extracomunitari assistiti

Tecnicamente, la sostituzione è in atto. Dal 2008 al 2016 mezzo milione di italiani si sono trasferiti all’estero per lavoro, mentre molti più stranieri immigrati (regolari e non) li hanno frattanto sostituiti qui in Italia. A rivelare il primo dato, quello sugli italiani, è il rapporto Il lavoro dove c’è presentato a Roma dall’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro: i connazionali si sono spostati soprattutto in Germania (20mila nel solo 2015) e Gran Bretagna (19mila) ma anche Francia (oltre 12mila).
A complicare il calcolo c’è che non sono stati solo gli italiani ad abbandonare la penisola: tra il 2008 e il 2016 anche 300mila cittadini dell’Est Europa sono tornati in patria, e questo perchè trasferirsi da noi “non era più giustificato dai redditi da lavoro percepiti”. C’è di che pensare.
Il secondo dato, quello sul numero di immigrati presenti in Italia dal 2008, come ben sapete è di difficile computazione: Istat, Eurostat, ministero dell’Interno, Ismu e molte altre fonti hanno il loro daffare nel distinguere tra migranti regolari o irregolari, clandestini, rifugiati, richiedenti asilo, profughi, apolidi, sfollati o altre categorie, ma c’è una certezza: costoro sono molti ma molti di più dei 509mila italiani che hanno lasciato il Paese.
La sostituzione è tutta qui, anche se non ha equivalenza per status lavorativo: limitiamoci a dire che le “occupazioni” degli italiani che vanno all’estero e quelle degli stranieri che vengono in Italia sono decisamente differenti. Per brutto che sia dirlo, complice la crisi, in Italia è in atto non solo una sostituzione, ma anche una proletarizzazione fondata sui famosi mestieri che gli italiani non vogliono più fare: sia legali sia illegali. Anche sulla nazionalità degli immigrati mancano dati precisi, ma in linea di massima rumeni, albanesi e marocchini rappresentano circa complessivamente il 40 per cento degli stranieri presenti e, nonostante il perdurare della crisi, gli occupati stranieri continuano a crescere, diversamente dagli occupati italiani che invece decrescono: +22.000 i primi rispetto al 2012, -501.000 i secondi nello stesso periodo. Infine: gli alunni con cittadinanza non italiana sono circa 9 per cento della totalità degli studenti.

Continente morente

Ma se è vero che non siamo più una nazione, bensì parte di un Continente confederato, è proprio dai dati europei che l’espressione “sostituzione” trova piena legittimità. È dell’agosto scorso la notizia che i morti, in Europa, hanno superato i vivi: ed è la prima volta che succede da quando l’Eurostat nel 1961 si incaricò di contare gli uni e gli altri. Il dato pare semplice: nel 2015 sono nate 5,1 milioni di persone e ne sono morte 5,2 milioni, ma l’altra notizia è che la popolazione europea è complessivamente aumentata, cioè è passata da 508,3 milioni a 510,1 milioni: e capite bene che qualcosa non quadra. E sono, naturalmente, gli immigrati. I quali sono aumentati (circa 2 milioni in un anno) mentre gli europei residenti stanno lentamente sparendo.
Restando all’allegro tema iniziale, cioè i morti contrapposti ai vivi: in Italia nel 2015 sono morte circa 650mila persone, e il nostro tasso di mortalità (10,7) non è lontano dalla media europea che è di 10,3; in effetti ci sono paesi come la Bulgaria (15,3) e la Lettonia e la Lituania (14,4) dove si schiatta molto di più.
La Germania ha 82 milioni di persone, la Francia 66, la Gran Bretagna 65, l’Italia 60. Ma – lenta sinché volete – è comunque in atto una sostituzione. Non ci fosse, il caso europeo sarebbe un esempio quasi perfetto di controllo delle nascite: paradossalmente, “più morti che vivi” sarebbe una buona notizia in un Pianeta brulicante e bisognoso di sempre nuove risorse. Anche gli immigrati, sulla carta, dovevano rappresentare una buona notizia: il loro apporto, in teoria, avrebbe dovuto comporre una società ideale e meticcia che andasse a impiegarsi nei famosi lavori che gli europei (non solo gli italiani) non vogliono più fare: così, almeno, teorizzavano quei “maestri del pensiero unico europeo” per come li definì Giulio Tremonti in un’intervista a Libero; gli immigrati – era il senso – avrebbero fatto i lavori più umili e oltretutto ci avrebbero indirettamente pagato le pensioni, quasi fossero una sorta di popolo di ricambio. La realtà, però, si sta rivelando diversa. Molti immigrati (in questo caso non enumeriamo quelli irregolari) mandano i soldi nel paese d’origine e li sottraggono al ricircolo economico, programmando peraltro di andare a svernare nella terra dei loro natali quando l’età della pensione l’avranno raggiunta loro; alcuni – soprattutto orientali – tengono in piedi autentiche economie parallele che sono impermeabili o quasi alla nazione che li ospita, e soprattutto al fisco. Questo per quanto riguarda gli immigrati più fisiologici e maggiormente integrati, e lasciando da parte l’ampia parte che lavora in nero per una ragione o per un’altra.

Mantenuti

Ma c’è un’altra grande parte di immigrati (certo non solo profughi o rifugiati) che produce poco o nulla e si candida a impossessarsi dello status che tanti europei non possono più avere: quello degli assistiti, dei mantenuti, epicentro di un neo-welfare che in tutta Europa deve fronteggiare i bisogni e le emergenze di ondate ingestibili di migranti. C’è infine un’ultima categoria di immigrati, e va detto: quelli che si muovono da un paese all’altro con l’intento specifico di ingrossare attività criminali (sappiamo quali: molti europei non vogliono più fare neanche quelle) oppure che finiscono per caderci dentro per forza di cose, grazie a quelle autentiche scuole di formazione che le carceri rappresentano: gli immigrati, come è noto, sono in crescita anche lì, e di conseguenza sono in crescita i loro costi di mantenimento. A parte questo, i dati più difficili da reperire – per Istat ed Eurostat eccetera – riguardano la precisa condizione socio-economica dei nuovi immigrati italiani e neo europei, quelli che appunto ci stanno sostituendo: ossia quanto rappresentino una risorsa e quanto invece un costo non affrontabile all’infinito, quanti poi siano in galera, quanti dovrebbero starci, e quanto, ancora, potrà durare l’autoctona e demodè “popolazione europea” propriamente detta. Ma questo è un concetto relativo.
Restando all’Italia, per interi decenni è durata una sua “meridionalizzazione”: c’è un bel libro di Aldo Cazzullo (L’Italia de noantri, Rizzoli 2011) che, da piemontese pur alieno a ogni leghismo, dimostrava serenamente come Roma e il Sud avessero progressivamente acquisito una centralità e imposto un’egemonia culturale via via rilassata, a volte indolente, refrattaria al concetto di bene comune. È accaduto per decenni e nei decenni. L’equilibrio, ora, si sta semplicemente spostando ancora più a Sud. Del mondo.

Filippo Facci, “Libero”.