acquifere).