Negli ultimi anni, dopo la crisi di al Qaeda, il terrorismo islamico internazionale ha avuto un momento di stagnazione, anche se continuava a vivere in diverse regioni del pianeta in piccole cellule, variamente organizzate o collegate tra loro, e disseminate nell’immenso “arcipelago islamico”. Di recente è riesploso, quasi in maniera inaspettata, rivendicando ancora una volta la sua pretesa di unificare il vero islam, cioè quello di osservanza sunnita, sotto il profilo sia dottrinale-religioso, sia politico.
Lo ha fatto concretizzando un antico sogno dell’integralismo islamico del Novecento, cioè costituendo un sedicente “califfato” in una delle regioni più calde del mondo mediorientale, nella zona centrale dell’Iraq (controllata dai sunniti) dove da anni non esiste un vero potere statuale, e in una parte della Siria occupata dai ribelli jihadisti contrari al presidente Assad.

Al Qaeda e il nuovo “califfo”

Il nuovo califfato è stato creato da un personaggio poco noto anche negli ambienti dell ‘intelligence internazionale, il capo jihadista Abu Barkr al Baghdadi, il quale si è autoproclamato “califfo” (che significa “vicario” o “successore” del Profeta), utilizzando, secondo lo stile qaedista, i moderni strumenti di comunicazione di massa.
Il “califfato” non evoca soltanto l’epoca d’oro dell’islam – cioè il periodo dei cosiddetti “quattro califfi ben guidati”, immediati successori di Maometto, come pure il regno califfale degli Omayyadi di Damasco (661-750), e quello degli Abbasidi di Baghdad (7501258) – ma rappresenta soprattutto l’unità della comunità musulmana (umma) e il suo privilegio di essere stata scelta da Dio a guidare l’umanità. Si tratta di un mito politico-religioso di cui tale istituzione rappresenta la realizzazione simbolica.
Nel Corano, il termine “califfo” ricorre soltanto due volte: una volta in riferimento ad Adamo (Q. 2:30), e un’altra in riferimento al profeta Davide (Q. 38:26). In entrambi i casi il termine è usato con un significato esclusivamente religioso (indicando i due patriarchi come “vicari” di Dio sulla terra) e non politico .
Secondo gli studiosi del diritto islamico e secondo la grande maggioranza dei leader religiosi musulmani (concordemente, sia sunniti sia sciiti), la pretesa califfale di al Baghdadi risulta infondata sotto diversi punti di vista. Secondo la dottrina sunnita classica, il califfo deve avere queste qualità: l) essere maschio, libero, pubere, sano di corpo e di mente; 2) essere qurayshita, cioè appartenente alla tribù del Profeta; 3) essere dotto nelle scienze religiose (deve essere cioè un ulema); 4) essere un buon condottiero; 5) essere eletto per libera scelta della comunità, dagli ulema, che ne sono i legittimi rappresentanti.
Ora il pretendente capo jihadista non è né un qurayshita né un ulema, e neppure è stato eletto dalla comunità dei credenti, “ma soprattutto – scrive Massimo Campanini – il suo obiettivo non è il ricompattamento universalistico della umma, bensì la sua lacerazione settaria”. I moderni jihadisti, infatti, aspirano a scatenare nella comunità una fitna, ossia un dissenso, una discordia tra i credenti, che consenta loro di “far piazza pulita dei loro nemici” sia interni (come i musulmani ritenuti eretici: ad esempio, gli sciiti e gli altri “settari”), sia esterni (come i cristiani e gli ebrei, che l’islam classico ritiene meritevoli di protezione e tolleranza) e di imporre infine la loro visione integralista dell’islam.
In questa sede ci sembra opportuno fermare l’attenzione soltanto su due aspetti fondamentali del sedicente califfato, cioè quello della tattica propagandistica e militare adottata dal nuovo movimento jihadista e quello della cosiddetta “spettacolarizzazione dell’esecuzione capitale [per sgozzamento o decapitazione] del nemico-messaggero”.
Va innanzitutto sottolineato che i jihadisti del califfato non appartengono – almeno direttamente – alla rete verticistica di al Qaeda, che dopo la morte di Bin Laden si è andata di molto riducendo, entrando in una sorta di inquietante letargo; sebbene il suo nuovo capo, l’egiziano Al-Zawahiri, in un video diffuso nei primi giorni di settembre 2014 dai media, abbia annunciato la prossima costituzione di un “califfato” nello Al Hind, cioè, in termini moderni, nella regione fra l’india e il Bangladesh, dove vivono circa 300 milioni di musulmani sunniti.
In questo modo egli intendeva fare concorrenza al califfato siro-iracheno di al Baghdadi, sebbene nel suo messaggio cercasse in tutti i modi di promuovere una collaborazione tra i due movimenti integralisti: “Questo nuovo gruppo – egli ha detto – si fa portabandiera del messaggio globale dello sceicco Osama Bin Laden, che mirava a unire Yumma […] nella jihad globale contro il nemico, a liberare i territori occupati, a instaurare il califfato”. Questo invito non è stato accolto dai destinatari, i quali, dal canto loro, hanno il vantaggio di essere “installati” in un territorio ben preciso, di avere istituito uno Stato islamico e di aspirare perciò alla guida universale dei veri credenti.

alBaghdadi
Abu Bakr al Baghdadi, proclamato nel giugno 2014 califfo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.
Va anche notato che, in generale, il sistema introdotto da al Qaeda negli anni Novanta, fortemente centralizzato dal punto di vista sia ideologico sia dell’azione terroristica, è oggi completamente superato. I principali gruppi attivi non sono più interconnessi tra loro e non giurano obbedienza a un comando centrale o a un singolo leader carismatico. L’“arcipelago” islamista oggi è diversamente dislocato e parcellizzato: Boko Haram in Nigeria, i talebani in Pakistan e Afghanistan, il Movimento islamico in Uzbekistan, i gruppi radicali che agiscono in ordine sparso in Libia e in Egitto, e i cosiddetti “lupi solitari” nei Paesi occidentali sono tutti attivi indipendentemente l’uno dall’altro (sebbene a volte collegati, ma non gerarchicamente) e compiono la loro azione senza rendere conto a un organismo centrale.
Mentre al Qaeda preferiva colpire il “nemico lontano”, al fine di destabilizzare l’ordine politico internazionale e di cercare adesioni nel mondo dell’islamismo radicale, i nuovi jihadisti, come i guerriglieri islamisti degli anni Settanta e Ottanta, intendono “colpire i vicini”, cioè l’esercito in campo a Damasco, a Baghdad, a Kabul, a Lagos, eccetera. Laddove Bin Laden evitava o cercava di impedire la violenza settaria, i nuovi militanti considerano la lotta agli “eretici della sharia” altrettanto necessaria e valida quanto la lotta ai “sionisti e ai crociati”. Lo sceicco saudita inoltre aveva perseguito una strategia finalizzata alla radicalizzazione e alla mobilitazione di tutti i musulmani tramite una campagna di violenza plateale – ridando, diceva, dignità ai deboli e ai disarmati contro i forti e arroganti occidentali – che faceva grande affidamento sui media, riducendo al minimo le azioni di guerriglia che penalizzavano le milizie islamiste a vantaggio dei nemici, quasi sempre militarmente più forti.
I capi del nuovo Islamic State (Isis) preferiscono, al contrario di al Qaeda, “mettere in sicurezza il territorio” e lanciare operazioni militari semi-convenzionali contro nemici molto motivati – i curdi, in particolare – armati dai Paesi occidentali e arabi che, come ha dichiarato Obama, intendono in tutti i modi “distruggere” il sedicente califfato. Insomma, questi jihadisti, anche se riprendono, attualizzandole, tattiche militari e di propaganda già sperimentate nel passato, costituiscono una forza militare di avanguardia, finanziata da alcuni Paesi del mondo arabo, composta da decine di migliaia di combattenti, che aumentano di continuo (alcune migliaia vengono dai Paesi occidentali) e sì organizzano in strutture militari ben impiantate nel territorio.
I suoi membri provengono da decine di Paesi in cui la transizione democratica, messa in opera dalle cosiddette “primavere arabe”, è fallita o è andata incontro a uno stallo politico e sociale, in cui le élites (spesso militari) al governo privilegiano la stabilità politica ed economica del regime rispetto alle promesse di libertà e di democrazia mai attuate nella misura auspicata.
Non va inoltre dimenticato che l’Isis, sotto il profilo sociale, secondo Shadi Hamid, “ha migliorato l’operato dell’amministrazione locale, l’esercizio della ‘giustizia’ nei tribunali della sharia, l’erogazione di servizi basilari come acqua potabile ed elettricità, e la distribuzione dei fondi zakat per i servizi sociali”. Questo ha guadagnato all’Isis l’appoggio di parte della popolazione locale, anche se la maggioranza non ne condivide l’interpretazione integralista della legge coranica.

La pratica dell’uccisione del messaggero

Uno degli aspetti più caratteristici del presunto califfato consiste certamente nell’efferata pratica della cosiddetta “uccisione del messaggero”, che ci rimanda a rituali espiatori-sacrificali antichi, tipici di società violente e irrispettose dalla vita delle persone. Uccidere il messaggero era un metodo utilizzato nelle società pre-moderne da alcuni despoti per sfogare la loro frustrazione e la loro ira in caso di insuccesso politico o militare: era segno di barbarie e di slealtà, che non faceva onore a chi lo praticava. Oggi è messo in opera, in modo spettacolare e con una ritualità propria, dai jihadisti dell’Isis per inviare un messaggio ai nemici “lontani”, cioè agli infedeli e corrotti occidentali.
La pratica dell’uccisione ha una macabra ritualità: il “messaggero”, che di solito è un giornalista o un operatore umanitario, è vestito della tuta arancione dei prigionieri di Guantànamo, recita una breve dichiarazione di accusa indirizzata al suo governo; a fianco, in piedi, c’è il suo aguzzino, interamente vestito di nero, incappucciato (con soltanto gli occhi e le mani scoperti) e armato di un affilato coltello. L’esecuzione consiste nello sgozzamento e nella decapitazione dell’ostaggio. Alla pratica martiriale del “suicidio” per incrementare la causa di Dio, comune nell’ambiente islamico sunnita degli anni Novanta, si va sostituendo l’“omicidio” rituale dell’ostaggio (generalmente non colpevole di atti di guerra o di aggressione), al fine di impaurire e di indebolire il nemico.
Ora, quando Bin Laden intendeva inviare un messaggio, convocava un giornalista occidentale o una rete televisiva, e a volte – prima dell’11 settembre 2011 – faceva addirittura organizzare conferenze stampa. Tutto questo era considerato dai governi e dall’opinione pubblica altamente affidabile, perché gestito da professionisti della comunicazione. Ma quando Abu Bakr al Baghdadi vuole mandare un messaggio ai nemici, lo fa decapitando uno dei suoi “ostaggi-messaggeri” e inviando il video dell’esecuzione alle molteplici piattaforme dei social media. I giornalisti e gli operatori umanitari sono, per i capi del sedicente califfato, soltanto degli intrusi, delle spie da imprigionare, torturare e uccidere; in ogni caso, però, utili per attirare l’attenzione dei governi occidentali e anche per reclutare nuovi militanti sparsi per il mondo.
Recentemente l’Isis ha utilizzato un ostaggio britannico nel ruolo di corrispondente di guerra dalla città siriana di Kobane, per comunicare al mondo la presunta caduta di questa città nelle mani degli islamisti nonostante i raid aerei statunitensi, a riprova della capacità dei militanti di controllare il territorio con armi di ultima generazione. Tutto questo è stato fatto utilizzando le sperimentate tecniche dei notiziari televisivi occidentali: “Salve”, ha detto l’ostaggio vestito di nero come i militanti dell’organizzazione, “sono John Cantlie. Ci troviamo nella città di Kobane, al confine tra Siria e Turchia”. In quegli stessi giorni l’Fbi segnalava che l’Isis aveva identificato giornalisti e operatori del mondo dell’informazione quali “obiettivi legittimi di rappresaglia”, come risposta ai raid aerei statunitensi. Uno dei maggiori rischi in questo momento è che la guerra al sedicente califfato avvenga al buio, con informazioni incerte, deviate o false, affidata soltanto alla propaganda e strumentalizzata dalla paura e dalla minaccia.
Ciò rappresenta un vulnus molto grave alla libertà di comunicazione e di informazione, e per un mondo globalizzato come il nostro non è poca cosa. “Nessun giornalista in futuro”, commenta Ahmed Rashid, “potrà incontrare faccia a faccia al Baghdadi, o visitare i suoi accampamenti, o chiedere come governa il suo califfato. La cosa che mi fa più paura di tutte in questo momento è che sostenitori dell’Isis in tutto il mondo, e di sicuro in Medio Oriente, possano mettersi a rapire giornalisti e consegnarli ad al Baghdadi, che li giustiziera ogni volta che avrà bisogno di inviare un altro messaggio a qualcuno”.
In ogni caso, nonostante l’Is si sia saldamente radicato nel territorio occupato e continui a combattere per estenderlo sempre più, il califfato siro-iracheno ha già perduto una importante battaglia, quella cioè per conquistarsi la fiducia e la simpatia (anche soltanto in parte) del mondo sunnita. Finora nessuno dei Paesi musulmani – neppure quelli islamisti – ha riconosciuto l’Isis come entità statale autonoma, e tutti i più eminenti leader religiosi musulmani, tra cui il rettore della prestigiosa università del Cairo Al Azhar, diversi Gran Muftì di importanti Paesi musulmani e numerosi ulema di ogni parte del mondo hanno disconosciuto le pretese di al Baghdadi alla guida del califfato, ritenendole false, pretestuose e non fondate sui testi sacri. Essi inoltre hanno condannato l’uccisione di civili inermi (cristiani e musulmani), la deportazione delle minoranze religiose da secoli presenti nel territorio, come pure le decapitazioni mediatiche degli ostaggi, denunciandole come contrarie all’islam, che è religione di pace.
Da più parti, in questi mesi, è stato detto che la guerra contro l’intolleranza del presunto califfato la si vince non soltanto con le armi (su questo versante si è costituita una coalizione di Stati, molti dei quali musulmani, che intendono combattere in tutti i modi l’Isis), ma anche attraverso la diplomazia, la buona politica, gli interventi umanitari e, soprattutto, la forza dell’opinione pubblica e la denuncia della violenza. Questa battaglia va combattuta insieme da cristiani, musulmani ed ebrei, partendo ognuno dalle proprie posizioni (anche diverse), ma riaffermando la centralità di alcuni valori importanti comuni, riguardanti in particolare la dignità della persona umana, sui quali deve reggersi la comunità degli Stati nel secolo definito “globale”.

da “La civiltà cattolica”