“Due che si amano fanno una famiglia”, ha detto la sindaca Appendino. Doveva rispondere all’esposto depositato in procura dal Movimento Pro Vita, contro la registrazione di figli di coppie omosessuali. “Continuerò le trascrizioni e non smetterò di dare a questo amore la possibilità di realizzarsi”, ha aggiunto Appendino.
In due righe, nel discorso di Appendino, la parola “amore” compare due volte.
È solo il caso più recente.
La parola “amore” (o il verbo “amare”) compaiono sempre più spesso nella cronaca.
“L’ho fatto per amore”, dicono gli assassini di mogli, compagne, fidanzate. “Io la amo”, dicono gli stalker. “Ho sottratto mio figlio a suo padre (o a sua madre) perché lo amo”, dice il genitore che ha rapito il figlio portandolo all’estero. “Non faccio incontrare mio figlio con suo padre (o con sua madre) perché lo amo e, se lo incontra, sta male”, spiega il genitore che non rispetta l’affido condiviso.
“Ho donato il mio utero per amore”, dicono le donne che partoriscono il figlio biologico della sorella o della figlia o della amica. “È un gesto d’amore”, dicono le donne che hanno affittato con regolare contratto il loro utero per partorire un figlio consegnato a sconosciuti, che hanno pagato loro tutte le spese e forse di più.
“L’ho fatto nascere per amore dell’altro mio figlio malato”, dicono i genitori che concepiscono un secondo figlio, per poter disporre del suo patrimonio genetico.
La parola “amore” sta diventando un contenitore vuoto che ciascuno è autorizzato a riempire come gli fa più comodo.
Il suo significato è diventato opaco.
Il suo spettro di contenuto si è allargato in tutte le direzioni.
La parola “amore” è sempre meno una parola.
Sta diventando, io credo, uno strumento.
Lo strumento principale per garantirsi una giustificazione morale, capace di garantire la liceità di ogni comportamento.
Serve per controllare e per agire senza controlli.
Impunemente.
Perché accettiamo che la parola, e dunque il concetto di “amore”, vengano sottoposti a un simile abuso?
Penso, magari sbaglio, che la ragione abbia a che fare con la necessità umana di disporre di un apparato di riferimento morale. La cultura contemporanea si dedica raramente a elaborare teorie morali, ma crea continuamente nuovi comportamenti. Agisce prima di teorizzare.
E l’evoluzione del progresso scientifico sta avendo una accelerazione imprevista e travolgente.
“Ex post”, la parola “amore” diventa, nella società in cui ci troviamo a vivere, un passepartout suscettibile di essere applicato a qualunque comportamento. Poiché è in assoluto la più potente delle parole di cui disponiamo, la parola fondante della civiltà e delle religioni, ci ammutolisce. E ci toglie la capacità di distinguere. Nel preciso momento in cui la parola “amore” viene assodata a un qualunque comportamento, noi accettiamo che venga azzerato il nostro giudizio.
Nessuna replica è possibile. Perché la parola “amore” è diventata l’epitome della Morale. È, lei
stessa, “la Morale”.
A me sembra che invece la parola “amore” sia diventata un bene di consumo. E un’arma. Per manipolarci.

Antonella Boralevi, “La Stampa”.